La speranza del futuro oggi ha il nome e le sembianze dell'Unione europea. Tutti i nuovi Stati sorti dall'ex Jugoslavia guardano, infatti, a Bruxelles, alla ricerca di una legittimazione democratica che consenta altresì il miglioramento delle condizioni di vita delle rispettive popolazioni. Il quadro è naturalmente variegato: la Slovenia è ormai da tempo membro a pieno titolo del club europeo, la Croazia sembra in dirittura d'arrivo, mentre l'ex Repubblica jugoslava di Macedonia non è ancora riuscita ad iniziare il negoziato di adesione per la nota controversia con la Grecia sul suo nome; il Montenegro - come del resto l'Albania - attende una risposta, ma ha già conseguito l'Accordo di stabilizzazione e di associazione, la cui finalizzazione ancora invece manca per la Serbia e la Bosnia Erzegovina.
Una missione della Commissione esteri della Camera dei deputati, che ho guidato ai primi di marzo a Pristina, Skopje, Belgrado e Sarajevo, è stata l'occasione per una verifica sul campo della situazione della regione e delle sue prospettive politiche ed economiche.
In tutte le capitali, le nuove classi dirigenti scommettono sulla carta dell'integrazione europea e confidano che anche nella loro terra possa accadere il miracolo che ha funzionato nel cuore dell'Europa facendo archiviare la plurisecolare conflittualità franco-tedesca. Lubiana annuncia per il prossimo 20 marzo un vertice dei capi di Stato e di governo della regione per favorire il processo in corso. L'Italia si è notevolmente esposta al riguardo, lanciando lo scorso anno con il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, un Piano in otto punti per i Balcani occidentali. Di recente, anche la Grecia - prima di sprofondare nel baratro della crisi economica - ha invitato a indicare una data per il traguardo dell'ingresso nell'UE, tra il 2014 e il 2018 (a cento anni, in pratica, dall'inizio e dalla fine della prima guerra mondiale).
Un certo ottimismo si è diffuso dall'inizio dell'anno per la liberalizzazione dei visti di ingresso nell'area Schengen che è stata riconosciuta ai cittadini serbi e macedoni: un atto di giustizia ed intelligenza politica che ha premiato la politica europeista dei governi di Belgrado e di Skopje. Lo stesso provvedimento è però atteso anche in Bosnia Erzegovina ed in Kosovo, non a caso i due Paesi in cui, nonostante l'impegno della comunità internazionale, la situazione resta critica.
A Sarajevo, la costruzione istituzionale degli accordi di Dayton mostra immediatamente la sua artificiosità. Tutti vorrebbero porre termine al protettorato internazionale ancora incarnato dall'Alto Rappresentante, ma le soluzioni restano discordi. Dalla Repubblica serba viene la preoccupazione di preservare la massima autonomia, mentre la parte bosniaca punta a rafforzare il livello federale e quella croata chiede il riconoscimento della sua entità come terzo soggetto a sé stante. L'Unione europea è però stata chiara nel segnalare alla Bosnia Erzegovina che soltanto restando unita ed acquisendo la necessaria funzionalità statale potrà continuare ad aspirare ad essere integrata. Tutti gli osservatori internazionali concordano perciò nel valutare con estrema preoccupazione il futuro di un paese che non ha ancora ritrovato uno spirito di coesione.