NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Il príncipe: Niccolò Machiavelli ed Erasmo da Rotterdam di Italo Francesco Baldo

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Il príncipe: Niccolò Machiavelli ed Erasmo da Rott

Introduzione

L’umanesimo italiano, iniziato nella temperie culturale di Padova con Albertino Mussato (1261-1329) e Francesco Petrarca (1304-1374) con qualche spunto anche nella città di Vicenza con Benvenuto Campesani (c.1250-1323) si diffuse in tutta Italia; a Firenze ebbe la sua maggiore fioritura. Difficile ricordare tutti coloro che parteciparono a questo movimento che non è racchiudibile in una generica definizione e nemmeno in quella di una sola esaltazione dell’uomo addirittura come emancipazione da Dio, tanta cara a quel filone che inizia con la pubblicazione del saggio J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia del 1860 (ultima edizione Roma, Newton Compton, 2010) e definisce la separazione tra il Medioevo, oscurantista e il Rinascimento luminoso, anticipazione dell’Illuminismo anche massonico, che stava rinnovando, ma che la Chiesa cattolica romana e il Concilio di Trento lo impedirono soprattutto per l’Italia. La tesi è ancor oggi una delle più seguite, purtroppo essa non dà ragione a quell’anelito anche religioso che fu tipico degli Umanisti, come N. Cusano e Erasmo, tra i tantissimi.

Sul finire del secolo XV e l’inizio del successivo l’umanesimo ebbe una grande stagione in tutta Europa, basti ricordare, tra i tanti, il tedesco Filippo Melantone, nome italianizzato di Philipp Melanchthon nato Philipp Schwarzerdt (1497–1560), il santo inglese protettore dei politici, che non lo imitano, Tommaso Moro (1478-1535), lo spagnolo Juan Luis Vives (1492–1540) e il fiammingo Erasmo da Rotterdam (1466 o 69- 1536). È vero che qualche studioso tende a separare l’umanesimo del 1400 dal Rinascimento, considerato come movimento diverso e a parte, con suoi esponenti, come fa in parte E. Garin nella sua importante Storia della filosofia Italiana (Torino, Einaudi, 1966, 3voll.), ma i suoi legami, sostiene lo studioso, con l’umanesimo e in particolare con Marsilio Ficino e la sua Theologia platonica del 1482 con il chiaro riconoscimento della possibilità della certezza matematica sono alla base del pensiero di Leonardo sulla matematica e di quello dello stesso Galileo Galilei.

In questa temperie culturale, che piace più chiamare, legandoli per tante ragioni, Umanesimo-Rinascimento operano Niccolò Machiavelli (1469-1527) e il coetaneo Erasmo da Rotterdam(1466 o 69- 1536). Due personalità, diverse per formazione e per impegni di vita, ma tra loro esiste un preciso legame; questo è costituito dalla la riflessione intorno al valore della vita associata e del modo migliore, ossia politico, governarla.

Parleremo delle loro riflessioni nell’anno (2013) in cui si ricorda la stesura dell'opera di Machiavelli Il principe e successivamente quella di Erasmo iniziata a scrivere due anni dopo nel 1515 e finita l’anno successivo, ossia l’Institutio principis christiani, per concludere con una nuova visione del testo del Segretario fiorentino che lo pone in una luce diversa da quella che la tradizione ha consolidato e che è base per tutte le concezioni politiche che scindono la morale dal governo della società.

 

La vita di Machiavelli

Il príncipe: Niccolò Machiavelli ed Erasmo da Rott (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Machiavelli, Niccolò, diplomatico, letterato e pensatore fiorentino nacque in Firenze nel 1469. I suoi studi furono di Grammatica, che secondo anche lo schema medioevale del trivio comprendeva lo studio della lingua latina, e di tutto ciò che era “litteris mandatur”. Accanto a questa possiamo arguire che anche lo studio della retorica, arte del comporre un discorso e della Dialettica, cioè della filosofia. I classici latini, che proprio l’umanesimo aveva contribuito a riscoprire e a porre nella luce di una conoscenza per la loro specificità lo formarono, insieme alla lettura del poema di Lucrezio De rerum natura. Fin da giovane inizia a comporre e a partecipare alla vita politica della città. Con la caduta dei Medici e l’affermarsi della prospettiva religiosa e politica di Gerolamo Savonarola, Machiavelli si schiera con l’aristocrazia contro il frate. Dopo la condanna del domenicano nel 1494 Machiavelli entra come Segretario nella seconda Cancelleria, occupandosi di problemi diplomatici in Italia e in Francia continuò ad interessarsi delle vicende politiche della città e della popolazione della Valdichiana, che si era ribellata. progettò anche una milizia della repubblica fiorentina, dove i cittadini ne facessero parte, superando in questo modo la visione della guerra condotta solo da mercenari. Negli anni del pontificato di Giulio II e delle vicende della Lega di Cambrai ebbe a partecipare a numerose ambasciate, e a subire anche qualche ingratitudine da parte della Repubblica. Nel 1508 stese il Rapporto di cose della Magna, noto anche come Ritracto di cose della Magna, ricordando in questo lo scritto di Enea Silvio Piccolomini. Il 29 agosto 1512 le fanterie fiorentine furono annientate e Prato sottoposta a uno spaventoso saccheggio, due giorni dopo Piero Soderini, il gonfaloniere a vita di Firenze, dovette fuggire e ritornarono i Medici che lo “licenziarono” e fu anche sospettato di aver preso parte alla congiura di A. Capponi e P. Boscoli contro i Medici, arrestato fu anche torturato il 12 febbraio 1513. Di fronte alla situazione Machiavelli si ritirò nel suo podere e cercò ancora di avere nuovi incarichi dai Medici, intanto attesa a diverse composizioni e soprattutto al De principatibus, terminato l’anno successivo, dedicato a Lorenzino de Medici ma stampato però solo il 4 gennaio 1532 a Roma presso Antonio Blado d’Asola con grazie e privilegi di papa Clemente VII, con il titolo Il principe.

Nel gennaio 1515 fu ripresa in considerazione la sua esperienza anche in campo militare e fu consultato, ma nel febbraio nuovamente allontanato. Intanto egli si avvicinò ad un gruppo di letterati di ispirazione repubblicana nel cenacolo degli Orti Oricelli (orti di Rucellai, che aveva ospitato l’Accademia platonica) e continuò la composizione de Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, terminati nel 1517. Inizia anche a comporre De re militari che termina nel 1520, dove sostiene, quasi in sintonia con Erasmo, la valutazione assolutamente negativa dei mercenari (cfr. l’Adagio erasmiano Dulce bellum inexèpertis).

Scrive un poemetto, volgarizzazione dell’Andria di Terenzio, L'asino d'oro (incompiuto) e la misogina favola, Belfagor arcidiavolo. Intanto si allenta anche la diffidenza medicea nei suoi confronti, grazie agli uffici di Lorenzo Strozzi, Fu rappresentata nel 1520 la commedia La Mandragola, che ebbe successo anche alla corte papale di Leone X Medici. Compi ancora qualche missione negli anni successivi. Strinse amicizia con Francesco Guicciardini e con lui iniziò un importante scambio epistolare. Scrisse la Vita di Castruccio Castracani, e attese alla composizione definitiva nel 1525 delle Istorie fiorentine, in otto libri dedicate a papa Clemente VII (Giulio de’Medici). Nel gennaio del 1525 Machiavelli aveva fatto rappresentare a Firenze la commedia amorosa Clizia, basata sulla Casina di Plauto. Si ricorda, ma con qualche dubbio di attribuzione, la composizione nel 1524 di un Dialogo sul "fiorentinismo" di Dante, dove il Segretario intervenne nelle polemiche linguistiche del tempo, alle quali si rifece anche dal vicentino Gian Giorgio Trissino nel 1529 con Il castellano, dialogo immaginario tra Filippo Strozzi e Giovanni Rucellai, dove sosteneva la tesi "cortigiana-italianista", ossia la “costruzione” di una lingua formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei letterati della penisola italiana.

I Francesi intanto cercavano di dominare in Italia, ma la loro sconfitta a Pavia nel 1525 da parte degli Spagnoli e degli Imperiali, re di Spagna e Imperatore era Carlo V d’Asburgo, fece ritornare Machiavelli alla diplomazia. Fu inviato nel giugno 1525 in Romagna, presso F. Guicciardini, per organizzarvi la milizia, l’anno seguente fu nominato cancelliere dei procuratori alle mura. Nel maggio, a Cognac, si strinse una lega tra il papa, i Fiorentini, i Francesi e i Veneziani contro l'imperatore Carlo: presto la guerra si accese in Italia settentrionale e il Segretario fiorentino seguì le vicende belliche. Nel 1527, durante il Sacco di Roma, Machiavelli è probabilmente a Civitavecchia e intanto i medici sono scacciati da Firenze e restaurata la Repubblica, di filiazione savonaroliana, che non si servì più del diplomatico. Niccolò Machiavelli si spense a Firenze il 21 giungo del 1527 e fu sepolto in Santa Croce, dove ancora risuona quanto di lui scrisse Ugo Foscolo ne I sepolcri:

 

“A egregie cose il forte animo accendono

l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra

che le ricetta. Io quando il monumento

vidi ove posa il corpo di quel grande

che temprando lo scettro a' regnatori

gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela

di che lagrime grondi e di che sangue;…”

 

Il principe (riassunto)

Una vita intensa, capace di coniugare interesse politico e delizie letterarie e studi storici, Di lui molti scriveranno ma è Il principe il saggio più letto e discusso.

Ne diamo un breve riassunto, tratto dall’Enciclopedia Treccani in line

 Il Principe. Si compone di una dedica e ventisei capitoli di varia lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad accettare le tesi espresse nel testo, che sono nei titoli in lingua latina.

La prima parte dell'opuscolo (capitoli I-XI) spiega quali siano i generi dei principati: ereditarî, nuovi, misti di una parte antica e di una nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e forze proprie, fortuna con forze altrui (il settimo capitolo è imperniato sulla figura del Valentino, che ebbe il principato grazie al padre, Alessandro VI, e alla morte di lui lo perdette, nonostante i suoi gesti di eccellente virtù politica), il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre capitoli dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario, ausiliario, proprio, misto), M. discute le qualità per cui un principe, ovvero in generale un capo politico, è lodato o vituperato: contro la tradizione moralistica, l'autore afferma il valore supremo della "verità effettuale", cioè la necessità di affrontare gli altri uomini per quello che sono e non per quello che dovrebbero essere. Infine, spiegato perché i signori d'Italia hanno perso i loro stati di fronte alle invasioni straniere (cap. XXIV) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna (cap. XXV), M. rivolge un'appassionata esortazione alla casa dei Medici perché guidi una riscossa italiana contro il "barbaro dominio" di Spagnoli e Svizzeri.

 

Considerazioni

Una domanda avvince sempre chi legge un trattato, perché fu scritto? Quali le ragioni prima di tutto. Non dobbiamo dimenticare che gli Stati Italiani del primo Cinquecento, dopo la caduta dell’equilibrio che Lorenzo de Medici, il Magnifico, era riuscito a costruire, era in seria crisi sia per fattori in terni sia per la lotta che le due maggiori potenze di allora conducevano per la supremazia. La politica di Massimiliano I d’Asburgo era riuscita a legare alla sua dinastia oltre che i territori austriaci e del Sacro Romano Impero, anche quelli del Ducato di Borgogna, nominalmente feudatario del re di Francia e che si estendevano fino agli odierni Paesi Bassi, La Spagna e i suoi domini oltreoceano. Lo scontro fu in Italia, con la Lega di Cambrai nata nel 1508, tesa a fermare l’espansionismo veneziano, ma anche a stabilire quali dovessero essere i rapporti tra le potenze. Firenze in questa situazione, con la sua Repubblica, stanca erede del passato, disordinata dalle tensioni etico-religiose di Savonarola e dai conflitti interni, viver libera non sapeva. Gli appetiti della corte papale specialmente con Giulio II indicavano, dopo il pontificato di Alessandro VI Borgia e dei tentativi del Duca di Valentinois, il duca Valentino, suo figlio di costituirsi uno Stato nell’Italia centrale, richiedevano una visione politica ben diversa. Machiavelli che prospettava un governo attento ai cittadini, fondato anche su responsabilità religiose ed etiche dei governanti, indicò con lo scritto del 1513, che sia il principe che il popolo, cfr. la Dedica a Lorenzo de Medici, allora signore di Firenze, debbono” conoscere bene la natura del popolo” e del modo con cui si governa. Tutto ciò per l’aspirazione “che l’Italia, dopo tanto tempo, legga uno suo redentore.”che faccia proprie le parole del Petrarca (Canzone all’Italia): “Virtù contro a furore/ Prenderà L’arme; e fia el combater corto:/Ché l’antico valore/Nelli italici cor non è ancor morto (cfr. la chiosa de Il principe: Esortazione a pigliare l’Italia e liberarla dalle mani de’ barbari (in latino nel testo), che ricorda tanto quanto scrisse Gian Giorgio Trissino dal Vello d’Oro, L’Italia liberata da Goti, ossia dai Barbari del 1527. Conoscere come esistono e si reggono gli Stati, evitando la tirannia, perché è “laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende” Purtroppo aggiunge Machiavelli al capitolo XVIII “non di manco si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà”. Quindi ecco il principe, il tiranno che come volpe e come leone domina e fa di tutto per dominare, eliminando proprio quelle che debbon esser le virtù proprie di un vero principe. Non si agiscano come Alessandro VI che “non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini e sempre trovò subietto da poterlo fare”. Il principe governerà con paura dei sudditi e dei potentati esteri, ossia timore, che vuol anche dire reverenza e attenzione, perché dalla sua “ è la maestà del principato, le leggi, le difese delli amici e dello stato che lo defendano; talmente che, aggiunto a tutte queste cose la benevolenza pupulare, è impossibile che alcuno sia sì temerario che congiuri”.

Ecco che Machiavelli indica la vera buona natura del principe e ne stigmatizzi le negatività, tra cui proprio quella che si affida alla fortuna per governare, dimenticando che essa non è di per sé buona, ma può anche essere negativa, (in latino il termine è medio, ossia per specificarlo bisogna aggiungere l’aggettivo “buona” o ” cattiva”) e quindi governa metà delle cose umane. Ecco quindi che la natura del principe non teme le congiure se ha la benevolenza del popolo (cap. XIX) e gli Stati governati con diligenza e soddisfazione per il popolo saranno contenti. Manifestando una francofila Machiavelli apprezza la Francia perché nel suo governo si “ truovano infinite costituzioni buone, donde dipende la libertà e sicurtà del re, delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità” (cap. XIX).

Ma di Machiavelli non s’intese questo, ma che egli avesse voluto scrivere un manuale per la conquista del potere, perché i cittadini viver liberi non sanno (cfr. cap.V), ossia che il tiranno prende proprio spunto dal disaccordo dei cittadini e dalle loro lotte per affermare che non sanno vivere in libertà e quindi debbono essere dominati da chi li sa guidare. Un’anticipazione di quella che è anche la natura del totalitarismo che in Europa si affermò a partire dall’ottobre del 1917, dove, come sostiene H. Arendt, il partito sa come e dove condurre il popolo, che vive considerato incapace di amministrarsi: “Ma, quando le città o le provincie sono use a vivere sotto un principe, e quel sangue sia spento, sendo da uno canto usi ad obedire, dall'altro non avendo el principe vecchio, farne uno infra loro non si accordano, vivere liberi non sanno; di modo che sono più tardi a pigliare l'arme, e con più facilità se li può uno principe guadagnare et assicurarsi di loro”.

 Il machiavellismo nasce, assumendo la visione di una conquista senza scrupoli del potere, più che la denuncia dei pericoli alla vita dello Stato che porta un tiranno. Una visione positiva e ideale quella di Machiavelli, sulla scia di quanto scriveranno Erasmo e anche Tommaso Moro, e che espresse continuamente, come risulta dalla raccolta di sue espressioni, prese dalle opere, intitolata La mente di un uomo di stato, (ultima edizione) Lugano, G. Topi, 1969, dove al cap. XIII indica che “il buon principe con il suo esempio raro e virtuoso fa nel governo quasi il medesimo effetto, che fanno le leggi e gli ordini; perché le vere virtù d’un principe sono di tanta reputazione, m che gli uomini buoni desiderano imitarle, e li tristi si vergognano tener vita contraria”.

La fortuna del pensiero di Machiavelli non fu però nella direzione indicata dal Segretario, ma in quella dell’uso spregiudicato della forza e dell’astuzia. Si stigmatizzò questo, nel mentre lo si attuava. Di “machiavellismo” furono perfino accusati i Gesuiti e chiunque avesse per scopo il potere e il dominio. Forse bisognerebbe fare chiarezza sula natura della politica, che è per Machiavelli e per molti, compresa la Compagnia di Gesù, dipendente dalla morale e non autonoma, come spesso anche oggi si vorrebbe intendere, parlando di Stato “laico”, ma che con le leggi interviene nei fondamenti morali, facendo finta di non volerli assumere e in realtà assumendo una determinata visione relativistica della morale.

Infatti, il machiavellismo più che una teoria, è sempre stata una prassi e ben seguita soprattutto da coloro che intendono il potere politico come dominio e non come servizio da rendere alla società per un fine morale. Molta la letteratura antimachivellica, cfr. A. Panello, Gli antimachivellici, Firenze, Sansoni 1943, tra questi spicca lo scritto di Federico II di Hohenzollern. Il sovrano, ben noto per l’arte di provocare guerre e aumentare i propri possedimenti con due guerre sanguinose per la Slesia, fu, oltre che compositore di musica, amico di Voltaire, che però gli girò le spalle, anche saggista. Nel 1739, meditando su Il Principe di Machiavelli, aiutato dal cortigiano Voltaire, scrisse nel 1739 l’Antimachiavelli, pubblicato a Londra e l’Aja nel 1741. Il testo nell’indicazione al re da parte di Voltaire avrebbe dovuto avere lo stesso titolo del saggio di Gentillet I. (1532-1595), Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un royaume ou autre principauté …, contre Nicolas Machiavel, Genève, 1576. In esso il re prussiano analizza capitolo dopo capito Il principe, dando ai suoi capitoli lo stesso nome che avevano nel testo del Segretario. Con chiarezza il testo federiciano afferma fin dall’inizio: ”Nel campo della morale Il principe di Machiavelli è ciò che l’opera di Spinoza rappresenta in quello della fede; Spinoza ne scalzava i fondamenti, mirando soprattutto a demolire la religione, mentre Machiavelli corrompeva la politica con l’intenzione di distruggere i principi di una sana morale: gli errori del primo sono semplicemente speculativi, mentre quelli dell’altra riguardano la vita pratica.” Un giudizio pesantissimo che accusa di falsità i ragionamenti di Machiavelli, che “presenta degli scellerati sotto la maschera di uomini grandi” (cap. XXVI) in linea con quelli consueti, con l’aggiunta della valutazione di Spinoza. Federico II accoratamente chiede che i principi siano ben atro da quello del segretario, e chiede che i principi si adoperino per la pace e contro le guerre, anche quelle di religione che sono da “imputare all’imprudenza dei principi”. La chiosa al testo è un’invocazione a rispettare i sudditi e i regnanti perché “il mio scopo, afferma Federico, è di dire la verità, incrementare la virtù e non adulare nessuno” Giustizia umanità regolano l’opera dei regnanti per il re, ma egli rispettò quanto diceva? Come tutti i machiavellici, fa professione contraria, ma per meglio giustificare quanto compie.

Agli antimachiavellici appartiene anche la riflessione di A. Gramsci, il fondatore e propugnatore del comunismo in Italia; dopo aver fondato nel 1921 il Partito Comunista d’Italia e il suo giornale nel 1924, l’Unità, subì la carcerazione inflittagli dal Tribunale speciale che lo condannò per reati politici. Nel periodo in cui fu in carcere, studiò moltissimo e la sua riflessione, raccolta ne I Quaderni dal carcere, è consegnata in molti scritti e appunti. Tra questi le Noterelle sulla politica di Machiavelli rivestono un preciso interesse; furono scritte tra il 1932 e il 1934, Quaderno 13. Gramsci non ricorda quando su Machiavelli aveva detto Marx ne L’ideologia Tedesca (Roma, Ed. Riuniti, 1969, p.305) criticando M. Stirner da lui considerato il padre dell’anarchismo che: "deve introdurre una determinazione empirica del diritto da poter rivendicare per l’individuo, ossia deve riconoscere nel diritto qualche cosa di altro che non sia la santità. Qui avrebbe potuto risparmiarsi tutte le sue grossolane macchinazioni, poiché a partire da Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Bodinus (latinizzazione di J. Bodin, mio), ecc. nei tempi moderni, per non parlare dei più antichi, si è presentato il potere come fondamento del diritto; con ciò la concezione teorica della politica era emancipata dalla morale e restava soltanto il postulato che la politica doveva essere oggetto di studio autonomo”.

Fin dall’inizio delle sue Noterelle Gramsci appunta: “Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configuravano fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva»”. Un testo, prosegue Gramsci, vicino alla tesi di Jean Sorel, l’anarcosindacalista, che viaggia tra utopia e dottrinario raziocinio.

Gramsci apprezza Machiavelli, anche se ne coglie i limiti storici e soprattutto vede la classe politica italiana seguirlo nel machiavellismo, mentre si può invece accostare Machiavelli a Marx, che pur differenziandosi e superandolo, è consapevole che l’utopismo machiavellico si realizza in un principe astratto, mentre con realtà, dovrebbe mentre dovrebbe essere il partito, espressione d’avanguardia della volontà generale, a infrangere lo status di negatività della politica dovuta alle classi dominanti. Il principe non è una persona, che esprime la sua ideologia, ma un partito che opera nella prassi, come inizio, principio di una nuova epoca per la politica, intesa come scienza della politica capace di trasformare il mondo, non una crociana filosofia della prassi, perché questa, come il pensiero di Machiavelli, difetta di analisi economica, della struttura e finisce solo nella dimensione della sovrastruttura. In nuce, afferma Gramsci, nel pensiero di Machiavelli sono contenuti gli elementi di rivoluzione intellettuale e morale e il suo “è stile di uomo d’azione, di chi vuole spingere all’azione, è stile da «manifesto» di partito.” Ben nota è la prospettiva politica di Gramsci, che rifiuta certo il machiavellismo, ma finisce per adottare il principio antimachiavellico, ossia che in politica è la conquista del dominio la parte fondamentale e che questo dominio deve essere quello della classe proletaria contro il capitalismo, per affermare la propria legittimità a governare in nome e per conto del popolo, subordinando la politica come servizio di tutti i cittadini ad una visione astratta e strumentale, perché di parte, della politica ma incidente, rivoluzionaria, perché è applicata secondo principi a priori, dalle avanguardie che si esprimono nel Soviet supremo o Comitato Centrale per dirla “all’italiana”, che determina il vantaggio del Partito, che agisce però in nome di tutti senza però tenerne conto.

Numerosi altri scritti, tra cui il recente del pensatore comunista francese L. Althusser, Machiavelli e noi, Roma, Manifestolibri, 1999, recensito su “Il manifesto” del 13 luglio 1999 da Toni Negri che afferma che la vera filosofia pratica è il comunismo, attestano il grande interesse che il Segretario suscita nel dibattito e nella riflessione politica anche oggi. Sempre però è considerato dal lato della conquista del dominio, molto meno in quella che è invece, a mio avviso, la sua prospettiva morale, quella che informa la politica, non la rende autonoma e scevra da ogni imperativo morale, che per Machiavelli è sempre il Cristianesimo, il quale ha fondato il diritto delle genti, umanizzando il governo e mai dissipando la civiltà.

 

Fine I parte

 

nr. 02 anno XIX del 19 gennaio 2013

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