NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Nessuno mi può giudicare

di Italo Francesco Baldo

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Nessuno mi può giudicare

Sociologi, psicologi, insegnanti e perfino genitori s’interrogano sulla condizione giovanile e su quali siano gli elementi che determinano il grado di insoddisfazione e talora di apatia di fronte al mondo. Esiste, sembra, una dinamica di avversione alla vita, alle esigenze che il mondo offre. L’esempio più significativo ci viene proprio da quei giovani che manifestano, non perdono l’occasione, contro tutto e tutti, soprattutto se questi sembrano non dare loro ascolto. I no-global e i black block rappresentano la punta dell’iceberg della condizione giovanile; quanti giovani, che pure non dichiarano l’appartenenza ai movimenti più radicali, in effetti esprimono un radicalismo estremo nel rifiuto di qualsiasi autorità, di qualsiasi prospettiva che non sia quella che loro stessi credono aver stabilito. S’imputa questa situazione alla mancanza e alla crisi dei valori. L’analisi che è compiuta dimentica che nella cultura e nella storia proprio dell’Europa di valori, come si usa chiamarli, di prospettiva di impegno ce ne sono di tutti i generi e tipi. Dal cristianesimo, che costituisce la radice stessa dell’Europa, alla prospettive politiche, all’influenza di correnti mistiche orientali, ecc. è tutto un diffondersi di elementi nei quali credere e nei quali profondere la propria vita. Ma. Ogni prospettiva appare riduttiva, ogni dimensione che non sia quella individuale, è limitante. Ogni giovane desidera produrre a proprio uso e consumo una dimensione di vita. Le famiglie, la scuola, le altre agenzie educative non sono in grado di frenare questa incessante corsa verso l’individualismo, che si traduce in un facile e banale egoismo. Le ragioni vengono di volta in volta imputate alla società, alla dimensione economica, ai governanti, insomma a tutti tranne che a se stessi. La famiglia anziché essere il luogo deputato, come sostiene anche la Costituzione (art.30) dell’educazione dei figli, diviene sempre più il luogo della giustificazione. Mio figlio non può venir valutato da nessuno, anzi le mie stesse scelte non possono essere soggette a giudizio. Con tutta probabilità questa visione è mutuata da parte dei genitori stessi in una canzonetta, famosa alla fine degli anni Sessanta: nessuno mi può giudicare…nemmeno tu. Dove quel “ tu” sono tutti gli altri esseri umani. Si scopre così che la crisi dei valori deriva dal fatto che non vi può né vi deve essere giudizio alcuno. Ogni azione, ogni pensiero, in quanto frutto del mio essere, è assoluto, perché io sono assoluto di fronte al mondo. La relazione che io eventualmente stabilisco deve corrispondermi, altrimenti essa è negativa e va tolta. In campo scolastico sempre più evidente l’impossibilità di poter semplicemente affermare ad uno studente: “Tu non studi”. Delitto di lesa maestà individuale, perché lo studente nella scuola deve trovare tutte le condizioni che egli desidera, anzi bisognerebbe trasformare la scuola in un vero centro sociale, dove lo Stato metta a disposizione quanto i giovani richiedono. Non a caso la scuola brulica di progetti, di iniziative, di attività, di relazioni, di dinamiche. Il Piano dell’Offerta Formativa (POF) delle scuole è tutto un progettare di cui spesso non si comprende la vera ricaduta formativa, se non nelle dichiarazioni di intento, ma poi nessuno controlla effettivamente. E spesso son progetti per gli amici e gli amici degli amici o magari per qualche prospettiva diciamo ideologicamente corretta. Vi è poco di conoscenze e preparazione alla vita futura nel campo lavorativo, professionale, scientifico, ecc. I giovani, le famiglie pagando, spesso per poster sostenere gli esami di ammissione, in particolare perr alcune discipline, sono costretti ad andare a lezione privata, perché la quantità di contenuti disciplinare che viene impartita nelle scuola è poca. Ma questo non bisogna dirlo, altrimenti i docenti si offendono. Questa situazione appare ancora meglio se analizziamo la situazione penale: nessuno può essere giudicato colpevole e di conseguenza scontare una pena, come remunerazione dell’atto illegale compiuto. Si parla di “rieducazione” come sostiene la Costituzione della Repubblica Italiana e si finisce solo per parlare di indulto, un modo comodo per risolvere il problema, che non è nel reato in sé, ma nella dimensione di colui che lo compie. Non è colpa della società, come spesso si tende ad affermare, ma di colui che commette l’atto. Invece esiste sempre e comunque una giustificazione e se proprio non è facile trovarla, si ricorre a accusare sempre e comunque qualcun altro di aver indotto direttamente o indirettamente al reato. Le leggi dello Stato sono solo la produzione di politicanti, che debbono pur impiegare il loro tempo a Montecitorio o in qualsiasi altro Parlamento. Lo scollamento del vivere di una comunità statale è evidente, perché non esiste né certezza di diritto, né di pena.

Nessuno mi può giudicare (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Se da un lato: “Nessuno mi può giudicare”, dall’altro questo dipende da un altro fattore: il declino della nozione stessa di autorità e di obbedienza. La prima è vista solo come imposizione. I genitori impongono, i professori impongono, ma io devo ribellarmi, perché nessuno mi può comandare ed io ubbidire. L’autorità ha perduto perfino il suo etimo, dal latino augere, che significa innalzare, elevare, far sì che una persona acquisti nel corso degli anni, o dell’attività che compie conoscenze, competenze, abilità ed azioni sempre migliori. Il fine dell’autorità è l’elevazione morale, non la sottomissione. La crisi dell’autorità non solo dei genitori, ma della scuola, dello Stato, della Chiesa e della stessa cultura – Cicerone o Aristotele o san Tommaso sono solo individui che qualcuno tenta di far studiare- si riassume nell’ espressione di un libriccino di don Lorenzo Milani: l’obbedienza non è più una virtù. Il testo ha una sua connotazione precisa, era contro i cappellani militari, ma ha assunto l’emblematica prospettiva che non si deve obbedire a nessuno. Né a re, né papa, né ai genitori, né agli insegnanti, insomma a nessuno, perché io sono l’arbitro di me stesso e quindi io ubbidisco solo alla mia coscienza, in realtà solo a quanto in questo momento ritengo di fare, elevando a norma solo quello che voglio. È la prospettiva della libertà negativa, quella che non è opzione deliberata, ossia razionale, al bene, ma il seguire la propria unidvaga volontà psicologica, la quale non si sottopone al vaglio della ragione, ma a quello della condizione sensibile del momento. Quest’uomo, già teorizzato dal filosofo danese S. Kirkegaard, ha il suo emblema nella figura del don Giovanni di mozartiana memoria o del verdiano duca di Mantova nel Rigoletto per cui: “questa o quella pari sono”. In realtà tutto è “pari” non possiede valore intrinseco ed oggettivo di bene, ma dipende solo dalla mia volontà il seguirlo oppure no. Così non vi è né bene né male, dato che ogni realtà ha la stessa importanza in sé. Dipender dal singolo far sì che questa o quella sia in questo momento scelta.

 La distruzione dei valori, della morale stessa, non è la trasgressione, ma la negazione della loro importanza, del loro stesso sussistere. L’eredità degli anni Sessanta del secolo scorso oggi si fa sempre più sentire e condiziona lo sviluppo della persona, della società e di conseguenza della organizzazione del bene comune, cioè lo Stato.Una folla di solitudini, che si autocomprende, che si autogiustifica, che obbedisce solo a se stessa, questo il futuro? Sembra di sì!

 

 

nr. 39 anno XVIII del 9 novembre 2013 

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