NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Il grillo parlante

di Italo Francesco Baldo

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Il grillo parlante

Parte XI


Rinunciare alla libertà: Thomas Hobbes

 

Introduzione

“Ma è facile che gli uomini vengano ingannati dal superbo nome di libertà e, poiché manca loro il giudizio per distinguere, confondono con la propria eredità privata e con il diritto di nascita ciò che è soltanto un diritto pubblico” (T. Hobbes, Leviatano)

 

Con queste lucide parole inizia la riflessione intorno alla libertà nel mondo moderno ed in particolare in quello erede proprio della stagione della riforma iniziata da Lutero. Non si tratta più di riflettere sulla libertà come dimensione ontologica dell’uomo, a lui non appartiene la libertà, egli è “predestinato” da Dio e pertanto egli non possiede un raggio autentico d’azione. Per natura o per eredità dai sui progenitori l’uomo non è libero, egli è libero solo grazie al diritto pubblico, stabilito per convenzione e convenienza,, ma questo diritto egli lo deve pagare a caro prezzo.

L’elaborazione intorno alla libertà di Hobbes ha come radice proprio la visione luterana, la quale inizialmente affermava la libertà dell’uomo, cfr. Libertà del cristiano: lettera a Leone X, tr. it. Introduzione e note a cura di G. Miegge, Torino, Claudiana, 1991. Ma, a ben comprendere il testo luterano del 1520, scritto in occasione della bolla del Papa Leone X Exurge Domine nella quale il monaco agostiniano era minacciato di scomunica se non ritrattava quanto detto soprattutto a proposito della giustificazione mediante le opere e l’autorità del pontefice, delinea una visione della libertà che non è nella linea della chiesa cristiana secondo la tradizione. Ben presto Erasmo da Rotterdam vide nelle posizioni di Lutero la novità, non tanto sul tema delle indulgenze, quando su quello della libertà. Infatti, il riformatore intende la libertà non come l’arbitrio della persona che è tale per natura, ma la intende come una liberazione spirituale dalla condanna del male, una libertà che Dio dona attraverso la Grazia. Non servono quindi né la condotta personale né le opere: la fede dell’uomo senza la Grazia divina è insufficiente. Certo Lutero sostiene che il cristiano è signore di tutte le cose, è assolutamente libero, non sottoposto ad alcuno; il cristiano è servo zelantissimo in tutte le cose, sottoposto a tutti, ma il cristiano è quello che ha ricevuto la Grazia, non qualsiasi uomo che si dice cristiano. Il cristiano non ha dunque necessità delle leggi che determinino le sue azioni, le sue opere. Egli per il prossimo agisce secondo quanto in lui infuso da Dio.

La determinazione di leggi quindi non spetta al mondo cristiano in quanto tale, ma all’ordine politico che agisce di per sé e non in quanto dipendente dalla volontà/ leggi divine.

L’autonomia del politico rispetto alla dimensione delle fede è ben chiara in Lutero, come si può ben evincere dalla sua presa di posizione contro la ribellione dei contadini nel 1524/25 e dell’accettazione d’ogni ordine politico da parte della Chiesa ufficiale luterana, soprattutto in Germania anche durante il nazionalsocialismo. Va ricordato che quest’ultima adesione non fu supinamente accettata da tutti, basti ricordare D. Bonheffer (1906-1945) e la fondazione della Chiesa confessante che nella linea luterana riteneva necessario abbandonare la religione come via per giungere alla divinità. Sufficiente è solo la fede, e la fede è dono di Dio, che rifiuta ogni legalismo etico. La libertà è nel fare la volontà di Dio, che donato la Grazia.

Su questa linea teologica il luteranesimo ha sviluppato e sviluppa la sua prospettiva cristiana. Per l’uomo, al di fuori della fede cristiana, è delineata la direzione che lo vede dipendente dalle leggi solo nella dimensione del diritto pubblico, per determinarle è necessaria la costituzione di uno Stato. Proprio il tema della costituzione di uno Stato, dominante nella riflessione politica dell’età moderna fino alla rivoluzione francese, avrà due principali filoni, quello che si suole chiamare “anglosassone” con T. Hobbes (1588-1679) e J. Locke (1632-1704) e che culmina con il pensiero del liberalismo e quello continentale che ha nella prospettiva di C.L. de Montesquieu e J.J. Rousseau, due tra i principali esponenti.

 
 

Thomas Hobbes

L’importanza di questo pensatore è fondamentale per coloro che vogliano comprendere la riflessione intorno alla libertà, quale si è venuta delineando dopo il periodo delle riforme da quella di Lutero. La libertà è intesa come la caratteristica fondamentale dell’uomo nella sua vita, ma solo nella dimensione del diritto pubblico. Per questo motivo il pensatore inglese nella sua opera più nota, il Leviatano (a cura di R. Santi, Milano, Bompiani, 2001), ritiene che quando si rifletta intorno alla libertà siano necessari due elementi. Il primo la definizione precisa e il secondo la considerazione storica sull’origine dello Stato e della libertà nella società pubblica, che non è affermata come uno stato naturale, concezione affermata da Aristotele nel suo trattato Politica, nel quale definiva l’uomo “un animale politico” (che è insieme a molti-polis), ma acquisito. L’uomo nella sua singolarità è in se stesso e si determina in se stesso come un atomo, che ha consistenza in sé e non dipende da nient’altro che da sé. La natura ha determinato la singolarità d’ogni uomo, il quale non avverte una propensione naturale – chiamata -amore – verso gli altri singoli, perché egli è dominato dal proprio istinto di sopravvivenza e da quello dell’utile per la propria vita. Uno stato di natura che non può avere alcun condizionamento. Per cui “libertà significa (propriamente) assenza d’opposizioni (per opposizione intendo degli impedimenti esterni al movimento) e si può applicare tanto alle creature irrazionali e inanimate quanto a quelle razionali. Infatti, di qualunque cosa che sia legata o circondata in modo da non potersi muovere se non entro un certo spazio, spazio che è determinato dall’opposizione di qualche corpo esterno, diciamo che non ha libertà di andare oltre” (Leviatano, op. cit. p.343).

Non si tratta di riflettere filosoficamente quanto di constatare lo stato in cui si trova l’uomo per natura. La filosofia, infatti, non si occupa che di verità accertabili scientificamente e pertanto quelle che, per tradizione, soprattutto della Scolastica, erano oggetto di speculazione, come Dio, la rivelazione, lo spirito non sono tematizzabili e neppure altri temi come la storia, la politica che sono fondati sull’esperienza. La filosofia deve occuparsi dei corpi naturali o di quelli artificiali, come la comunità politica e la sua costituzione. L’analisi deve sempre iniziare dallo stato del corpo naturale e il corpo naturale dell’uomo è la condizione della sua sopravvivenza e del suo utile, tanto che per affermare ciò, egli si permette qualsiasi azione.

 

L'espressione latina homo homini lupus (letteralmente "l'uomo è un lupo per l'uomo"), il cui precedente più antico si legge nel commediografo latino Plauto, lupus est homo homini (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495), fornisce con chiarezza la visione antropologica di Hobbes, essa è utilizzata dal filosofo nel 1646 nella Epistola dedicatoria (scritta a Parigi) agli Elementa philosophica. De Cive, Amsterodami, L.D. Elzevirios, 1657 e suona : “ Homo vere dictum est Homo homini Deus, et Homo Homini Lupus “ (ivi, p.2, tr. l’uomo è un dio per gli uomini e un lupo all’uomo), che ben s’inserisce nell’affermazione sempre nello stesso testo ma Prefatio ad Lectores:” la condizione degli uomini al di fuori della società civili (condizione che è lecito chiamare stato di natura) non è altro che la guerra di tutti contro tutti.”

Questa la prospettiva, Hobbes se ne rendeva conto, non è certo accettata da molti, ma riassume un pensiero e consente di comprendere come l’essere liberi per il pensatore assuma questo significato:” un uomo libero è colui che non è ostacolato nel fare ciò che vuole nelle cose che è in grado di fare con la propria forza[…] egli non viene fermato dal fare ciò che ha la volontà, il desiderio o l’inclinazione di fare con il proprio ingegno.” (Ivi, p.345 e De cive, op. cit., p.28).

Ma il filosofo avverte nel capitolo XIII del Leviatano: “ In una tale condizione non c'è possibilità d’alcun’attività di carattere industriale poiché il frutto di essa rimarrebbe incerto e di conseguenza non c'è coltivazione della terra, non c'è navigazione, non c'è uso di beni che possono essere importati attraverso il mare, non ci sono costruzioni confortevoli, non si fanno strumenti per spingere e trasportare cose che richiederebbero molta forza, non si fa computo del tempo, non ci sono arti, né letteratura, non esiste una società, e quella che è la cosa peggiore fra tutte è il continuo timore, e il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve.”

Dunque in siffatto stato di natura, che rivela un uomo non nato alla società civile (cfr. De Cive, op. cit., p.6), è assurdo parlare di giusto e ingiusto perché non esiste una legge ma tutto rientra nel comportamento naturale che prescrive sopravvivenza ed utile. Non essendoci un potere comune, non vi possono essere leggi. Perché vi siano delle leggi è necessario che ogni singolo comprenda bene il suo stato naturale e, inteso, decida di unirsi ad altri al fine di produrre una sorta di “corpo artificiale” che consenta una vita senza pericolo per la vita stessa., questa è libertà (De cive, op. cit., p.137)

Se ogni singolo uomo conduce una guerra di sopravvivenza e d’utile contro tutti, ciò porterà inevitabilmente alla morte dei singoli, che si distruggeranno tra loro conseguendo l'opposto di quanto la natura prescrive: l'autoconservazione. La contraddizione non consente una vita di tal fatta e pertanto diviene opportuno individuare una soluzione.

La natura stessa indica la via; essa invita gli uomini a raggiungere un accordo che non è per un fine morale, cioè per il Bene, ma semplicemente per una vera sopravvivenza. Non è la libertà, intesa come assoluta determinazione dell’uomo, ma semplicemente la convenienza che individua nella volontà la libertà di determinate azioni, ma le tempera solo nel fine di un utile. Così la libertà della volontà si determina nella finalità vantaggiosa da raggiungere. Non viene meno la libera volontà, l’inclinazione ecc., ma queste sono limitate o annullate dalla razionalità che stabilisce quanto meglio proprio per la sopravvivenza. Non è etica, dato che il corpo artificiale che unisce i singoli non ha quella finalità che, ricordiamo, A. Rosmini, indicava come il vero fine naturale del consorzio umano (La società ed il suo fine, Milano, Boniardi-Pogliani, 1839)

Vale per ogni singolo solo quello che è utile e risponde a quello stato di natura libero che suggerisce di accordarsi, ossia di indicare alcuni principi – leggi - vincolanti. Queste leggi, dette “di natura”, non sono oggettive e nemmeno etiche, sono semplici convenienze che la ragione addita come migliori condizioni per ottenere l’esercizio libero della propria volontà, delle proprie inclinazioni, vivendo in pace, ossia trovando la garanzia che, pur non potendo esercitare tutta la propria libertà, si possa almeno sopravvivere e trovare l’utile per sé.

È la ragione che invita a sottomettersi ad un accordo in un corpo artificiale, ossia lo Stato, perché essa ricorda che 1) in ogni modo bisogna cercare la pace e mantenerla; 2) se si vuole la pace bisogna rinunciare ad una parte del proprio diritto naturale di appropriarsi di tutto ciò che favorisce la propria conservazione. Si deve cioè conservare tanta libertà quanta si vuole che gli altri abbiano nei propri confronti. È una rinuncia a tutto, tranne che alla propria vita in favore di una persona, sovrano, o un’assemblea, parlamento che s’impegnano a gestire mediante leggi civili gli uomini che s’impegnano a rispettarle anche subendo l’esercizio della “forza”.

Un patto che unisce, ma assoggetta nel frattempo, ed è dettato più dalla paura di perdere la propria vita e il proprio vantaggio che non dalla necessità che chiameremo di civile convivenza. Ogni singolo continua nella sua sopravvivenza e nella ricerca d’utile, ma secondo le leggi che verranno determinate nelle relazioni, non nell’ambito della sfera soggettiva.

“Ma, se per ottenere la pace e con essa la propria conservazione, gli uomini hanno prodotto un uomo artificiale, che chiamiamo Stato, così hanno prodotto anche delle catene artificiali chiamate leggi civili, che essi stessi, attraverso patti reciproci, hanno legato da un lato alle labbra di quell’uomo o di quell’assemblea a cui hanno conferito il potere sovrano e dall’altro lato alle proprie orecchie. Questi vincoli, che nella loro natura non sono che deboli, si possono nondimeno rinsaldare, se non attraverso la difficoltà, attraverso il pericolo di violarli.” (Ivi, p.547).

Solo in relazione a questi vincoli si può parlare di libertà dei sudditi che la esercitano “ soltanto nelle cose che il sovrano ha permesso quanto ha regolato le loro azioni, come la libertà di comperare e di vendere e di contrattare reciprocamente in altra maniera; quella di scegliere la propria dimora, la propria dieta, il proprio mestiere, di educare i figli nella maniera che ritengono più opportuna e cose simili.” (ibidem).

Solo il sovrano che comanda al corpo artificiale, è effettivamente libero, i sudditi hanno la libertà di 1) difendere il proprio corpo da chi lo aggredisce, 2) di non farsi del male, nemmeno se ordinato dal sovrano, 3) di non autoaccusarsi, diritto alla difesa, 4) limite al consenso, ad esempio dell’ordine di uccidersi, 5) il non obbligo ad uccidere, 6) rifiutarsi all’ordine di combattere in determinati casa, ma non quando lo richieda la difesa dello Stato, 7) di lottare per la propria vita, 8) la libertà è assoluta se vi è silenzio delle leggi ed infine 9) possono accusare il sovrano però solo per fatti privati.

 

Questi patti convenienti vanno rispettati ed è la terza grande legge di natura, dacché sarebbe proprio contraddittorio accettare di associarsi e poi ritenersi svincolati dalle leggi che colui che detiene il comando del corpo artificiale, ossia lo Stato, ha stabilito debbano essere rispettate. Infatti, ciò che la volontà ammette non può da questa essere trasgredita.

 

“Questa è l'origine del grande Leviatano, o meglio, per parlare con più riverenza, di quel dio naturale al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, con l'autorità concessa a lui da ogni singolo individuo nello stato egli possiede tanto potere e tanta forza, che gli sono stati conferiti, che col terrore così ispirato è in condizione di ridurre tutte le volontà di essi alla pace in patria e al reciproco aiuto contro i loro nemici esterni”. (Ivi, II, cap.17)

Nasce così la visione della libertà in campo politico, non è il giusnaturalismo di altri pensatori, ma la constatazione che gli uomini come singoli nel loro stato di natura vivere liberi non sanno e solo mediante una rinuncia ad autodeterminarsi, affidando la determinazione di vincoli, leggi, ad un solo corpo, sovrano o assemblea, essi potranno continuare a sopravvivere godendo anche dei frutti dei patti reciproci.

Il tema della libertà si sposa quindi dal piano metafisico a quello delle relazioni tra i singoli che si consorziano. Non una fondazione metafisica della libertà, ma questa considerata solo nell’aspetto dell’autodeterminazione che si autotempera con un patto di sottomissione o di unione. Non diritti naturali come “sostanza” dell’uomo, ma necessità che si svolgono meglio insieme con altri individui. L’etica, in altre parole la ricerca di un bene oggettivo, indipendente dalla propria volontà e determinazione razionale, è ridotta alla necessità di assumere comportamenti conformi alle leggi che vengono di volta in volta stabilite. Nemmeno la visione di controllo religioso delle azioni pubbliche, tanto cara a Calvino, ha più valore. Esistono le norme stabilite e quanto un suddito le rispetta con le limitazioni indicate, egli può ultimante sopravvivere.

Ciò che è libertà è ciò che la volontà esprime, ma questa deve per vantaggio limitarsi, ma il limite è ristretto alle necessarie e convenienti relazioni, per il resto la legge deve imporsi di tacere e lasciare alla sfera dell’individuo ciò che l’individuo stesso privatamente, senza nuocere ad altri.

 

Conclusione

 T. Hobbes indica una nuova riflessione intorno alla libertà, che non è più una condizione dell’essere uomo, ma coincide con la sua volontà di ottenere per la propria sopravvivenza e il proprio utile tutto quanto egli ritiene necessario, anche al prezzo di continua lotta. Questa lo pone costantemente in pericolo ed egli teme questa condizione, pertanto (cfr. De Cive, op. cit., cap. I) sulla base della paura egli pone mano ad una società civile che detta le leggi. Per questo, egli rinuncia alla volontà di compiere tutto quello che desidera e si sottopone alla legge dettata dal corpo artificiale che è lo Stato. Detiene ancora alcune possibilità di non ubbidire alla legge, ma sono nei casi. La libertà assoluta dello stato di natura è superata dalla società, che non è la caratteristica dell’uomo, ma una sua costruzione. La libertà resta confinata nella dimensione privata e non può uscire da questa, ossia essere la base delle relazioni. La volontà regge la vita degli uomini e la coscienza rimane solo nel privato, ma il privato non ha una prospettiva morale, solo una convenienza, che è quella che regola le azioni. Si consuma una negazione della morale o meglio la si considera solo come un atto artificiale che non ha connessione con lo stato di natura dell’uomo che mira al solo utile. La prima via all’utilitarismo di Geramia Bentham (1748-1832).

Si apre con Hobbes la visione di uno Stato che è obbligante, perché il singolo uomo lo ritiene necessario al fine della propria sopravvivenza e del proprio vantaggio. Lo Stato diviene quindi assoluto nelle relazioni, perché, altrimenti, la volontà finirebbe sempre e comunque in una guerra di tutti contro tutti.

 

nr. 11 anno XIX del 22 marzo 2014

 



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