NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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A teatro “Una pura formalità”

A Thiene protagonista Glauco Mauri con una pièce tratta da un film di Giuseppe Tornatore

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Una pura formalità

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

film_di_tornatore (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)Procede la stagione della prosa del Teatro Comunale di Thiene con la pièce “Una pura formalità” diretta e interpretata da Glauco Mauri con Roberto Sturno. La vicenda è incentrata sull’interrogatorio subìto da uno scrittore famoso, Onoff, fermato durante una fuga in un bosco, interpretato da Roberto Sturno, da parte di un commissario di polizia, Glauco Mauri. Lo spettacolo è tratto dall’omonimo film di Giuseppe Tornatore dove Roman Polanski era il commissario, Gerard Depardieu lo scrittore e Sergio Rubini il giovane gendarme.

Una pura formalità (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)La persona fermata è uno scrittore famoso, di cui il commissario da lei interpretato è un grande estimatore. Si potrebbe pensare che in una situazione di questo tipo ci sia una forma di reverenzialità, invece il commissario non teme assolutamente il confronto e incalza lo scrittore durante l’interrogatorio. Quali sono le intenzioni di Tornatore e le sue?

Glauco Mauri: “Quando ho visto il film non ero rimasto impressionato poi ci ho ripensato, anni dopo mi è capitato di leggere la sceneggiatura e ho ripreso in mano, naturalmente è diverso dal film perché il cinema ha regole e il teatro altre. Innanzitutto bisogna dire che più un’opera è valida, più dà all’interprete la possibilità di trovarci delle sfumature sue, che poi diventano quelle dell’interprete. E così è stato. Cosa mi ha colpito di questo testo: un uomo che aiuta un altro uomo a capire e a conoscere se stesso, cosa ha fatto, cosa ha dimenticato nella sua vita; è un commissario che cerca di tirare fuori un interrogatorio maieutico, cioè che cerca di tirare fuori dall’individuo la sua verità. Avevo fatto anni fa, con Raskolnikov interpretato da Sturno e io facevo Porfirij l’altro grande giudice di Delitto e Castigo di Dostoevskij, anche lì c’era un giudice che cercava attraverso delle provocazioni, come succede qui: il giudice provoca, a volte con grande ironia altre con tenerezza, proprio per fare trarci fuori la verità. Anche in Delitto e Castigo c’è Porfirij che sa che Raskolnikov ha ucciso un’usuraia con un’ascia, ha le prove, lo sa, ma vuole che sia lui stesso a confessare, non lo denuncia, perché vuole che nella confessione Raskolnikov trovi una specie di dignità dell’uomo, anche dopo aver commesso una cosa così atroce. La cosa che mi ha colpito in questo testo è proprio questo: che c’è un uomo che cerca in tutti i modi di far capire a un altro uomo che cosa ha sepolto dentro di sé”.

Quindi non ha importanza chi sia davvero.

G.M.: “No”.

Gli viene dato il nome Leonardo da Vinci perché è un espediente.

G.M.: “Ma certo. Anche perché, cosa che nel testo è soltanto accennata e qui invece appare chiaro, lui si è suicidato. Quando lui dice: “Ma allora tutti siamo così?” Quando arriva il ragazzo che gli dà il latte è come se ricominciasse la storia, e il giudice gli dice: “Anche lei non sapeva niente, anche io, tutti non sapevamo niente quando siamo arrivati qui. Che cos’è questo posto? Chiamiamolo “punto improprio” - che lui si ricorda di questo professore, le linee rette che nello spazio si incontrano- forse adesso uscirà di qui e a poco a poco, allontanandosi, questo misero commissariato di polizia le apparirà sempre più lontano, sempre più piccolo finché voltandosi per un’ultima volta le sembrerà un piccolo punto nello spazio, chiamiamolo punto improprio”. Quindi è un testo sicuramente giocato sulla fantasia ma che vuole parlare anche di cose umane, ecco”.

La narrazione sembra svolgersi su un unico piano anche se man mano che la pièce va avanti ci rendiamo conto che la strada, concettualmente, si biforca e vengono percorse entrambe le direzioni. Il primo indizio è il dubbio relativo al ricordo e il problema del ricordo indotto.

G.M.: “Eh certo!”.

Alla fine presente e passato sembrano non coincidere mai, tant’è che la prima cosa che viene da pensare è che Onoff è schizofrenico. Qual è la vera realtà tra il ricordo e il fatto reale rappresentato? Perché il problema sembra che sia più importante il ricordo di aver fatto qualcosa.

G.M.: “Il ricordo serve a ricordare una cosa fatta, una realtà: che lui è morto”.

posto_dele_fragole_bergman (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)Il testo è disseminato di indizi, anche nella scenografia c’è qualcosa di strano: il commissariato è pieno di libri di letteratura, gli manca completamente una parete che immaginiamo dia sull’esterno perché piove e poi quell’orologio senza lancette, omaggio a Bergman e al suo “Il posto delle fragole”. Nonostante l’ambientazione suggerisca ciò che vedremo nel colpo di scena finale, continuiamo a non voler vedere. Perché non si vuole vedere?

G.M.: “Non è che non si vuole vedere è veramente scoprire la realtà: è chiaro che il giudice mica è Dio, è un altro che si è suicidato, è una casa di suicidi dove si trova, quando alla fine, che capisce, e dice: “ma dove sono?” il film è molto più enigmatico ancora. Il pubblico non deve capire, una scena è realistica ma confusa, l’importante, come diceva Beckett che era uno che era l’estremo della razionalità nelle sue cose, che lui puntava più sull’emozione del pubblico che sulla razionalità e la comprensione, e io sono d’accordo: a volte certe cose si fanno capire meglio attraverso un fatto emozionale perché con la ragione bisogna arrivarci attraverso un’arzigogolìo di pensieri. Non tutti sono capaci di capire le cose ma tutti sono capaci di emozionarsi per le cose”.



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