NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Educazione alla spiritualità: Varcare la soglia della speranza

di Italo Francesco Baldo

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Educazione alla spiritualità: Varcare la soglia de

Introduzione

Il tema della spiritualità e di quello connesso, l’interiorità, sembra oggi spesso dimenticato nella frenesia dell’epoca attuale, che è proiettata sempre più negli aspetti più sensazionalistici e appariscenti, che convergono in una ricerca d’eccezionalità che tende a “porre” il tema stesso nell’ambito della sola dimensione storica, o a relegarlo in un’esigenza individualistica di bisogno psicologico. È la stessa situazione che si è già verificata per il tema della fede religiosa, considerata solo nei suoi aspetti storici e poco nella sua specificità, valutandola solo come dimensione psicologica e priva di un’autentica prospettiva razionale, quasi considerando solo un certo modello di razionalità come quello valido a tutti i costi, e per questa stessa razionalità, detta scientifica, ci si dimentica della connotazione storica.

Riproporsi oggi di rivisitare il tema stesso della spiritualità, significa, a mio avviso, avere prima di tutto il coraggio di affermare che non si può ridurre l’uomo inteso come persona nella sola esigenza di vita contingente, nell’affanno delle cose da fare. Varcare la soglia della speranza, per ricordare il testo di S. Giovanni Paolo II, significa, nello stesso tempo, affermare che “ non bisogna avere paura” di ciò che è fondamentale di là della necessità della vita e di quanto all’uomo è utile. Infatti, afferma S. Giovanni Paolo II: “Per liberare l’uomo contemporaneo dalla paura di se stesso, del mondo, degli altrui uomini, delle potenze terrene, dei sistemi oppressivi, per liberarlo da ogni sintomo di una paura servile nei confronti di quella “ forza prevalente” che il credente chiama Dio, occorre augurargli di tutto cuore di portare e coltivare nel suo cuore il vero timor di Dio, che è principio della sapienza. Tale timor di Dio è la forza salvifica del Vangelo. È timore creativo, mai distruttivo, genera uomini che si lasciano guidare dalla responsabilità, dall’amore responsabile. Genera uomini santi, cioè veri cristiani, ai quali il futuro del mondo in definitiva appartiene”. (cfr. GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, A. Mondadori, Milano 1994, p.251).

Con questa parole credo sia importante iniziare, perché per attraversare quella soglia della speranza, è necessario possedere una prospettiva anche educativa, che nel mentre riconosce il Dio che si è fatto uomo, sa, cioè è capace, di interrogarsi e di esaltare quella potenza di vita che è lo spirito di ciascuno in concordia con quanto il Salvatore ha detto come “buona parola”.

 

1. Il quadro storico

Il problema educativo nello Stato Italiano è demandato ai genitori (cfr. art. 30 della Costituzione della Repubblica Italiana, mentre per la scuola si preferisce il termine “istruzione” (cfr. art. 34, della Costituzione), ma questa distinzione non ha mai avuto un gran peso, perché si è sempre e comunque ritenuto che, oltre ai genitori, anche la scuola fosse una vera e propria agenzia educativa, al pari, ad esempio dell’oratorio. Queste istituzioni, compresa la famiglia hanno subito un notevole travaglia negli ultimi decenni e si sono trasformate, tanto che oggi si tende quasi a ritenere che solo la scuola, pubblica e statale, sia, di fatto, l’unica vera agenzia educativa. Ripercorriamo un po’ la storia e verificheremo che nel 1970 Luisa Muraro pubblicava un saggio rappresentativo La scimmia pedagogica (Emme Edizioni, Martellago (PD) 1972), uno dei testi più emblematici dei nuovi orientamenti, che il problema “educazione” assumeva in Italia in quegli anni, dove all’interno della scuola agiva la prospettiva inaugurata da Lettera a una professoressa (Libreria editrice Fiorentina. Firenze 1976). I due testi, risultato di una temperie culturale, che aveva come unico obiettivo la dimensione della politica e dell’abbattimento della cosiddetta “ società borghese”, rivelano in modo chiarissimo come il problema educativo e in connessione ad esso la scienza pedagogica fosse considerata come una “ pseudoscienza che “ è nata con la società borghese e fa parte del più largo discorso che afferma che tutti gli uomini sono uguali. Siccome è evidente che non siamo affatto tutti uguali, tra le varie commedie devono farci credere che lo siamo, è nata anche quella dell’educazione che compenserebbe le diseguaglianze sociali. Siccome è quasi altrettanto evidente che l’educazione, invece di colmare, aggrava le disuguaglianze, la pedagogia si aggiunge come supplemento critico per auspicare quello che i fatti contraddicono sotto gli occhi di tutti”. (L.MURARO, La scimmia, cit. p.6). Accanto a questa visione negativa e poco conscia della stessa storia dell’educazione, si percorreva la strada dettata dalla considerazione, scritta da don Milani, che, poco considerando il padre nobile della Scuola Media Unica Gesualdo Nosengo, riteneva che essa fosse “classista” e che essa “ Resta tagliata su misura dei ricchi” (Scuola di Barbiana, Lettere, cit. p.30 e p.31).

Educazione alla spiritualità: Varcare la soglia de (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Non stupisce quindi che in questo quadro la pedagogia abbia subito un processo di svalorizzazione e di svilizzazione, di negazione e si sia teso a sostituirla con le “ scienze sociali”, in grado di fornire le più utili indicazioni per la formazione dei giovani ad una prospettiva critica e capace di abbattere la cosiddetta società borghese. Il culmine di questo percorso fu indicato in modo preciso dal Documento conclusivo dell’incontro di Frascati del 1970, (Cfr. I dieci punti di Frascati, in “La Comunità scolastica” 1 (1971), n.2, p.75). e dalla Proposta di legge del Partito Comunista Italiano che da allora (1971) ha costituito fino al Ministro Berlinguer la chiave di volta della politica scolastica della sinistra marxista italiana, appoggiata in questo anche da una certa tendenza sociologistica di matrice cattolica, come attesta ancor oggi la prospettiva di apprezzamento dell’opera di don Milani e di altri.

Dal 1971 la pedagogia come disciplina, capace di indicare, mediante analisi, gli obiettivi educativi, è quasi scomparsa, dapprima sostituita dalle scienze sociali ed in particolare dalla sociologia, dall’antropologia e dalla psicologia sociale, chiamate tutte ad essere di supporto ad una visione e prospettiva politica, fondata su un’ideologia la cui matrice totalitaria non esitava nemmeno a farsi promotrice di lotta armata (Cfr. il documento de Il Collettivo Politico Metropolitano di Milano del gennaio 1970) La prospettiva finì con l’essere quella indicata dal rivoluzionario brasiliano Marcelo De Andrade: “ Prima dell’unificazione del capitalismo mondiale da parte dell’imperialismo Yankee, il proletariato aveva la possibilità di armarsi attraverso vie non armate, cioè poteva prima organizzarsi politicamente e sviluppare fino ad un certo punto la lotta politica e la violenza non armata, per poi approfittare della disfatta sociale, politica e militare delle classi dominanti dei rispettiva paesi per armarsi e prendere il potere […] Oggi, dato che la possibilità di una guerra antimperialista è storicamente esclusa, un’alternativa proletaria del potere, deve essere sin dall’inizio, politico militare, dato che la lotta armata è la via principale della lotta di classe” (Ivi, p.21). La negazione della pedagogia, ed in generale di una scienza dell’educazione, si coniugava con la critica a tutta l’istituzione scolastica, rappresentata, sempre dalla Muraro, come un luogo di repressione, che continuava quello operato all’interno delle famiglia. Questa prospettiva di derivazione reichiana, unita alle indicazioni della cosiddetta pedagogia non autoritaria del dottor Spook, produsse cambiamenti importanti, che servirono a progettare e in parte a realizzare quel decadimento della nozione stessa di educazione. Questa non fu più identificata con quell’esigenza di fornire, attraverso obiettivi connessi alla chiarezza, dei mezzi didattici, il raggiungimento di una completa maturità di responsabilità umana, intesa come la conoscenza, coscienza e capacità di vita all’interno della società umana anche organizzata in uno Stato. Dietro al termine “educazione”, che era ancora utilizzato, si mascherava, in realtà, la realizzazione di una prospettiva di tipo riduttivo, cioè l’unica prospettiva dell’uomo doveva essere la dimensione politica e per l’esattezza di un’unica prospettiva, quella propugnata dal Partito Comunista e dai suoi alleati, sparsi un po’ dovunque.

L’istituzione scolastica fu sempre più intesa come “scuola di partito”. Nelle aule la dimensione della critica fu portata avanti anche a discapito dello stesso significato del termine. Essere critici significava ed ancor oggi significa purtroppo, “essere contro” il sistema borghese, non capacità di analisi e di progettazione. Se tracciassimo la storia della pedagogia degli ultimi trent’anni, rileveremo che la pedagogia stessa è stata sempre meno presente fino al 1985. Essa farà la sua ricomparsa successivamente, ma non come pedagogia generale, capace di individuare, come abbiamo già indicato, gli obiettivi formativi finali per l’uomo, la persona, ma uno sviluppo della dimensione operativa didattica con tutte le sue derivate (docimologia, pedagogia speciale, sperimentale, dell’handicap, del disabile, delle istituzioni ecc.) in un coacervo incapace di fornire anche agli stessi docenti la benché minima chiarezza. L’individuazione e l’utilizzo sulla scia della moda di metodologie e tecnologie di natura strumentale più che fondativa, ha contribuito a porre sempre più in crisi la stessa dimensione dell’educazione, soprattutto a livello istituzionale. Ogni giorno si susseguono proposte, studi, ambiti di intervento educativo senza unitarietà e chiarezza di intenti, inseguendo una dimensione di pseudopluralità del sapere e perdendo di vista la persona. Lo stesso è accaduto, ma certamente non poteva essere altrimenti, con i tentativi di riforma delle istituzioni scolastiche da parte del ministro Luigi Berlinguer, che ha proseguito nella marginalizzazione della pedagogia di fronte alle scienze sociali. Il documento dei “saggi” ha infine fatto prevalere in apparenza una visione pluralistica: la scuola “dei saperi”. Ciò ha fatto perdere di vista quella necessaria unità del sapere che comporta lo sforzo di riflettere non solo su quanto è utile sapere, ma quale ne sia il fondamento.

Nella prospettiva extrascolastica, la nascita degli Educatori-Animatori professionali ha mostrato in modo preciso quale dovesse essere la direzione da assumere, quella dell’intervento sociale che “anima” la dimensione della società e soprattutto nella questione dell’handicap e degli anziani ha sviluppato un concetto di integrazione, intesa solo come socializzazione con lo strumento della relazione e della visibilità del disabile e dell’anziano. Nel caso poi delle tossicodipendenze si è utilizzato in modo sociologico il concetto di “rieducazione”, che è inteso come reinserimento in una prospettiva di impegno sociale. La povertà di questa prospettiva emerge proprio delle “ricadute” nella tossicodipendenza, perché il punto cruciale non è l’inserimento sociale della persona con problemi di tossicodipendenza, ma la sua dimensione personale, che se difficile, impedisce anche la dimensione della vita sociale.

L’educazione quindi è intesa solo come prospettiva sociale, rivolta tutta verso le relazioni esterne, le quali sono chiamate a risolvere solo un impreciso” sistema di bisogni”, la cui natura non è mai stata ben delineata, ma sempre intesa come il soddisfacimento di quanto di “materiale” serve alla vita di una persona. Il miscuglio, spesso caotico, di sociologismo con prospettive di rivoluzionarismo politico, e di psicologismo come ricerca di soluzione di stato di conflitto relazionali con la società o, meglio, con una prospettiva politica, ha caratterizzato la prospettiva dell’educazione in generale e delle istituzioni scolastiche.

L’uomo ridotto a sole esigenze sociali e politiche con la richiesta di trovare adeguate risposte alle esigenze materiali caratterizza 30 anni di riflessioni di sociologi, psicologi, didattici, tecnocrati e soprattutto fedeli seguaci di visioni politiche sempre pronti ad elaborare progetti su progetti di cui essere responsabili. Il problema educativo è stato così ridotto alla stesura cartacea prima e cibernetica oggi di attività, pomposamente chiamate “progetti” e dove il criterio della programmazione che, doveva essere fondamentale, dal 1979 è diventato solo un criterio organizzativo, dipendente da quanto denaro era, alla fine, disponibile, anzi la determinazione della disponibilità finanziaria condizionava e condiziona il piano delle attività.

L’educazione tutta proiettata verso la società, verso i bisogna ha dimentica la dimensione interiore, quella dell'anima, dello spirito.

 

2.  Il problema “ educazione”

Educazione alla spiritualità: Varcare la soglia de (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Il concetto stesso di educazione messo in crisi negli ultimi decenni deriva anche da un’imprecisa collocazione del problema stesso. La rivendicazione di autonomia di ogni singola scienza ha, in effetti, determinato una parzializzazione del sapere e tale che l’assunzione di un’ottica particolare ha rischiato, talora riuscendovi, di ridurre la complessità del mondo alla visione e determinazione che quella scienza forniva. Ciò è accaduto anche per l’educazione, quando è stata ridotta a scienza sociale, in realtà un corollario, non sempre ritenuto valido, della politica, intesa come gestione del cittadino e non come arte del buon governo, ovvero realizzazione di quel bene civile, che è la traduzione di una visione di bene comune come sosteneva Antonio Rosmini, non ha nemmeno riconosciuto la propria specificità. (Cfr. A. ROSMINI, La società ed il suo fine, G. Boniardi-Pogliani, Milano 1839, e il mio, La proprietà non è un furto. A. Rosmini: la persona, la proprietà e lo Stato, Working Papers, n.45, LUISS. Roma 1998.)

È importante, infatti, collocare l’educazione e le scienze che se ne occupano nel campo specifico, ossia in quello delle scienze pratiche, ovvero la riflessione intorno alle possibili azioni atte a perseguire il fine educativo, che, a sua volta, è in connessione con il fine principale cui mirano le azioni umane ovvero il Bene Supremo. Affermare ciò significa porsi anche nel più preciso contesto del quale deve occuparsi l’educazione, in altre parole lo studio dell’uomo come soggetto umano, principio insieme dell’animalità e dell’intelligenza, che contiene un principio attivo supremo (cfr. Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servigio alla scienza morale, Milano, 1838.), per e-ducere, vale a dire far emergere il significato più profondo della persona umana stessa. Non si tratta quindi di un ducere, ovvero stabilire aprioristicamente come deve essere o, meglio, comportarsi, l’uomo sociale, ma quale il fondamento, tale la formazione educativa. Il problema dell’educazione diviene così in primo, luogo un problema di antropologia, cioè di riconoscimento di che cosa sia l’uomo. Non ha luogo, infatti, un’educazione se questa non può fare riferimento ad una prospettiva più vasta, quella che, riflettendo sull’uomo e sul suo fine, è capace di evidenziare al massimo i contenuti e li pone nella più autentica dimensione morale. L’educazione è quindi un problema morale e non solo una questione sociologica nella quale si devono determinare, più o meno consensualmente, cioè per convenzione, i contenuti operativi di ciascun individuo all’interno di una società. L’educazione poi, non può essere nemmeno un’educazione ad un modello preformato di uomo, di società, in realtà Stato, nella quale l’insieme più vasto, cioè appunto lo Stato è al di sopra e può essere anche contro la dimensione della persona. Accade questo quando gli Stati si costituiscono non per un fine morale, cioè autenticamente la traduzione di una visione di bene comune, ma solo come mediazione d’interessi di gruppi (Stato consensualista e convenzionalista) o d’imposizione di una visione partitica del mondo, dove la gestione dello Stato stesso è preminente al fine di una conservazione di potere assoluto di una determinata parte (il totalitarismo).

L’educazione è un problema che cerca una soluzione, ma esso va inquadrato dapprima in una considerazione più ampia, diremo filosofica da tradursi in una “pedagogia generale” e quando il fine sia chiaro in una dimensione d’attività, la quale debba sempre e comunque considerare che educare è prima di tutto un processo di “ presa in carico globale della persona nella sua intierezza ed unicità e della sua famiglia ovvero del contesto più ampio della società. (Cfr. S. MARCHETTI, La presa in carico globale. Che cosa significa riabilitazione per “La Nostra Famiglia”, in AA.VV., Scuola Genitori, Corsi di Formazione per genitori, a cura di I.F. BALDO, Associazione Nazionale Genitori de “La Nostra Famiglia” sezione di Vicenza, Vicenza 2000, p.25). È quindi opportuno avere chiarezza di fondamento e di quali siano i principi di una prospettiva educativa. Le cosiddette “educazioni speciali” non sono discipline a se stanti, ma dovrebbero armoniosamente e quindi in una tensione globale concorrere a fornire quella prospettiva educativa generale, che faccia emergere la specificità dell’uomo- persona nel mondo e nella società. Un’educazione che non tenga presenta la necessità di un concorso trasversale di tutto quanto si occupa dell’uomo e non sappia riconoscere quel fondamento “attivo” specifico dell’uomo, certamente diverrà lo studio e la formazione di comportamenti socio-individuali. Ciò è stato il fallimento di una prospettiva assunta, particolarmente dall’ambito italiano anche istituzionale (Governo e scuola), che ha pesantemente condizionato l’importanza della famiglia nell’educazione, svilendo la realtà umana in una sola questione d’atti sociali e delle relative relazioni. L’utilizzazione della psicologia, particolarmente quelle prospettive emerse – con qualche pasticcio individuale - dalla prospettiva freudiana, che evidenzia solo il problema “relazionale”, ha finito per misconoscere l’importanza della persona e la sua riduzione ad individuo, che si autogiustifica e chiede giustificazione di quanto egli pensa e compie, senza la possibilità di una qualsivoglia valutazione a meno che questa non sia dettata dalla convenienza della politica e dei governanti.

Superare quanto di negativo si è accumulato nell’ambito della riflessione pedagogica, non è un problema dialettico, ma di proposizione di fondamenti. La dimensione dialettica nella nostra cultura, svilita dall’utilizzo a meri fini strumentali, non è più, come in Platone, la ricerca del fondamento del Bene, e nemmeno una possibilità, come in Hegel, di maturare maggiori e più ampi sviluppi nella dimensione etica, ma più semplicemente il tentativo di mediare tra elementi diversi, al fine di riproporre in ogni caso la propria prospettiva politica.

In questa prospettiva cerchiamo di riflettere sul fondamento e particolarmente in relazione alla domanda “ chi è l’uomo?”, perché il primo grande orizzonte è proprio la coscienza di se stessi e di quanto come fine ci s’attende, tenendo presente comunque la visione globale dell’uomo e di quale sia il suo fondamento, il quale informa tutta l’esistenza ed è fine dell’uomo stesso.

 

3. Antropologia e Educazione

La prospettiva educativa a partire poi dagli anni ottanta ha maturato una specializzazione ad oltranza. Se si osserva il quadro generale di una facoltà di Scienze dell’educazione, si noterà facilmente la gran quantità di tipi d’insegnamento relativamente all’educazione, ma ben difficilmente questi insegnamenti prendono in considerazione l’aspetto fondativo. Essi tendono a limitare il proprio campo d’indagine e d’azione all’affermazione che l’uomo è un essere suscettibile d’educazione, ma non si chiedono chi è quest’uomo, soggetto di educazione. Dalla risposta dipende proprio il contesto educativo sia negli obiettivi generali sia in quelli più specifici relativi alle educazioni speciali.

L’uomo, affermava Aristotele: “ è l’unico animale che abbia ragione” (ARISTOTELE, Pol. I, 2,1253 a9 e VII, 13,1332 b, 5.) e la ragione gli serve per indicargli il giusto. Questa definizione, rimasta classica, precisa quanto è possibile in generale conoscere dell’uomo e la sua funzione. Essa, che è pure accolta da San Tommaso, va inquadrata anche in una visione più ampia che è quella della religione cristiana che nel Genesi precisa: “ E Dio disse: facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra”(Genesi, I, 26.). Su questa definizione in realtà tutto la riflessione filosofica occidentale, basti ricordare che Pico della Mirandola che nel suo Oratio de dignitate hominis in modo chiaro sostiene che l’uomo è l’unico essere dotato di libertà e di responsabilità, in altre parole unico essere capace di decidere il bene che intende compiere o il male. Se queste nozioni sono caratteristiche, n’esistono altre, che sono maturate nel corso del secolo XVIII e XIX e soprattutto nel secolo scorso in relazione ai progressi delle scienze biologiche.

L’uomo, visto come solo essere storico, che necessità di uniche realtà di sussistenza, è la caratteristica di molte posizioni, soprattutto politiche, che negano dignità all’interiorità, allo spirito e considerano solo quanto di “ materiale” in termini di soddisfazione di bisogni primari, di tipo istintuale (sopravvivere e riprodursi) è necessario. La negazione di una dimensione trascendente, superiore alla condizione terrena, è negata come sovrastruttura, prodotta da una determinata condizione economica. Questa posizione non è solo riduttivistica, l’uomo è homo oeconomicus, ma costituisce la negazione di qualsiasi prospettiva che non sia inquadrabile nella soddisfazione materiale. Lo spirito quindi non esiste ed è anzi uno degli elementi, frutto della prevaricazione storica di classi dominanti e culturali da eliminare. Le analisi delle scienze biologiche e la loro tendenza a manipolare geneticamente l’uomo appare come l’ultima frontiera della negazione dello spirito e di cui già se n’avvedeva il grande Goethe nel Faust (tr. di V. Errante, Introduzione di C. MAGRIS, Sansoni, Firenze 1973, 308., testo in cui si descrive la nascita dell’“homunculus”..

L’apparenza non più la sostanza e l’essenza qualificano l’uomo, quasi egli fosse solo un prodotto di circostanze biologiche e\o sociali in una dimensione storica. Il risultato è la svalutazione dell’uomo in tutta la sua complessità; la stessa negazione della dignità dell’uomo è frutto di questa prospettiva. L’uomo, come già affermava Pico della Mirandola, per continuare a riferirsi ad un illustre esempio, è sede di dignità perché è libertà e questa si realizza nella sua pienezza quando l’uomo “si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose” (PICO Della MIRANDOLA, De dignitate hominis, a cura di G. TOGNON, Prefazione di E. Garin, Ed. La Scuola Brescia, 1988). L’uomo è quindi creatura non esauribile nella sensibilità, nella razionalità, nell’intellettualità, ma è consapevolezza se conosce prima di tutto il proprio essere, l’interiorità che lo costituisce al di là delle apparenze.

Questa dimensione non è probabilmente definibile e circostanziabile in ogni sua sfaccettatura, ma certamente, se essa è negata o celata, l’uomo non risulta nella sua pienezza. Lo spirito dell’uomo, che già la filosofia antica con Socrate, aveva posto al centro stesso della riflessione, è il punto dal quale partire per avere anche coscienza di quanto è esterno, del mondo. La mondanità appare così il luogo stesso nel quale la vita dello spirito si distende e la permea, donandole quella pienezza che è di coloro che sono appassionati della terra, perché capaci di comprendere il senso orizzontale e quello verticale di qualsiasi elemento dell’universo e di qualsiasi azione. Solo nella diminuzione dell’interiorità sta la negazione della specificità dell’uomo, il suo essere autenticamente e coscientemente uomo.

Prospettiva ribadita anche recentemente da papa Francesco che, a tale proposito richiama la spiritualità di San Bonaventura nella sua enciclica Laudato si’: “L’ideale non è solo passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’azione di Dio nell’anima, ma anche arrivare a incontrarlo in tutte le cose, come insegnava san Bonaventura: «La contemplazione è tanto più elevata quanto più l’uomo sente in sé l’effetto della grazia divina o quanto più sa riconoscere Dio nelle altre creature». (II Sent., 23, 2, 3.160)”.

Educazione alla spiritualità: Varcare la soglia de (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

nr. 29 anno XX del 25 luglio 2015



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