NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Inferno, lo spettacolo si improvvisa

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Inferno

Vedevo alcune vostre interviste e in una dicevate che il vostro non è un teatro che vuole lasciare un messaggio. Essendo una situazione abbastanza straordinaria, se non c’è un messaggio, qua cosa c’è?

Inferno (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)“Non vogliamo lasciare un messaggio nel senso che non abbiamo soluzioni da proporre alle questioni anche piuttosto grosse che poniamo e sono le domande che poniamo a noi stessi e che decidiamo di condividere con il pubblico. Qui quello che lasciamo, secondo me, è il tentativo di raccontare, appunto, dei mondi con i quali spesso non veniamo in contatto e che invece comunque fanno parte del nostro e forse anche di noi. Quello che mi auguro possa restare è un’umanità che immagino possa essere a volte contagiosa”.

Voi non è la prima volta che vi trovate in situazioni estreme o anomale: teatro di disabilità, teatro carcere. Trattandosi di sperimentazione, quanto viene influenzata da questo tipo di esperienze la vostra ricerca nelle arti performative, nel vostro progresso linguistico e tecnico? Questo “poter fare” e “non poter fare” cosa vi ha dato e cosa vi ha tolto? Dove vi sta portando negli anni?

“Ogni esperienza ti lascia anche alla base delle persone che incontri ma credo che ogni esperienza sia a se stante: il carcere ci ha dato la consapevolezza che esiste un cinismo che non conoscevamo, che esistono dei mondi con i quali di solito non vieni mai in contatto, che hanno delle morali completamente differenti dalle tue, persone che nella vita non avrei mai frequentato perché hanno degli orizzonti di interessi, delle logiche diametralmente opposte alle mie. Per esempio uno scafista albanese decide di fare i soldi in un modo in cui io non li farei mai. Però la sua condizione di carcerato e il teatro mi permettono di incontrarlo in un luogo dove io sospendo il giudizio sulla persona e incontro la sua umanità. Questo ha qualcosa di potente e anche portarlo sul palco lo ha perché tu racconti questi mondi e lasci lo spettatore dove lui si posiziona rispetto a tutto questo. La disabilità ti porta a prender coscienza, all’inizio, del tabù della tua ignoranza, difficoltà, delle tue paure e di tutto quello che è una reazione istintiva rispetto a quello che non conosci. Quando c’hai a che fare e lo tocchi con mano, questa tua difficoltà, incontrarla e viverci assieme, ti dà la possibilità non dico di superare tutto questo però di averne consapevolezza”.

Quale è stata la situazione che più vi ha colpiti e che vi ha lascato qualcosa ancora adesso?

Inferno (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)“Ci sono in vari spettacoli delle scene o dei testi che quando abbiamo deciso di metterli eravamo sempre al limite del dire se questa cosa la potevamo fare o no, se era lecita o no. In “Made in Italy” abbiamo deciso di fare un lungo elenco di bestemmie. La prima volta eravamo noi i primi a non capire fino in fondo se si poteva fare e come sarebbe stata recepita. Quando sei su quel crinale in cui senti che c’è qualcosa che è prezioso che però può finalmente riuscire a toccare davvero la piaga senza fermarti tu prima ancora autocensurandoti, allora hai trovato qualcosa che forse riesce ad esprimere quello che è stata l’emozione, il motore e il pensiero che avevi quando hai deciso di fare quello spettacolo. Un’altra cosa che mi ha colpito è stato andare al Teatro Verdi e al Goldoni, che sembravano luoghi intoccabili dove un certo tipo di teatro contemporaneo non poteva mettere piede, invece vedere che tutto il pubblico stava a vedere lo spettacolo e ne godeva, magari qualcuno anche si alzava ma fa parte del gioco”.

Come Babilonia teatri siete andati anche all’estero, siete tradotti in altre lingue e spesso vi occupate di aspetti controversi della società e del sentire umano eppure a volte siete descritti come “cantori della provincia”. Di solito tutto ciò che è contestualizzato nella provincia viene percepito come “minore” o comunque circoscritto e poco esportabile; quando però vediamo o ascoltiamo degli artisti stranieri che vengono dalle loro provincie, nessuno pensa alla loro provenienza. Cosa ne pensi?

“Mah, io credo che raccontare quello che si conosce sia sempre la possibilità più onesta che uno ha: voler essere universali spesso è fallimentare e spesso, parlando del piccolo, si riesce ad essere più universali che non volendo essere onnicomprensivi a priori. Questo penso valga tanto per l’estero quanto per l’artista italiano”.



nr. 46 anno XX del 19 dicembre 2015

Inferno (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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