NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Storia vera di un'odissea
dall'Albania alla Puglia

"Lireta-per chi viene dal mare"

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Lireta

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

Lireta (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Questa settimana al Teatro Astra di Vicenza è andato in scena in prima regionale lo spettacolo “Lireta –per chi viene dal mare”. Monologo interpretato da Paola Roscioli con accompagnamento di musica dal vivo, il testo è tratto dal diario di una donna albanese, Lireta Katiaj, arrivata in Italia nel ’95 e conservato all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo. Il regista e drammaturgo leccese Mario Perrotta, 3 volte Premio Ubu, lo ha adattato a questo spettacolo che ha coinvolto moltissimo il pubblico dell’Astra.

 

Nel programma di sala racconti di come tu ti sia imbattuto in questo diario mentre stavi lavorando all’altro progetto tuo, quello sul milite ignoto e la Prima Guerra Mondiale: sentendo la storia di questa signora che si butta a mare e naufraga con una bambina piccolissima, l’immagine famosissima del piccolo profugo siriano riverso sulla spiaggia morto, ti sei identificato in quanto padre di un bambino piccolo della stessa età. Tu dici che quando si verifica questo corto circuito spetta al teatro il compito di sciogliere il nodo allo stomaco: cosa intendi dire?

Lireta (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Mario Perrotta: “Io sono padre di un bambino che viene dall’Etiopia e ha lo stesso colore di pelle del bambino siriano con la faccia nella sabbia e ho pensato che se mio figlio non avesse incontrato me sul suo percorso, quel bambino avrebbe potuto essere lui. Questo mi ha ribaltato lo stomaco per una settimana e quando si sta così male la gente che fa teatro ha la fortuna di buttare fuori scrivendo per la scena. Tendo a scrivere solo quando c’è un’urgenza talmente forte che non posso farne a meno e per sciogliere quel nodo allo stomaco devo scrivere teatro e metterlo in scena altrimenti quella roba mi resta addosso e mi porterebbe dallo psicologo".

ConAristofane Cabaret e la trilogia sull’individuo sociale vincesti il Premio Ubu, poi la trilogia su Ligabue (Antonio, pittore ndr), ora il dittico sulla Prima Guerra Mondiale. In questo tipo di ricerca approfondita con più spettacoli, come si innesta questo sulla profuga albanese?

“Questo spettacolo ha debuttato in Salento 2 mesi fa, all’interno di un progetto dove c’erano altri 3 spettacoli in scena, quindi è stato un quadrittico, forse il progetto più complesso, coinvolti 50 artisti, attori danzatori, musicisti, rifugiati politici, richiedenti asilo, ex detenuti dei centri di permanenza temporanea, dico detenuti perché lo stato in cui erano era di detenzione. Abbiamo lavorato di fronte ai luoghi dove queste cose sono avvenute, il cpt di San Foca in provincia di Lecce, quindi in realtà è stato un altro progetto multiforme col coinvolgimento di diverse forme d’arte perché penso che ormai sia giusto ragionare in questi termini: non faccio uno spettacolo, faccio un progetto che mi costringe ad occuparmi di una cosa che mi urge per più tempo e più anni e che mette in moto tante collaborazioni, che chiama in causa forze sociali attive su un territorio. Con Ligabue abbiamo coinvolto il territorio reggiano, con “VersoTerra” tutto il Salento, le associazioni che lavorano con i rifugiati; rivendico al teatro e al mio modo di fare teatro il diritto alla lentezza, poter sviluppare progetti complessi e non l’istant show perché devo vendere una data".

Il tema degli esuli e dei profughi non è nuovo in letteratura: come si differenziano i racconti di esuli contemporanei con quelli storicizzati che studiamo a scuola?

“In nessun modo: la sostanza di quella condizione è non sapere più qual è casa tua, perché quando non sai più come parli e, banalmente, cosa mangi, non sai più chi sei. Il motivo per cui gli emigranti (e in particolar modo le due regioni che hanno fornito più emigrazione sono state Sicilia e Veneto), quando partivano si portavano le famose valigie di cartone piene di conserve di melanzane e pomodori, non perché pensavano di poter stare un anno con quella roba da mangiare, la consumavano in una settimana, ma in quella settimana si ricordavano ancora chi erano".

Nello spettacolo vediamo che per Lireta l’unico modo di sfuggire al matrimonio combinato è andare bene a scuola perché così il partito la protegge. Secondo te che rapporto c’è tra le restrizioni di un partito totalitario e la violenza comune, non solo domestica, il respirare un ambiente violento?

“Beh un regime totalitario pervade la vita delle persone".

Però lei lo vede come il male minore.

“In quel caso offriva un’occasione di riscatto a una donna che viveva in una società più o meno come l’Italia degli anni ’60, dove nelle campagne venete, siciliane, leccesi o torinesi le donne dovevano stare in casa e punto, non c’era la possibilità di dire “vado a studiare” , vai a studiare cosa? Fai la mamma se va bene. Il modello era lo stesso e in più c’era questo regime di stampo comunista, ma quelle si chiamano dittature, che appunto se avevi una mente fervida e potevi servire al partito ti davano una possibilità di riscatto. E quando il regime non c’è più l’unica possibilità di riscatto è il gommone".



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