NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
google
  • Newsletter Iscriviti!
 
 

Biennale Cortometraggio

Un "ciclone" di 400 corti

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

facebookStampa la pagina invia la pagina

Biennale internazionale del Cortometraggio Vicenza

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom



Si è conclusa la prima edizione della “Biennale internazionale del Cortometraggio Vicenza” rassegna diretta da Luca Dal Molin e realizzata in collaborazione con Rai Cinema e che ha coinvolto artisti e videomakers da tutto il mondo con più di 400 corti proiettati in varie locations dislocate in tutta la città, una sezione per i videomakers italiani e veneti. La rasssegna ha riscosso molto successo e molto frequentate sono state anche le conferenze con ospiti d’eccezione come Ninetto Davoli, Gianfelice Imparato, Pappi Corsicato, Alessandro Haber, Vitaliano Trevisan, Iaia Forte, Daniele Ciprì. Abbiamo incontrato il regista e direttore della fotografia Daniele Ciprì e l’attrice Iaia Forte.

Il corto è una forma d’arte molto apprezzata e molti registi e filmakers lo scelgono per poi arrivare al lungometraggio. Un corto come una pubblicità o un video musicale possono davvero lasciare un segno nella cultura più di un film o una serie. L’efficacia è amica del testo breve?

Biennale internazionale del Cortometraggio Vicenza (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Daniele Ciprì: “Tutto quello che si esprime come una forma d’arte è ben accettato, io non faccio differenza tra lungo o corto, per me è una forma che si stacca dalla lunghezza di una storia; è concepito come trampolino per un autore però sicuramente ha una vita a sé e si può trovare una formula d’arte nella brevità e sicuramente quelle cose che funzionano nella brevità non possono diventare lunghi, sennò sembra un teaser".

Cosa distingue un bel film un po’ originale da un film d’arte?

“Io mi offendevo quando mi dicevano “cinema di nicchia”: non ho mai pensato di fare un cinema per pochi anche se erano cose completamente diverse dal panorama di quel periodo. Sicuramente era un mio modo di esprimermi. Non è una cosa che si calcola, il cinema d’autore, è una cosa che viene naturale; sicuramente non farei dei film che si vedono in Italia e che a me non riguardano, con tutto il rispetto, ognuno ha delle cosse da rappresentare e un suo modo di vedere".

Non si può non parlare di CinicoTv quando si parla di Ciprì e Maresco e nel linguaggio che avete inventato forse non pensavate a un successo del genere e alle polemiche. In questo linguaggio voi ritrovate degli “eredi”? Non so, Maccio Capatonda o Checco Zalone, per quanto possa essere commerciale, traggono ispirazione da Cinico Tv secondo lei?

“Mah guarda, questo mi potrebbe soltanto fare piacere o farmi sentire vecchio perché io evoco il cinema del passato però sicuramente non possono rappresentare quel modo, nella forma, con i personaggi e tutto quello che noi avevamo perché avveniva in un periodo della nostra vita. Quello che tu mi stai citando sono film calcolati e scritti, delle formule. Per farti un esempio Ficarra e Picone non potranno mai essere Franco Franchi e Ciccio Ingrassia: ricordano quel modo di fare il cinema di Franco e Ciccio, che erano siciliani ovunque, da qualsiasi parte e nelle atmosfere dei loro film; loro fanno la stessa cosa ma li possono soltanto ricordare. Quindi imitare è impossibile, è possibile evocare attraverso le forme: nemmeno io posso fare più CinicoTv, non ci sono più gli strumenti che erano gli attori che avevamo una volta. Incontri altri ma la formula era potente per quello che noi avevamo dentro".

Biennale internazionale del Cortometraggio Vicenza (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Nei suoi film, definiti “di genere”, c’è dell’ottima musica che quasi stride con la semplicità, con questi muri scrostati, questa gente: la Sicilia è una delle patrie del jazz perché molti musicisti americani erano di origine siciliana e lei fa una ricerca di musica molto colta.

“I miei personaggi erano strumenti musicali, poi ogni attore ha una nota e in questo ti aiuta a formulare una forma e una storia. Nel film c’è la musica: ogni movimento, ogni mimica è una musica che hai ascoltato durante l’elaborazione della storia".

Quanto la lingua influisce sulla percezione del luogo? Se gli attori parlano napoletano o siciliano diventa Napoli o Sicilia anche se c’è un palco vuoto o una stanza vuota? Il film diventa napoletano o siciliano?

Iaia Forte: “Io ritengo che l’italiano sia una lingua matrigna, televisiva, chi ha il patrimonio di un dialetto ha la possibilità di esprimere un universo. Il dialetto è qualcosa che si radica nell’uomo da dove nasce ed è un privilegio per gli attori e, credo, anche per i registi perché un suono racconta quanto un’immagine. Io non ho quell’omologazione televisiva determinata anche da un italiano-italiese, a volte la trovo insopportabile e trovo che un dialetto con una propria radice racconti molte più cose".

È un momento particolare per il Sud: la Puglia ha una film commission molto forte, a Napoli esce un film a settimana. C’è una crisi micidiale e si produce tantissimo.

I.F.: “Secondo me il Sud, paradossalmente è più vitale in questo momento, dal punto di vista dell’espressione di un’identità . Roma è totalmente morta: non esprime niente nel cinema, nel teatro, nella musica o in letteratura. È troppo mangiata dal Ministero, dall’omologazione determinata dalla tv. Il Sud ritrova la propria identità, anche dolorosa, una possibilità di esprimere dei mondi".

D.C.: “Sono d’accordo con quello che dice Iaia: Roma è una città assolutamente muta, non ti dà idee, tant’è vero che io ho fatto un film che si intitola “La buca” che parlava delle buche proprio per l’assenza totale di tutto. C‘è troppo Ministero, troppo calcolo. Anche i personaggi che incontri negli autobus sono confusi, come se fosse un digitale confuso. Però è una città meravigliosa, non lo metto in dubbio, di una bellezza unica, tant’è che Paolo (Sorrentino ndr) la racconta e sa raccontare da uomo del Sud".

I.F.: “Una forte identità, un forte legame con le proprie radici, ci sono luoghi in cui ci sono “tribù”, come diceva Pasolini, e le tribù hanno degli aspetti identitari che sono risorse per quello che riguarda la creatività: non essere mangiati dagli strumenti di omologazione e schiacciamento che ti tolgono aria creativa".

Nel cinema ci sono sempre dei linguaggi che sfruttano le scoperte tecniche. Sia nei corti che nei film lunghi va molto lo stop motion e ora va tantissimo il drone: può essere uno strumento di creatività artistica o è più adatto all’indagine giornalistica e basta?

D.C.: “Mah guarda, ogni cosa che nasce deve servire al film, lo ha insegnato Kubrick che ha usato un mezzo militare, la steady, perché gli serviva osservare i tetti e i pavimenti di un ambiente. Welles per esempio scavava sotto terra per riprendere i tetti. È una scrittura visiva che non viene dal fatto che nasce un mezzo. Oggi c’è un errore, secondo me: si prende possesso della tecnologia dell’autore e quindi quello ha fatto il drone e io faccio il drone e racconto la città dall’alto".

Si acquisiscono i linguaggi

D.C.: “Esatto. Un grande esempio è stata la sequenza iniziale di “Reality” di Matteo Garrone che è girata come una fiaba o un film del 1950: lui ha voluto usare l’elicottero, si muovevano gli alberi ed era più bella. “Roma” di Fellini: l’inizio è fatto con un dolly montato su un camion e l’idea partiva da “L’infernale Quinlan” di Orson Welles, che aveva fatto la stessa cosa, un piano sequenza meraviglioso. Lui ha fatto la stessa cosa nell’inizio di “Roma”, guardando la gente attraverso i finestrini delle automobili. Se avesse avuto un drone avrebbe fatto dei capolavori. Con l’artigianato lui è riuscito a fare con quello che oggi noi abbiamo: non c’era il concetto del mezzo, c’era il concetto della risoluzione del problema. Il digitale è un mezzo meraviglioso ma ha distrutto questo modo di pensare".

Biennale internazionale del Cortometraggio Vicenza (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)I suoi potrebbero essere dei film “degli uomini” con poche donne.

D.C.: “All’inizio raccontavamo un mondo senza le donne e i bambini e alcuni definivano: “Ciprì e Maresco salvano donne e bambini”; non era stabilito nel nostro modo di pensare, poi ci siamo adattati ma perché c’erano delle storie che dovevano raccontare la donna, c’è sempre stato un rapporto con le donne, la madre cattiva, la madre buona, la moglie. In Cagliostro un attore arriva dal’America e sua moglie è raccontata come macchina da presa perché c’è questa soggettiva: lei guarda con una cinepresa amatoriale la disperazione di quell’uomo che veniva diretto da un cane, Pino Grisanti, il regista della Trinacria Cinematografica. Lì c’è una grande evocazione al grande cinema di Kubrick, perché c’è Lolita, con i piedi".

Ah giusto! Con il cotone!

D.C.: “Non sai quanti provini di piedi femminili ho fatto! È stato divertentissimo: cercavo dei piedi che rappresentassero quella donna, quindi non un viso: non la vedo mai ma c’è, esiste".

Nei film di Pappi Corsicato e nel cinema napoletano gli uomini influenzano le donne, nel bene e nel male.

I.F.: “Direi che forse la cosa interessante, ho fatto quasi tutti i film di Corsicato, è vedere le figure femminili che hanno una dimensione quasi virile, che appartengono molto alla drammaturgia napoletana, se pensi a Eduardo, Filumena Marturano, personaggi di una società meridionale che spesso è matriarcale, figure che spesso hanno una potenza e una virilità, che non sempre il cinema italiano contempla, ponendo le donne in ruoli prevedibili e conformisti".

Ultimamente a teatro ci sono sempre più titoli presi da film, può essere che il cinema abbia più forza trainante?

I.F.: “No, non sono d’accordo, trovo proprio che sia il contrario: anche il teatro purtroppo sta diventando un prodotto di assoluto consumo, si concepiscono gli spettacoli come un prodotto “della coop”, questo non permette a una drammaturgia di esprimersi. Io arrivando dal teatro sperimentale, avendo lavorato con De Berardinis, Carmelo Bene, Carlo Cecchi, che ha posto la drammaturgia come invenzione scenica e necessità espressiva nel proprio essere, non mi piace questo andazzo perché è soltanto relativo al fatto di far diventare anche il teatro un prodotto di solo consumo: c’è sempre meno spazio per delle cose che attivino lo spettatore e lo rendano autonomo nella propria immaginazione".

 

nr. 17 anno XXII del 6 maggio 2017

Come installare l'app
nel tuo smartphone
o tablet

Guarda il video per
Android    Apple® IOS®
- P.I. 01261960247
Engineered SITEngine by Telemar