NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Conversazioni 2017

Il malato immaginario

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Il malato immaginario

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom



 

Il festival di teatro “Conversazioni 2017- LXX ciclo di spettacoli classici” prosegue con lo spettacolo in prima nazionale “Il malato immaginario-l’ultimo viaggio” portato in scena dalla compagnia Stivalaccio Teatro e coprodotto con lo Stabile del Veneto. Terzo episodio di una trilogia che comprende Don Chisciotte e Romeo e Giulietta, ispirata a fatti realmente accaduti , la pièce è un bellissimo esempio di meta -teatro in cui storia, personaggi e attori entrano ed escono continuamente dal testo di riferimento, per agganciarsi alla percezione del pubblico anche con il coinvolgimento diretto degli spettatori, in questo caso un fittizio Luigi XIV ingaggiato come espediente sostitutivo di quello “reale”, assente fisicamente nella pièce. Applauditissimi gli interpreti Anna De Franceschi, Stefano Rota, Sara allevi e Michele Mori, che interpreta Girolamo Salimbeni e Marco Zoppello, nei panni di Giulio Pasquati, che firma anche la regia. Il festival procede fino a metà ottobre info www.tcvi.it sui social @cicloclassici.


Questo è l’ultimo capitolo di una trilogia dedicata ai grandi testi classici del teatro moderno europeo: Shakespeare, Cervantes e Molière in cui i protagonisti sono due attori italiani della Commedia dell’Arte realmente esistiti alla fine del ‘500, Giulio Pasquati e Girolamo Salimbeni. Come avete cercato il materiale su di loro e come mai proprio loro?

Marco Zoppello: “Prima è nata l’idea di fare Don Chisciotte, l’ho proposto a Michele, l’attore toscano, e lui mi ha detto di sì. Un giorno, in un mercatino dell’usato, ho trovato un testo di Luigi Rasi, della fine dell’800, sono 3 libri, io ne ho trovato uno, che raccolgono tutte le storie dei comici italiani. Ho comprato questo libro e mi sono messo a studiarlo; sono andato a cercare gli altri libri,introvabili, e li ho trovati in una biblioteca a Verona, solo che essendo molto antichi non si potevano portare fuori e mi sono chiuso in biblioteca 3 giorni e ho trovato questi due comici che avevano lavorato nella stessa compagnia, che davvero erano stati condannati a morte perché avevano preso in giro il Duca di Mantova. Da questo fatto realmente accaduto è nata l’idea di raccontare il Don Chisciotte attraverso l’Inquisizione e la condanna. Da un altro fatto realmente accaduto, il passaggio per Venezia di Enrico III, è nata l’idea di fare Romeo e Giulietta, dove Enrico III nella stessa notte frequenta Veronica Franco, cortigiana veneziana realmente esistita, e li porta a Parigi: da qui l’idea di portare i comici a Parigi, rappresentare l’ultimo capitolo all’interno del Palais-Royal dove lavorava Molière negli ultimi giorni della sua vita. Questo è lo schema della trilogia”.

Quello che viene mostrato è il rapporto tra gli attori il testo e il pubblico. Qual è il potere del testo sull’attore? È il testo che rende celebre l’attore che lo interpreta? Arlecchino è stato il personaggio che più ti ha dato successo.

“Se mi dici Arlecchino ti dico di sì perché il testo è quello e in qualche modo cerco di farlo vivere attraverso le mie capacità. Qui è differente perché non c’è un testo vero e proprio: scrivo una drammaturgia poi ci lavoriamo con gli attori, risistemo di nuovo e si continua a modificare fino alla fine, è una forma di lavoro diversa da quella tradizionale, di regia o prosa classica”.

Diceva Michele che l’incontro con i ragazzi dello stage che avete fatto è stato determinante nel rimaneggiare alcune cose.

“Eh sì, ci hanno fatto fare delle scelte drastiche, tipo togliere un’intera scena perché se la provavamo tra noi funzionava ma col pubblico no. È il pubblico che dà il senso a questo tipo di lavoro, il confronto è imprescindibile e per noi è stato fondamentale il lavoro con questi ragazzi, che voglio ringraziare pubblicamente”.

Il malato immaginario (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Capita spesso che un attore nei confronti del ruolo che deve interpretare sia particolarmente ispirato al punto da portarselo dentro per molti anni. Lo vediamo nel cinema, nella televisione: il caso più eclatante Bela Lugosi con Dracula, Ted Neeley con Gesù nel Jesus Christ Superstar, Larry Hagman con Jr della serie Dallas, in Modern Family ci sono gli attori che crescono con i personaggi. Un personaggio può evolversi nel tempo col passare degli artisti?

“Hai citato esempi al limite, Dracula, quelli più eclatanti della storia del cinema. Per quanto riguarda le serie è un’altra cosa perché facendo un lavoro attoriale dilatato, alla fine il pubblico ti riconosce con quella cosa lì: pensa a Il Torno di Spade, 9 stagioni, o a Dr House, c’è un sentimento di appartenenza. Per i personaggi teatrali dipende da tanti fattori, penso a Ferruccio Soleri che ha fatto per 60 anni Arlecchino. A me non è ancora capitato di farlo per così tanto tempo; in qualche modo bisogna anche dimenticarsi di quello che è stato fatto e ritornare al testo, quello che abbiamo fatto con l’Arlecchino di Giorgio Sangati: l’ispirazione è avvenuta un po’attraverso la maschera, un po’ il mio colore e un po’ l’intuizione di andarlo a cercare più verso il Medioevo che verso Strehler”.  

Voi siete specializzati in commedia dell’arte e teatro popolare, e state avendo moltissimo successo. Ieri sera ci sono stati dei riferimenti più o meno espliciti alla cultura contemporanea: il grande omaggio a Modugno e alla canzone napoletana moderna. Come inserite elementi di cultura pop con la commedia dell’arte? Quando si definisce “pop” si ha in mente qualcosa di molto contemporaneo.

“Per me è importante che ci sia uno scostamento temporale; un pezzo di Modugno è qualcosa che appartiene alla cultura popolare ma che non è estremamente moderno altrimenti diventa una stonatura: è recente, sedimentato anche per via delle parole e della lingua, non sta cantando Ramazzotti o Tiziano Ferro, è un passato moderno ma non è il ‘600. Mettiamo insieme cose che non stridano e utilizziamo quello che sappiamo fare per cui con pochi accordi, “Tu si ‘na cosa grande” veniva fuori”.

Ironizzate anche sui luoghi comuni delle superstizioni teatrali, Macbeth…

“Sul viola!”.

Eh appunto: un’apoteosi di viola dai costumi alle luci.

“Questa è una richiesta che ho fatto al cast artistico e alle maestranze, capireparto, disegno luci: partiamo dal blu fino al viola e vediamo cosa c’è in mezzo. Infatti ognuno di noi ha degli elementi che richiamano il viola perché la leggenda vuole che Molière fosse vestito di verde e di viola quando è morto. Ho voluto sublimare un po’ questo segno e prendermi gioco un po’ della scaramanzia”.

I personaggi dei medici creano un distacco stridulo sono ridicoli ma decisamente sinistri, come li hai costruiti e perché tutte queste campanelle che sembrano preannunciare delle sciagure?

“Siamo sempre in un ambito di commedia ma anche di farsa e ci interessava che fossero divertenti ma anche inquietanti. Soprattutto nella prima scena del sogno dove i medici indossano le maschere, mi interessava che si cominciasse a presagire quello che sarebbe successo alla fine: quella scena inizia col suono delle campane, questo per me dava un segnale molto forte, anche una cosa che ritornava, le campane a morto, i medici della peste che segnalavano il loro arrivo col suono delle campane così la gente sapeva che stavano arrivando. È giusto che siano momenti stridenti perché dicono con estrema leggerezza delle cose terribili e che il torto, con le persone importanti, è che pretendono che il medico le curi, invece il popolo è più accomodante”.

Se il popolo muore non lo reclama nessuno.

“Esatto, questo è proprio da un testo di Molière: basta seguire i dettami della medicina e nessuno ti può dire niente, però se muore un principe comincia ad essere problematico. “Il torto è sempre di chi muore” dicono”.

C’è una scena scritta benissimo che in pochissime parole riassume secoli di condizione lavorativa della donna nel mondo non solo della cultura: “Basta la prima ochetta bazabanchi a mandarte in mezzo ala strada”. È tagliente e dolorosa questa parte, calibrata molto bene nell’insieme. Mi sembra che la vita dell’attore sia vista con molto fatalismo.

“Sì è vero. Quella scena c’è dalla prima scrittura. Ognuno dei personaggi si scontra con il passare del tempo: Molière è alla fine della sua esistenza, la figlia è all’inizio, Pasquati tra poco prenderà le redini della compagnia, Salimbeni passa la vita a preparare il prossimo errore finché non si innamora e finalmente lo vediamo disarmato che gli mancano le parole e Veronica porta avanti il discorso più doloroso dal punto di vista femminile e cioè che da principio era vista come prima attrice a cui non mancano mai i ruoli e le porte si spalancano poi all’improvviso arriva una persona che dice che da quest’anno lei entra in un’altra fascia d’età, che non fa più la figlia ma fa la madre. il passaggio dalla madre alla zia alla nonna è repentino. Lei soffre di questa cosa e c’è da subito il conflitto con la nuova arrivata”.

C’è anche un altro problema: “Adesso al re ghe piaze i baletti”.

“Certo, Molière lavorava col compositore Lully che lo ha sorpassato in celebrità per quanto riguarda i favori del re. Molière ha sofferto tantissimo di questo e infatti l’ultimo testo, il malato immaginario,è tornato ad essere una comédie –ballet con un altro compositore. La richiesta di indulgenza che fa Molière è ispirata ad una vera che lui aveva scritto per il re, l’usanza di dedicare lo spettacolo a un potente era chiamata così: siate indulgenti con noi e accettatelo spettacolo. Ci sono 3 momenti di organetto: l’intermezzo è un balletto vero e proprio e la proclamazione finale del medico è un altro momento coreografico. Li abbiamo rigiocati per un cambio scena dove si vedesse di nuovo la lotta tra le due attrici”.



nr. 34 anno XXII del 30 settembre 2017

Il malato immaginario (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)

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