Com'è nata la sua frequentazione con Virgilio Scapin?

"È iniziata presto, nel 1976. Quando andavano in centro a lavorare o a fare compere, i miei mi depositavano nella libreria di Scapin. Impietosito da questo ragazzino che vagava per il negozio sfogliando libri che non poteva comprare, Scapin me li ficcava in mano e mi diceva “tienteli”. Io glieli pagavo a cento, duecento lire per volta. Fosse dipeso da lui, me li avrebbe regalati dal primo all’ultimo, anche perché non amava impegnarsi in alcun tipo di contabilità. Ma aveva capito che rifiutando i soldi mi avrebbe mortificato. Era generoso in modo intelligente".

Che aria si respirava dentro quel luogo e nell'ambiente culturale vicentino di quegli anni?

"La Due Ruote funzionava come una stazione di scambio. Era una zona neutra, intermedia, dove si incrociavano la Vicenza mandarina, ecclesiastica e civile, e la Vicenza popolare. Entrando da Scapin in un giorno qualunque potevi trovarci Neri Pozza, Goffredo Parise, ma anche Araldo Geremia, che vendeva baccalà all’angolo. Oppure Ugo Tognazzi, Monica Vitti, i protagonisti dei film ai quali Scapin partecipava come attore. Poi c’erano gli avventori abituali, che parlavano di libri come al mercato si discute di sedano e di cicoria. Scapin spesso non apriva bocca, ma la sua presenza faceva da mastice. Era l’oracolo del posto, che presta orecchio a tutti e non risponde alle domande di nessuno".

Cosa ha rappresentato Scapin per la nostra città?

"È stato l’ultimo grande interprete della vicentinità. I suoi concittadini si contemplavano in lui, a volte compiacendosi, altre detestandosi. Scapin un po’ copiava e un po’ contraddiceva gli umori che rispecchiava. Era così per intima costituzione, non perché scegliesse di esserlo. Il suo anticonformismo era spesso un partito preso, e il suo conformismo una recita. Quando i vicentini correvano con i cani, lui correva con la volpe, e viceversa. D’altra parte, cosa aspettarsi da un anticlericale educato in seminario? Figure come la sua oggi si stenta perfino a immaginarle; sono diventate incomprensibili quanto l’epoca che le ha prodotte".

Qual è il ricordo più importante che conserva del personaggio?

"Dell’uomo ricordo la generosità, soprattutto verso i giovani. Del personaggio, la bramosia di vita, di cui era consapevole e che teatralizzava – per esempio, praticando il voyeurismo alimentare. È capitato durante la sua malattia. Prendeva me e un altro della mia età, ci portava in un ristorante, ordinava pasti di cinque portate e ci ingiungeva di mangiare. Lui stava a guardarci - con magra soddisfazione, temo. I nostri appetiti erano troppo inferiori al suo. Noi non siamo usciti da un dopoguerra. Non sappiamo che cosa significa mangiare per placare il ricordo della fame".

Cosa direbbe oggi ad un neofita che non lo conosce, per farglielo apprezzare e scoprire?

"Gli raccomanderei di procurarsi qualcuno dei libri di Scapin, in particolare I magnasoete. E naturalmente, di leggersi La compagnia di Virgilio".

Marco Cavalli, critico, saggista e traduttore vicentino dagli interessi molteplici, si è occupato in modo particolare di Antonio Fogazzaro e di Aldo Busi, e ha inoltre curato l'edizione del romanzo postumo di Neri Pozza L'educazione cattolica. Ha frequentato fin da bambino la libreria vicentina Due ruote, stringendo nel tempo amicizia col titolare Virgilio Scapin (1932-2006), grazie al quale ha potuto conoscere i personaggi speciali che ne costituivano la "compagnia". È presidente del premio letterario intitolato a Scapin, che si assegna annualmente a Breganze e che quest'anno festeggia il decennale con il tema "L'arte dell'accoglienza".



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