NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Conoscenza e coscienza di pace di Italo Francesco Baldo; Il “Regolamento del Senato” e il Presidente di Franco Dori

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Conoscenza e coscienza di pace di Italo Francesco

Roma, Ara pacis

 

 

Conoscenza e coscienza di pace

 

Introduzione

Spesso si tende a giudicare le più gravi questioni sull’onda dell’emotività, della sensazione che si prova nell’istante in cui si assiste ad un avvenimento. Ne sono prova le questioni morali, che coinvolgono direttamente o indirettamente le persone. È facile nel momento in cui si assiste ad un bombardamento schierarsi contro la guerra, o quando si approntano strumenti di difesa affermare il bene della pace che deve prevalere, Così come quando siamo di fronte ad un malato grave, il sentimento ci coinvolge e riteniamo che la richiesta di “porre termine” ai suoi giorni sia la soluzione migliore. Nell’ambito delle possibili azioni morali manca proprio la morale, in altre parole quella riflessione necessaria per comprendere la natura e il fine dell’azione che intendiamo intraprendere. Il fine dell’azione morale è il bene, non l’utile immediato, dettato dall’emergenza o dal “già compiuto”. Infatti, compiere un’azione senza riflessione determina spesso soluzioni parziali che non danno nessuna prospettiva di bene. Una precisa riflessione non dipende mai da una situazione di urgenza, ma è frutto di pacatezza che delinea i contenuti e/o i criteri della decisione. Abbiamo morali che stabiliscono a priori i contenuti da osservare, ad esempio i 10 comandamenti della religione ebraica, o i pilastri e le altre norme dell’Islam e allora abbiamo etiche che determinano il corretto agire dell’uomo che le accetta. Vi è poi l’altra prospettiva, quella indicata da I. Kant, che non stabilisce a priori i contenuti, la forma con la quale si debba ragione allorché si intende compiere un’azione. L’imperativo categorico kantiano, elaborato ne Il fondamento della metafisica dei costumi, e non come spesso insegnato ne La critica della ragion pratica pone l’uomo con la sua decisione d’agire nella riflessione se ciò che intende compiere, ad esempio l’amore di sé, possa diventare una legge universale della natura. Ciò varrebbe per un malato terminale, esemplifica Kant; ma “se l’amore di sé porta a distruggere la vita proprio in virtù di quel sentimento che è destinato a promuoverla, sarebbe in contraddizione con la stessa, né sussisterebbe come natura e quindi come massima non potrebbe assolutamente trovar luogo come legge universale della natura e in conseguenza contrasta pienamente col supremo principio di ogni dovere”. (Fondamento della metafisica dei costumi, a cura di A. Pizzuto, Palermo Milano, Sandron, 1942, pp.82-83).

Ciò che Kant afferma è che l’azione non può dipendere dall’urgenza, ma necessita di riflessione anche nella stessa emergenza. Invece accade sempre più spesso nella nostra epoca che si segua l’evento immediato e soprattutto quando è mediatico con attenzione a mostrare un pensiero adatto alla circostanza e magari “ alla moda” o “sull’onda della corrente che si crede vada per la maggiore”.

La coscienza non è portata alla riflessione e alla pacatezza del giudizio, ma è “stimolata” a prendere posizioni e decisioni sull’immediato. Ciò comporta anche una rigidità nei giudizi e un arroccarsi, producendo un pensiero ad un'unica direzione che non tiene presente, a 360 gradi, quanto necessario e magari forti riferimenti alle considerazioni precedenti, condotte da coloro che ci possono nel corso dei secoli aiutare a comprendere meglio anche la nostra epoca.

I temi morali debbono essere riflettuti con grande pacatezza, non si tratta di esibire posizioni, che possono essere  evidenziate sui giornali e che fanno rumore, ma proposte con attenzione alle conseguenze e tenendo presente tutte le circostanze, non solo quelle che catturano l’attenzione. Infatti, la morale non è mai “di moda”, è altro, perché riguarda il fine e i mezzi per raggiungere il bene, non per essere rimirati nella piazza.

Si potrebbe esemplificare in tante possibili azioni, ma il problema della pace e della guerra, appare come uno dei più importanti, perché coinvolge ciascuno di noi e la nostra vita associata. Questo richiede la massima attenzione e come diceva già Euripide ne Le supplici, un pensiero che si svolga completamente tenga presente tutti glia spetti, non solo quelli che appaiono in quel momento

 

La Guerra e la pace

Ad Eraclito d’Efeso, si deve una delle più importanti definizione della guerra. In un celebre frammento, egli sostiene che “polemos (la guerra) è padre di tutte le cose”, in altre parole: senza conflitto non vi è vita nel mondo. La posizione dell’Oscuro, così era anche definito il filosofo greco, ha avuto sempre illustri seguaci, anche in coloro che hanno ritenuto, come Platone, che per avere la pace bisognasse preparare la guerra. La riflessione filosofica greca non conosce una posizione di pace assoluta, questa è invece affermata solennemente da Aristofane nella sua commedia la Pace e da Euripide. Nella tragedia Le supplici è rilevata l’importanza della pace e la stoltezza della guerra, che arreca lutti e rovine anche a coloro che dichiarano guerra, sperando solo nella rovina del nemico. Nel mondo greco però prevale la posizione d’Eraclito. Nel mondo romano la pace è una tranquilla libertà, ma di essa non vi è una compiuta elaborazione, questa è considerata solo come la cessazione della guerra. Quando le porte del tempio di Giano, dio della guerra, sono chiuse, vi è pace. Nemmeno Augusto riuscì veramente a chiuderle. La riflessione sulla pace e la guerra nel mondo cristiano hanno un’elaborazione molto complessa. Se la pace è rappresentata da Gesù Cristo, la guerra rappresenta la negatività assoluta. È vero, però, che lo stesso san Paolo usa talora un linguaggio militare, ma non per una dimensione bellica, ma per rilevare, come per analogia, la scelta cristiana sia una lotta contro il male, che invade o tenta di invadere la realtà dello stesso cristiano. Giustino nel II secolo d.C. nell’opera Dialogo con Trifone, commentando Michea, sostiene che la guerra, se si sceglie il messaggio evangelico, non si effettuerà, anzi “tutti muteranno i loro strumenti di guerra, cambieremo le spade in aratri, le lance in strumenti agricoli e coltiveremo la pietà e la giustizia”. Ma il problema non sarà quello di muovere guerra, ma uno ben più forte, e sarà quello intorno alla liceità della guerra di difesa, che uno stato può condurre anche per salvaguardare la religione. A questo proposito la posizione di Sant’Ambrogio è chiara. Nel De officiis ministeriorium sostiene che vi può essere la necessità della guerra per difendere lo stato e la giustizia, e Sant’Agostino precisa ulteriormente che una guerra difensiva è sempre giusta, ma il problema guerra non può essere considerato in sé, ma in relazione al benessere dello Stato. Egli ha in mente il problema delle invasioni barbariche e la difesa dei cristiani accusati di aver consentito con il loro affermazione di pace la rovina proprio dell’Impero Romano.

Lo Stato è necessario per quella naturale tendenza degli uomini a vivere insieme e quindi la sua difesa è un dovere. L’elaborazione nel mondo cristiano prosegue con molti autori, tutti sottolineano il bene della pace e la negatività della guerra. Gli uomini fanno la guerra, ma dovrebbero sempre prima preoccuparsi della pace. Così le Crociate non nascono, come oggi è di moda affermare, per una velleità imperialistica, ma perché i Turchi minacciavano l’Impero Bizantino e la stessa Europa. Esse nacquero come difesa non come offesa, anche se come tutte le guerre, gli orrori che si perpetrano, furono enormi e da ambo le parti. Proprio la minaccia turca nel Cinquecento spinse uno dei maggiori pensatori sulla pace, Erasmo da Rotterdam, a sostenere la necessità della guerra. Sì proprio lui, che è considerato il pensatore che considera la pace come l’a priori della vita dell’uomo, sostenne che contro chi invade e distrugge, contro coloro che s’insinuano nel corpo della cristianità, come i bacilli di una malattia, è possibile muovere guerra. La guerra non sempre e in ogni modo, ma solo dopo aver espletato tutte le possibilità di pace, anche quella di comprarla. Ma se ogni tentativo fallisce non ci si può far distruggere. Nell’opera Utilissima consultatio de bello Turcis inferendo (traduzione italiana Guerra ai Turchi, in Erasmo, Pace e guerra, a cura di I.F. Baldo, Roma, Salerno), scritta per unire contro il pericolo dei Turchi che avevano invaso ormai tutta l’Ungheria e nel 1529 addirittura assediato Vienna. La guerra e l’accettazione dell’invasione turca non sono la volontà di Dio, come sosteneva Lutero, ma sono avvenimenti, afferma Erasmo, causati dalla poca unione della cristianità, dai conflitti interni, ben peggiori della guerra esterna. Il pericolo di distruzione che i Turchi potevano portare, va combattuto; ci si può, anzi ci si deve difendere. Il messaggio d’Erasmo non fu seguito. La vittoria a Lepanto moderò l’espansionismo turco, che fu sconfitto solo nel 1699 con la pace di Carlowitz. L’elaborazione sul tema della guerra successivamente s’incanalò nell’ambito giuridico e del diritto internazionale. Tra le posizioni più interessanti nel rifiutare la guerra, mediante progetti per la pace perpetua, vi è quella d’Immanuel Kant. Essa indica che la pace si può ottenere solo con il concorso di tutti: tutti devono abolire gli eserciti permanenti, tutti non devono armarsi. Così si pongono le basi della pace. Ma l’Ottocento non conoscerà lo sviluppo di questa posizione, anzi verrà sempre più teorizzato il conflitto. Il filosofo Hegel sosterrà addirittura la liceità della guerra d’offesa per difendere la nazione. Sul piano sociale Marx, il seguace di Hegel, sosterrà la guerra, chiamata lotta, di classe. Nel Novecento ben sappiamo quale sia stato il ruolo della guerra d’offesa, soprattutto nel secondo conflitto, quando la strana alleanza tra Germania e URSS la scatenò per il possesso della Polonia. Uscire dalla logica di guerra non è facile, ma si può se non si fa del pacifismo ad oltranza, che poi finisce sempre per appoggiare gli aggressori. Si devono mettere in atto tutte le possibilità deterrenti, già lo affermava Erasmo e con lui il messaggio di Pio XII Optatissima pax del 1947 e tutto il pontificato di Giovanni Paolo II. La pace non è il frutto di una guerra, ma è uno stile di vita delle persone e degli Stati, soprattutto quando essi si uniscono, lasciando da parte gli interessi particolari, di cui la Francia è esempio già dal Cinquecento, quando si alleò con i Turchi, e promovendo con fermezza proprio la pace, sapendo che la giustizia si deve difendere anche con sacrifici.

Conoscenza e coscienza di pace di Italo Francesco (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

 A. Dürer, Le mani di un Apostolo

 

Per la pace: la lezione di Erasmo da Rotterdam

Ogni giorno da molto tempo, troppo tempo, ci si domanda: perché non si riesce ad ottenere, ad esempio, la pace in Palestina tra i due contendenti lo Stato di Israele e l’autorità palestinese? I fautori della pace non riescono ad ottenere risposta, anzi! Da che cosa dipende la difficoltà di costruire la pace. Non si tratta, come spesso il pacifismo ha affermato di identificare di chi è la colpa, per far cessare una guerra. L’errore principale di costoro è che essi ritengono la pace una questione politica, ottenibile attraverso una lotta o, quando va bene, per via diplomatica. Una posizione che assuma, infatti, un simile concetto non realizza la Pace, ma propone uno scontro politico nel quale si coinvolgono coloro che invece possono proporre la pace. La pace non è un obiettivo né politico, né appannaggio di una forza che si ponga come destabilizzante gli equilibri dei “signori della guerra”. La lotta contro il dominio, la lotta contro chi ideologicamente è considerato patrocinatore della guerra, per esprimerci con un termini cari a tutta una letteratura pacifista e di pacifisti di parte, che hanno nel loro codice genetico la violenza come elemento di lotta politica, non è costruzione della pace. La pace non è la risultante di una contrapposizione dialettica tra diverse forze, una magari più forza dell’altra, ma ha un’importanza e un fondamento che deve essere considerato come elemento a priori della vita dell’uomo e particolarmente della vita in società e negli Stati. Non sono più sufficienti, oggi, le prospettive di diritto internazionale, le violazioni non sono facilmente punibili, ma la prospettiva vincente è la ragione e una prospettiva che non sia solo umana. In questa direzione il più grande esponente della necessità della pace è l’umanista fiammingo Erasmo da Rotterdam, che dalla sua prima opera, l’Orazione intorno alla pace ed alla discordia contro i faziosi, (Piovan, Abano T. 1991), scritta all’età di circa vent’anni, fin quasi all’ultima, Preghiera per la pace della chiesa per tutta la via ha affermato che la Pace non è le paci che si costruiscono con trattati, ma la pace deve essere una condizione di vita, uno stile di vita e nessun prezzo non è mai basso per avere pace. In essa, Erasmo richiama nella sua opera Il Lamento della Pace (Roma, Salerno 2004) il gran tragico greco Euripide delle Supplici, vi è il fiorire delle arti e della ricchezza, non si deve essere stolti e votare per la guerra, pensando che i danni saranno solo per i nemici. La pace non è nemmeno la fine della guerra, troppo volte i trattati di pace contengono in realtà i presupposti di future guerre, come ha ben dimostrato il trattato di Versailles nel 1919, che fu fatto non per la pace, ma contro la Germania. Così si gettano i semi di future guerre. Per non parlare poi degli attentati terroristici, un altro importante filosofo, Immanuel Kant nello scritto Per la pace perpetua, (Milano, Rizzoli, 1968) sosteneva che se si vuole la pace, non si devono compiere atti che pregiudicano la pace futura possibile. Gli attentati dei kamikaze sono di questo genere e chi ha avuto un morto senza lo scontro bellico, difficilmente riuscirà a pacificare il proprio animo, com’è anche accaduto in Kossovo con i numerosi, troppi stupri. La guerra è produttrice di guerra, afferma Erasmo, la pace si addice all’uomo, la guerra alle fiere come afferma Ovidio. Troppo poco negli ultimi secoli, a parte i pontefici romani, abbiamo riflettuto appieno sulla guerra, siano ancora figli di Hegel che affermava la legittimità della guerra d’offesa o del fondatore di molte posizioni di sinistra Marx, che afferma la possibilità della violenza in politica. Solo un atteggiamento, uno stile, si diceva, di pace, costruisce la pace e prima di tutto dobbiamo rivolgerci alla dimensione stessa dell’uomo, che sa con il proprio natural lume individuare che cosa sia il bene della pace, se non si rifugia in particolarismi o in posizioni d’assolutismo.

Ne è esempio proprio il Catechismo della Chiesa cattolica, che sulla scia della messaggio evangelico di Cristo, la Pace, riflette sul tema della possibilità della guerra nella consapevolezza:” Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma, in quanto riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: “Con le loro spade costruiranno aratri e falci con le loro lance; nessun popolo prenderà più le armi contro un altro popolo, né si eserciteranno più per la guerra” (Is 2,4) [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 78].(Catechismo della Chiessa cattolica, Evitare la guerra, Conclusione). Questa coscienza deve anche tradursi nell’impegno a che:”2308 Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa […]2310 I pubblici poteri, in questo caso, hanno il diritto e il dovere di imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa nazionale”.

Con chiarezza la Chiesa cattolica si esprime sulla guerra che non ammette mai di offesa e sempre con una grande attenzione a costruire la pace; nel Compendio del Catechismo troviamo il riassunto della dottrina (i numeri da2307 a 2330 indicano il riferimento al Catechismo):

483. Quando è moralmente consentito l'uso della forza militare?

2307-2310

L'uso della forza militare è moralmente giustificato dalla presenza contemporanea delle seguenti condizioni: certezza di un durevole e grave danno subito; inefficacia di ogni alternativa pacifica; fondate possibilità di successo; assenza di mali peggiori, considerata l'odierna potenza dei mezzi di distruzione.

484. In caso di minaccia di guerra, a chi spetta la valutazione rigorosa di tali condizioni?

2309

Essa spetta al giudizio prudente dei governanti, cui compete anche il diritto di imporre ai cittadini l'obbligo della difesa nazionale, fatto salvo il diritto personale all'obiezione di coscienza, da attuarsi con altra forma di servizio alla comunità umana.

485. In caso di guerra, che cosa chiede la legge morale?

2312-2314

2328

La legge morale rimane sempre valida, anche in caso di guerra. Essa chiede che si trattino con umanità i non combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni deliberatamente contrarie al diritto delle genti e le disposizioni che le impongono sono dei crimini che l'obbedienza cieca non serve a scusare. Si devono condannare le distruzioni di massa come pure lo sterminio di un popolo o di una minoranza etnica, che sono peccati gravissimi: si è moralmente in obbligo di fare resistenza agli ordini di chi li comanda.

486. Che cosa bisogna fare per evitare la guerra?

2315-2317

2327-2330

Si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare in ogni modo la guerra, dati i mali e le ingiustizie che essa provoca. In particolare, bisogna evitare l'accumulo e il commercio delle armi non debitamente regolamentati dai poteri legittimi; le ingiustizie soprattutto economiche e sociali; le discriminazioni etniche e religiose; l'invidia, la diffidenza, l'orgoglio e lo spirito di vendetta. Quanto si fa per eliminare questi ed altri disordini aiuta a costruire la pace e ad evitare la guerra.

Soprattutto coloro che non sono parte in causa debbono adoperarsi per la pace, non parteggiare, è questo il difetto del pacifismo, che vuole la pace, intesa come l’affermazione delle sole proprie posizioni, prende posizione “contro” per mostrarsi ed invita al dialogo più per necessità di retorica o di contingente vantaggio elettorale che per convinzione precisa. Questo lo possiamo riscontrare proprio nel pacifismo, che, in realtà, parteggia solo ed esclusivamente per una parte contro un’altra e non promuove la cultura della pace, ma una posizione ideologica che ha espressione spesso non propriamente pacifiche. Se con costanza ci fosse un autentico messaggio di pace, la pace stessa forse avrebbe qualche possibilità ma è scacciata da ogni dove, perché ciò che fa rumore…di guerra anche psicologica e politica è più apprezzato. Basti pensare che spesso il pacifista lotta per la pace, contraddicendosi, perché la pace non è lotta, né dialettica, ma dialogo che parte dalla dimensione dell’interiorità, dal riconoscimento del valore della dignità d’ogni uomo, e senza scopi politici, in realtà partitici. La guerra è il male, ma non è il male che compie una sola parte. Giova ricordare che i sassi sono stati tra le prime armi utilizzate e il mitra è solo un’arma tecnologicamente più evoluta. Chi utilizza un sasso o un mitra compie sempre e in ogni caso un atto di violenza. Il significato della pace non è però solo umano, avverte Erasmo, ma ha un’oggettività ed una validità che è superiore agli stessi uomini, e per l’umanista la pace è Gesù Cristo stesso. Se gli uomini non comprendono con la propria ragione è perché la fanno serva di particolarismi, se invece danno a loro stessi un significato di là dalla pura terra, allora si apre autenticamente un mondo di pace, possiamo costruirlo se lo vogliamo, cioè se sapremo consacrare e santificare l’uomo e la sua vita in ogni angolo della terra, ma ne saremo capaci?

 

Italo Francesco Baldo

 

Conoscenza e coscienza di pace di Italo Francesco (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

 

Bassorilievo a Vicenza, Palazzo Balzafiori: Clauduntur belli portae



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