NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
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Il grillo parlante. John Locke: la nascita del liberalismo

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Il grillo parlante. John Locke: la nascita del lib

 

 

Parte XII



Introduzione

Thomas Hobbes con la sua visione del contratto sociale nel quale i singoli, rinunciando alla propria libertà, si assoggettano ad un’unica fonte di legislazione(pactum subjectionis), ossia lo Stato, unico legislatore, non ebbe certo, all’epoca buona fortuna. In realtà la visione hobbesiana sarà ripresa in altra epoca, quella dei totalitarismi, allorché questi affermeranno che “lo Stato è l’unico datore di leggi” (cfr. la concezione del fascismo scritta da G. Gentile per l’Enciclopèdia Treccani”. Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d'istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l'uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo dell'unità, della forza e della giustizia”. Cui fa eco la struttura dello Stato sovietico dove predomina il Soviet Supremo della repubblica federata che è “ l’unico organo legislativo” (Costituzione dell’Unione delle repubblica Socialiste Sovietiche, ed. italiana del 1944, artt.45-56 e 59). La Germania hitleriana non abolì ufficialmente la Costituzione della Repubblica di Weimar ma è ben noto come le leggi fossero impostate solo alla visione nazionalsocialista).

Hobbes non affermava la supremazia di una visione di partito sullo Stato, ma le visioni totalitarie affermano se stesse come “stato” e non richiedono un contratto”, ma solo un’adesione cieca e supina come ha ben evidenziato nel suo famoso saggio, Le origini del totalitarismo, H. Arendt (Milano, CDE, 1997). Lo Stato totalitario afferma di appagare l’individuo il quale si appaga dello Stato stesso, perché questo provvede a tutte le sue necessità secondo principi di equilibrio e giusta ripartizione delle risorse. L’origine hegeliana di questa concezione, lo Stato etico, è ben evidente, il diritto non può che essere in funzione dello stato che realizza la dimensione etica di se stesso e attraverso le leggi l’attua.

La visione del pensatore inglese, a differenza del totalitarismo, richiede una sottomissione attraverso un pactum che non è il frutto di una contrattazione, ma più semplicemente è una relazione di garanzia. Lo Stato fornisce le condizioni per la sopravvivenza e l’utile e i singoli rinunciano ad esercitare in proprio la libertà.

Il mutamento che inizia a subire la visione della libertà si approfondisce sempre più nella visione di diversi pensatori che fanno capo alle chiese o sette riformate. Essa non è la dimensione ontologica dell’uomo, essa è una prosdpettiva ristretta alla sopravvivenza e al vantaggio o, come s’inizierà ad affermare, la libertà è la fruizione dei diritti naturali.

Proprio l’elaborazione dei diritti naturali ad opera del giusnaturalismo moderno, iniziato con Ugo de Groet (1583-1645), consente di poter affermare che sempre più la libertà diviene un godimento di diritti. Questa prospettiva era già nota ai pensatori greci, in particolare Aristotele, che affermavano l’esistenza di un diritto naturale, proprio della natura umana in quanto tale e pertanto giusto per se stesso che era superiore al diritto positivo, ossia alle leggi che gli uomini emanavano nel corso del tempo. La coscienza di ciò esprimeva la realizzazione della libertà nel campo del diritto cosicché il giusto era anche ciò che era buono in particolare nell’antichità Cicerone e nel Medioevo San Tommaso d’Aquino. Il diritto positivo doveva conformarsi a quello naturale, che diveniva canone del diritto emanato nella storia dagli organismi statutari.

Di contro il giusnaturalismo moderno afferma che esistono diritti naturali innati negli individui e che allo Stato compete solo di salvaguardarli e assicurarne la fruizione. La corrente avrà il suo apice con le Rivoluzioni americane e la Costituzione degli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione francese e la prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789). Tra i vari esponenti: U. Grozio, S. Pufendorf, C. Thomasius, J. Locke, J.J. Rousseau, del giusnaturalismo moderno, tra cui si può secondo alcuni interpreti si possono collocare anche Th. Hobbes e I. Kant, non esiste una conformità di visione e di prospettiva di realizzazione, ma hanno una sorta” di “base” comune, costituita dai seguenti elementi: la condizione pre-stato ossia la dimensione naturale della società in cui vivono gli individui, liberi ed eguali e decidono di unirsi o per una sorta di appetitus socialis (Grozio) o proponendo una civitas per uscire dallo stato naturale Francisco de vitoria) o per pura necessità contingente; il patto o contratto(negocium) come strumento per far sorgere lo Stato, deliberandone la Costituzione e da queste le leggi che salvaguardano la fruizione dei diritti naturali (liberalismo) o sostituiscono le leggi naturali con altre al fine di realizzare al meglio lo Stato stesso e ciò mediante la volontà generale (J.J. Rousseau).

Accenniamo solo che con G.F.W. Hegel il giusnaturalismo moderno entrerà in crisi, perché per il pensatore tedesco il diritto esiste solo come legge di uno Stato etico. Ulteriori prospettive delle concezioni del diritto tra cui quella importantissima di Hans Kelsen (1881-1973), il normativismo e quella di Eugen Ehrlich (1862–1922 che sostiene la neutralità etica del diritto, sono rintracciabili in E. Opocher, (1914-2004), Lezioni di filosofia del diritto: la realtà giuridica e il problema della sua validità, a cura di F. Todescan, Padova, CEDAM, 1976. Di particolare interesse nel dibattito sono pure D. Castellano, Razionalismo e diritti umani, Torino, G. Giappichelli Ed., 2003

Il grillo parlante. John Locke: la nascita del lib (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

Ch. Thomasius

 

Ogni esponente del giusnaturalismo moderno ha una visione propria dei diritti naturali e in conformità alla prospettiva antropologica che elabora. Ciò che però preme considerare in questo contesto, è che la coscienza e la libertà sono sempre più collegati ad una visione giuridica, considerata questa come l’unica che possa garantire l’esercizio della coscienza e della libertà stesse. In particolare proprio il giusnaturalismo moderno che identifica nei diritti naturali l’identità dell’individuo e la riconosce di fronte a tutti gli altri individui, stabilisce che non sia mai possibile prevaricare quei diritti, nemmeno da parte dello Stato e per ragioni dette “superiori”.

La coscienza è solo dell’individuo che diviene arbitro di se stesso nell’orizzonte terreno. Nasce la libertà di coscienza ovvero ogni individuo determina da sé ciò che intende porre a fondamento/ guida della propria vita e nessuno può valutare /prevaricare quanto egli afferma. Ciò vale in assoluto nella situazione di pre-Stato, ma l’impossibilità dell’individuo di poter vivere “da solo” poiché la terra è rotonda, affermerà Kant nel saggio Per la pace perpetua a proposito del diritto cosmopolita, (tr. it. M. Montanari, Milano, Rizzoli, 1968, pp. 41-43) determina- secondo la visione liberale - la necessità di un’unione che via via si perfezioni, che, nel mentre riconosce l’individualità e i suoi diritti, possa, come chiaramente esprime il Preambolo della Costituzione degli Stati Uniti d’America: “garantire la giustizia, assicurare la tranquillità all'interno, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, salvaguardare per noi e per i nostri posteri il bene della libertà”, di esercitare i diritti naturali.

È questo il punto d’arrivo della visione liberale nella costituzione di uno stato cui farà, da contraltare quella che finisce con lo stabilire le leggi dello Stato come superiori ai diritti naturali e alla stessa libertà individuale, intesa come piena realizzazione dei diritti naturali e non come libero arbitrio.

Il pensatore che pone le basi del liberalismo moderno è l’inglese John Locke; la sua visione dell’individuo-uomo e della libertà di coscienza fonda una visione della tolleranza che è posta a salvaguardia, pur con qualche limite, della coscienza individuale, la quale determina da sé, sé stessa. Si assoggetta non alle leggi, ma riconosce che l’unione degli individui, lo Stato, possa intervenire nelle relazioni solo nel caso in cui l’accordo reciproco, prestabilito, sia violato da una delle parti.

Nasce il liberalismo moderno che ha sviluppo soprattutto nei paesi anglosassoni ed è un termine spesso richiamato, ma facilmente con poca chiarezza, perché ogni affermazione di “essere liberali” va ricondotta alla visione almeno generale che colui che proferisce il nome, richiama.

John Locke è il pensatore principale di riferimento; dobbiamo riferirci soprattutto alla sua analisi della tolleranza, per comprendere quel cambiamento di visione che la coscienza e la libertà avranno nel XVII secolo in Inghilterra e da qui nel Nord del Nuovo Mondo.:

 

Il grillo parlante. John Locke: la nascita del lib (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)John Locke è uno dei più noti filosofi inglesi e il suo pensiero ha avuto molta diffusione anche in Italia; è uno degli iniziatori dell’illuminismo inglese, da non confondere con quello francese. Il pensatore è altresì considerato “il fisiologo” della conoscenza umana; in maniera riduttiva è assegnato alla corrente empirista da I. Kant e G.W.F. Hegel, ma è una divisione in relazione al pensiero dei due filosofi accennati. È considerato il padre del liberalismo e uno dei massimi teorici della tolleranza.

Nel 1690 pubblicò il Saggio sull’intelletto umano nel quale, contrariamente a Cartesio, sostiene che non vi “siano nell’intelletto umano principi innati o nozioni primarie, caratteri, per così dire, impressi nello spirito dell’uomo, che l’anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza e porta con sé nel mondo”. (Ivi, a cura di M. e N. Abbagnano, Torino, UTET, 1982, p.69). Ciò vale anche per quei principi, speculativi e pratici (morali) che è opinione comune siano accettati dall’umanità. Non vi è nulla a priori, l’intelletto forma i propri contenuti solo e soltanto a diretto contatto con il mondo empirico, costituendo idee, semplici, complesse e di riflessione, che hanno consistenza solo se mantengono costante il rapporto con il mondo empirico stesso. Con precisione analitica Locke analizza il processo di formazione della conoscenza, compresa quella di Dio, che non ha dato all’uomo nessun’idea innata di sé, ma “ per mostrare che siamo capaci di conoscere, cioè di esser certi che c’è un Dio e per mostrare come possiamo raggiungere questa certezza, credo che non dobbiamo andare di là da noi stessi e della conoscenza indubitabile che abbiamo della nostra propria esistenza”. (Ivi, p.708). L’uomo ha una sorta d’intuitiva certezza di Dio come per la matematica, e lo riconosce come “onnipotente” ed eterno (ivi, p.709 e 710), Ciò che introduce Locke è che l’esistenza di dio sia conosciuta “in noi stessi”, in altre parole nella nostra coscienza che non può negarne l’esistenza, ma non può dare certezza oggettiva all’idea di Dio come per le realtà empiriche. Infatti, la fede e la ragione hanno campi distinti – la lezione di G. Ockam ossia il credo et intelligo - (cfr. ivi, pp. 785-793). Locke considera sempre valida una rivelazione divina, critica semmai gli usi e i costumi delle religioni e considera che la sottomissione della ragione alla fede nella rivelazione “ non distrugge i capisaldi della conoscenza, non scuote i fondamenti della ragione, ma lascia alle nostre facoltà l’uso per il quale ci furono date” (ivi, p.792). La ragione giudica la rivelazione e le sue proposizioni non per metterle in dubbio, ma per sapere se esse sono oppure no parte della rivelazione stessa (ivi, p.801).

L’importanza di siffatta prospettiva appare evidente perché sostiene che sia la coscienza la sede della riflessione sul soprasensibile e contemporaneamente assegna all’intelletto quell’intuizione che ritroveremo allorché il filosofo sostiene che vi sia un diritto di natura, che informa l’individuo e consente anche una possibile aggregazione statale. La coscienza è in ambito conoscitivo, la consapevolezza delle idee prodotte e sede per decidere, alla luce della ragione e della Scrittura intorno alle verità e alle azioni buone: “ Quando la verità accettata è consona alla rivelazione consegnata alla parola scritta di Dio o quando l’azione è conforme ai dettami della retta ragione o della Sacra scrittura possiamo esser sicuri di non correre alcun rischio nel ritenerla tale: giacché per quanto, forse, non si tratti di una rivelazione immediata di Dio operante in via straordinaria sui nostri spiriti, siamo tuttavia sicuri che è garantita dalla rivelazione, che egli ci ha data, della verità”. (ivi, p.803).

La coscienza dell’uomo, la sua relazione con la ragione e le scritture divengono basilari, l’errore che compiamo è”un inganno del nostro giudizio” (Ivi, p.804); pertanto l’errore non è mancanza di conoscenza, ma errata valutazione perché se l’uomo interroga se stesso alla luce dei due fondamentali parametri della sua vita, non erra. Deve sempre fare luce in se stesso e non abbisogna d’alcuna altra mediazione. È la prospettiva riformata che ben è evidenziata cui però il concorso della ragione apporta nuova luce. Non si tratta di una libertà assoluta, ma temprata dalla ragione e dalle Scritture con le quali ogni individuo deve rapportarsi. Libertà di coscienza, ma coscienza consapevole e non arbitraria, che assume proposizioni dubbie come principi senza nemmeno il fondamento di probabilità ossia la conformità con la c nostra conoscenza. (ivi, p.809). Per Locke la libertà di coscienza non è la volontà psicologia come oggi spesso è affermata, ma è una consapevolezza frutto di riflessione con due fonti: la ragione e la rivelazione, che sono i termini di riferimento. Se vi sono dubbi, allora è necessario sospendere il giudizio, non agire in ogni modo (ivi, p.815) magari concedendo “l’assenso alle opinioni comunemente accettate, siano dei propri amici o del proprio partito o dei vicini o del paese” perché “ non sempre fu l’amore della verità per la verità ad indurli – i capi - a sposare le dottrine che essi fecero proprie e sostennero” (ivi, pp.816-17). Il vaglio della ragione illuminata dall’Essere supremo, Dio, pone il fondamento della coscienza che deve sempre essere consapevole di quello che segue, non obbedire ciecamente.

Questa visione è alla base proprio di quella rivoluzione che il popolo inglese condusse nel Seicento e che portò ad una visione della politica nella quale il principio d’autorità non vale perché autorità, ma perché razionale e illuminato e verso il quale ogni individuo fornisce consapevolmente il proprio assenso.

Il ruolo dell’individuo per se stesso come coscienza e come società è preciso, Non si tratta ancora della democrazia moderna, ma ne è la base, come si realizzerà proprio nel Nuovo mondo con gli Stati uniti d’America.

Non vi sono certezze assolute, quasi degli idoli direbbe Francesco Bacone, ai quali assentire supinamente, ma ogni conoscenza, ogni azione deve essere riflettuta e consapevolmente legata alla situazione nella quale si consoce o si opera.

 

Natura e diritti naturali

L’importante novità dell’elaborazione politico-giuridica di Locke appare chiaramente quando egli nelle sue elaborazione dei Due trattati sul governo e nei Saggi sulla legge naturale, sostiene che non vi sia un ordine naturale precostituito nel quale ogni persona occupa il posto che gli è assegnato nella gerarchia sociale, com’era nella coscienza giuridica medioevale. L’individuo per Locke non è collocato in un ordine normativo naturale, egli è detentore di se stesso e della ricerca del suo benessere, tanto che egli utilizza tutti i mezzi disponibili a tale fine che implica anche la propria onesta autoconservazione. È il diritto alla proprietà e all’accumulazione illimitata in uno stato d’eguaglianza con gli altri individui e di piena libertà. Non è, seppur possa apparire, simile alla visione di Th. Hobbes, non vi è una dinamica di scontro, anche violenta, ma la constatazione che ogni individuo tende a conseguire questo.

L’individuo non partecipa dell’ordine universale, la lex aeterna, ma la sua ragione gli indica come realizzare al meglio proprio quella disposizione naturale all’autoconservazione. Ciò avviene mediante il riconoscimento reciproco tra gli individui del primo e fondamentale diritto naturale che è l’unica forza obbligante perché, mediante essa, gli individuo vivono. Nell'opera Due trattati sul governo J. Locke esprime il suo pensiero, anche se non in modo organico; possiamo però individuare che i diritti che ogni individuo riconosce in se stesso sono: il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà e il diritto a difenderli. Come per la fisiologia della conoscenza, così per la fisiologia dell’unione tra individui, è necessario individuare quello che è riferimento necessario e questo è nella natura dell’uomo (diritti naturali), che è una condizione perfetta, ossia non necessita di altro da sè, ma richiede la sua realizzazione. Questa può avvenire solo se gli individui accordano tra loro i diritti naturali, in modo che ognuno possa ottenere dall’unità la massima possibilità di realizzazione e quanto è necessario alla vita d’ogni singolo.

Nasce, come per la famiglia, una sorta d’esigenza di mutualità, dovuta ad una sorta di propensione alla socialità, che non è quella visione aristotelica dell’uomo come animale sociale, ma lo Stato esiste realmente solo quando tutti approvano e si riconoscono nell’ordinamento giuridico, che nel riconoscimento dei fini propri d’ogni individuo li eleva a fini dello Stato e regola le relazioni interindividuali affinché i fini siano sempre riconosciuti e i rapporti siano conformi ad essi.

Ogni individuo dotato di potere e d’abilità le pone in essere anche nella dimensione statuale che è contrattuale nel senso che ognuno è impegnato a realizzarsi senza nuocere i diritti dell’altro e dividendo, mediante necessario impegno anche finanziario, le risorse per l’attuazione dei fini comuni.

La libertà è coscienza dei fini e dei mezzi per attuarla per sé e garantirla nell’altro da sé. Non è arbitrio, ma consapevolezza dell’unione con gli altri individui.

Basti ricordare quando realizzarono le due rivoluzioni inglesi del Seicento ed in particolare, il Bill of Rights predisposto dal Parlamento inglese nel 1689 che prevedeva:

la libertà di parola e discussione in Parlamento.

Il divieto del re di abolire leggi o imporre tributi senza il consenso del Parlamento.

Libere elezioni per il Parlamento.

Il divieto del re di mantenere un esercito fisso in tempo di pace senza il consenso del Parlamento.

Rifiuto di sottostare ad un possibile re cattolico.

Che il parlamento dovesse essere frequentemente riunito.

Che il re non potesse perseguitare i suoi sudditi per motivi religiosi.

 

Queste norme, base della visione costituzionale del Regno unito ancor oggi, ebbero ed hanno una grande influenza, perché affermano che l’unione degli individui non è regolata dalla sola necessità d’autoconservazione ma dalla chiarezza delle relazioni tra coloro che si uniscono mediate un patto il cui fine è il piacere (Happiness: sentimenti di piacere) che ogni individuo può realizzare per se stesso.

Lo Stato garantisce la condizione formale per gli Happiness, non decide che cosa sia “bene” o male” perché questi non sono che conformità o discordanza delle nostre azioni volontarie rispetto a qualche legge, possibilità formale, stabilita dal legislatore per il raggiungimento dei fini proprio dell’unione. La questione non è morale, ma semplicemente di raggiungimento di fini comuni. Lo Stato stabilisce la possibilità, ma non regola quanto è al di fuori dei fini comuni. Gli individui, mediante contratti privati, stabiliscono la natura dei loro rapporti, che non debbono contrastare con i fini e basta. Solo e soltanto quando il patto reciproco non sia rispettato, interviene lo Stato e dirimere la questione, non secondo principi e contenuti prestabiliti, ma secondo il rispetto o meno di quanto gli individui hanno stabilito tra loro. Nessun diritto naturale è temprato, ma solo accettato e rispettato e si pongono in essere le condizioni per la piena realizzazione anche all’interno del consorzio sociale.

Il rispetto formale delle leggi nei rapporti sociali, meglio interindividuali, inteso come norma morale dà origine a quella rettitudine morale che mostra l’esigenza di compiere azioni nel rispetto dell’unità degli individui e quindi mostra di aspirare alla felicità e al piacere dell’insieme stesso. (cfr. W. Euchner, La filosofia politica di Locke, tr. it. di K. Tenenbaum, Roma-Bari, Laterza, 1976).

Nasce così il liberalismo fondato sui diritti di natura che non va confuso con quello economico che ne rappresenta solo un aspetto. Fruire dare e ricevere rispetto legale dei diritti è la libertà d’ogni individuo che si unisce – contratto - con gli altri per determinati fini che consentono di realizzare al meglio proprio quei diritti. Al di fuori di questi lo Stato non può avere alcuna interferenza sui sudditi/cittadini salvo che non sia compromesso anche per uno solo il godimento dei diritti stessi.

La coscienza d’ogni individuo è libera e libera è l’autodeterminazione, purché non nuoccia agli altri individui. Si apre però il problema delle diverse visioni che gli individui posseggono o determinano, di là dai diritti naturali e che entrano nelle relazioni. Infatti, nessun individuo può imporre la propria volontà, la propria libertà di coscienza. È il tema della tolleranza, di cui parleremo prossimamente, delle varie libertà di coscienza sui cui rifletterà in diversi scritti il filosofo inglese, perché con chiarezza egli sostiene che questo stesso tema abbia la necessità di “determinare quali sono le cose che hanno diritto alla libertà” e “mettere in evidenza i limiti dell’imposizione e dell’obbedienza” (J. Locke, Saggio sulla tolleranza, in ID, Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino, Utet, 1977, p.89.

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 nr. 12 anno XIX del 29 marzo 2014

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