NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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San Tommaso Moro: filosofia e politica

di Italo Francesco Baldo

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San Tommaso Moro: filosofia e politica

 Quale debba essere il ruolo della filosofia e dei filosofi nell'ambito della riflessione intorno alla politica, costituiscono una delle sfide principali proprio in questi tempi di disaffezione dalla politica e dal protagonismo carrieristico di diversi esponenti dei partiti e dei movimenti. Ciò costituisce un decisivo momento per avere quella preoccupazione per il bene comune ed il bene civile che interessa ogni uomo. Credo che oggi la situazione richieda una chiarezza ed una sincerità d'analisi, proprio per il fatto che deve potersi superare la visione, tanto cara a molti intellettuali, che non sono filosofi - è opportuno dirlo subito-, che ogni pensiero, ogni meditazione di qualsiasi genere essa sia ha la sua genesi ed il suo obiettivo nella politica. L'intellettuale quale noi ancor oggi definiamo, è una figura nata alla fine dell'Ottocento, per l'esattezza: durante l'affaire Dreyfuss, Emil Zola coniò questo termine, che è poi diventato soprattutto un patrimonio della cultura politica italiana, a partire dal Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile del 1925 e dalle elaborazioni di Antonio Gramsci. Ambedue, G. Gentile e A. Gramsci, traggono la loro visione dell'intellettuale dalla grande scuola tedesca dell'Idealismo, il primo da J. G.Fichte e dal suo La missione del dotto, mentre il secondo dalla visione che K. Marx ebbe proprio del ruolo del rivoluzionario, che pone a disposizione del proletariato la sua capacità critica. Non analizzo le specifiche posizioni, ma la convergenza è palese a chiunque. In realtà i due intellettuali si ponevano al "servizio" di una visione politica. È questa la visione tipica di quei totalitarismi, in realtà riduzionismi, che riducono la realtà umana e specificatamente sociale solo alla dimensione politica. Anzi fanno della politica sia pensata sia agita, il metro di giudizio della validità di qualsiasi realtà umana, sia essa religiosa, filosofica propriamente detta, artistica, e perfino sportiva. L'autentica differenza tra il filosofo e l'intellettuale sta tutta qui, cioè nel riduzionismo che l'intellettuale opera all'interno della filosofia e del suo ambito di riflessione che è ben più vasto e che ha nella ricerca della verità il suo autentico obiettivo e, per quanto concerne la politica essa si pone nella ricerca di quale debba essere per una società il bene comune, che poi gli uomini tradurranno in una costruzione ben definita anche dal punto di vista giuridico, che è lo Stato, il cui compito è quello di realizzare un bene civile. L'aver confuso bene comune e bene civile, l'aver ridotto la ricerca del bene comune a sola realizzazione di bene civile, è l'errore degli intellettuali. Di ciò ben se n'avvedeva Antonio Rosmini nella sua opera La società ed il suo fine, ma in questo egli si trovava in buona compagnia, in altre parole di quei filosofi che hanno dato autenticamente una ricerca intorno al bene comune, facendo di questa riflessione la base per una proposta per la società. La filosofia, infatti, tiene presente tutti gli aspetti della realtà umana, e li considera con una visione d'insieme, chiarendo che senza una fondazione ed un'argomentazione globale non è possibile costruire una dimensione sociale e statale. Infatti, già Eraclito affermava che "È necessario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose”. (ERACLITO, Fr. 35 Diels.)

San Tommaso Moro: filosofia e politica (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)

Platone

 

In questa direzione il compito del filosofo è costantemente oscillato tra due poli, quello di Platone e della civiltà politica greca e quello che definiremo di I.Kant. Non affronteremo la riflessione di N. Machiavelli, al quale è attribuita la separazione tra morale e politica e soprattutto del machiavellismo, il vero artefice della separazione, da parte dei gestori della cosa pubblica, della politica dalla morale e della riduzione d’ogni dimensione sociale alla realtà statale, dalla quale dipende la loro prebenda, il loro sant'oro. Sia detta come battuta polemica, ma gli intellettuali in Italia soprattutto coloro che si riferiscono ad una certa concezione dello Stato, hanno scambiato la critica dell'economia politica di K. Marx, con la politica economica.

 Si affermava poc'anzi che due sono i poli ai quali far afferire il problema della relazione tra filosofi e politica. In questa direzione, credo necessario, prima di tutto, far parlare i filosofi stessi.

Il primo ed importante pensatore in tale direzione è Platone, che nel pieno della vita politica retta da concezioni utilitaristiche e strumentali, propone contro i Sofisti, una prospettiva nuova ed originale, che rimarrà nei secoli un punto di riferimento. Diversi suoi dialoghi (In ordine: Politico, La Repubblica, Leggi, ma possiamo affermare che ogni riflessione platonica ha una valenza politica, proprio perché il filosofo, in conformità alla visione greca, sostiene che ogni ricerca della verità trova riscontro nelle azioni dell'uomo. La virtù è la ricerca del bene e la traduzione di questa ricerca nelle azioni.) parlano di politica; in realtà tutto il pensiero platonico può essere letto in chiave politica, come sosteneva Marino Gentile (M. GENTILE, La politica in Platone, Padova 1940).

 La concezione della politica nel mondo greco e segnatamente in quello platonico non è quella odierna, tuttavia essa rimane una proposta. La politica, quando non è ridotta a gestione e guadagno, come facevano i Sofisti, è per Platone virtù, in quanto coloro che hanno intellezione del bene possono guidare le città, gli Stati. Lo Stato trae la sua ragione d'esistere nella dimensione del bene, somma idea ed idea che informa di sé tutte le altre.

" Poiché filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante [...]"[1][1] e questo è il bene, che nello stato si realizza con la giustizia, cosicché l'arte della politica, l'arte regia direbbe Platone [1], " per comunione d'intenti e per via d'amicizia riconducendo ad unità l'indole degli uomini valorosi e dei temperanti, realizza così il più sontuoso ed il migliore di tutti i tessuti, avvolgendone tutti gli altri schiavi e liberi, nelle città, li tien stretti in questo intreccio, e regge e governa senza trascurar mai nulla di quanto conviene ad uno stato felice”. (La repubblica, VI, 484b e tutto il Libro nonché quello successivo e Politico, XXXIII, 293C e 294C).

 Il filosofo è il vero politico e la sua opera diviene necessaria per condurre con giustizia al fine della felicità uno Stato. Il filosofo è colui che ha una visione d'insieme ed il cui scopo non è quello di sovvenire ad una politica già decisa in altro contesto. Inoltre l'obiettivo è oggettivo, al di fuori di quanto il singolo filosofo, che governa a turno, può stabilire. L'oggettività del bene dirige, tanto che definire, seppur a fatica il bene, porta alla virtù, ossia ad azione conformi al tentativo di definire il bene. Così la politica è la realizzazione di una visione unitaria dell'uomo e si fonda sulla dimensione della verità metafisica e non sulla prospettiva del comando o del dominio, in altre parole sui demagoghi. Non si può certo paragonare l'intellettuale al filosofo platonico.

 Di fronte a Platone I.Kant con la sua elaborazione critica, che è analisi, cioè riflessione su quale debba essere la forma per conoscere, agire e sperare, perché tutta la realtà dell'uomo si racchiude nella possibilità stessa di riflettere su ciò. La politica è onestà, anzi senza l'onestà non si può nemmeno pensare alla politica. Nel suo Per la pace perpetua, Kant ribadisce questo concetto, perché l'onestà è la forma dell'agire politico. Non si tratta di decidere quale sia l'azione onesta, ma è necessario assumere un criterio, una forma, per le azioni, e questo ha il suo fondamento nell'imperativo categorico, che vale per ogni uomo, cioè vi deve essere la dimostrazione che le azioni che compiamo rispettino quella legge universale senza la quale non si dà agire morale. Nella riflessione kantiana prima di tutto è il criterio morale che informa tutte le azioni e quindi anche la politica. Non è necessario, infatti, che vi siano dei filosofi a capo di uno Stato, perché la legge morale è in ciascun uomo. Da questa convinzione discende la seguente affermazione: "Non bisogna aspettarsi che i re filosofeggino o che i filosofi divengano re, e non c'è nemmeno da desiderarlo, perché l'esercizio del potere corrompe inevitabilmente il libro giudizio della ragione. Ma che re o popoli sovrani (popoli che si reggono secondo leggi d’eguaglianza) non facciano scomparire o tacere la classe dei filosofi, e li lasciano pubblicamente parlare, è indispensabile ad entrambi per essere illuminati sui loro affari: perché questa classe, che per sua natura è immune da spirito fazioso e incapace di cospirare, non può essere sospettata di fare della propaganda”. (I. KANT, Per la pace perpetua, tr. M. Montanari, Nota introduttiva e note di M. MASSARELLI, Rizzoli, Milano 1968, p.55.)

San Tommaso Moro: filosofia e politica (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Appare chiaro il compito del filosofo.

 Nel contesto però della storia le posizioni sono molto diversificate. Certamente i filosofi non hanno mai detenuto il potere complessivamente, ma hanno contribuito molte volte reggere le sorti dello Stato. Non sono molti, ma è opportuno ricordare Seneca, il fido consigliere di Nerone per un periodo, i due grandi esempi inglesi, Tommaso Moro di cui diremo più oltre, e F. Bacone, ma con molte differenze. Non sono certamente nel novero dei filosofi, seppur di filosofia o, meglio d'ideologia, hanno scritto molti altri come V. Lenin, J. Stalin, A.Hitler e lo stesso B. Mussolini. Costoro appartengono in pieno alla dimensione degli intellettuali e pertanto non hanno quella libertà di giudizio e quella mancanza di essere dei propagandisti, che sono le qualità principali dei filosofi che si preoccupano di riflettere sul bene comune. Non sono nemmeno considerabili dal punto di vista platonico, giacché per Platone la politica discende dalla morale, intesa come ricerca del bene e senz'altro i citati possono presentare qualche problema nel considerarli da questo punto di vista. Di tutti gli altri studiosi di filosofia che si sono occupati o si occupano di politica, è opportuno nel contesto attuale non parlarne; quelli d'oggi poi si qualificano da soli!

San Tommaso Moro: filosofia e politica (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Se passiamo a considerare ognuno di costoro, ben pochi ci appaiono come sir Thomas More, santo e proclamato patrono dei politici nel Giubileo del 2000 da S. Giovanni Paolo II, Molte sono le opere di Tommaso More, che si occupano d'argomenti filosofici, teologici Expositio passionis Christi, politici, come vedremo, ed anche consolatori. Mi riferisco al capolavoro, sulla scia di Severino Boezio[1][1], Il dialogo del conforto nelle tribolazioni. L'opera però con la quale Tommaso Moro è noto è il Libellus vere Aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque Nova Insula Utopia, brevemente per tutti Utopia. È questa un'isola scoperta dal filosofo Raffaele Itlodeo durante uno dei viaggi di Amerigo Vespucci (strano che non sia stata descritta dal nostro Antonio Pigafetta!); la sua capitale è Amauroto (=evanescente) e ha come capo il principe Ademo (=senza popolo). La piccola opera fa parte di quel genere che ha il suo prototipo nel dialogo La repubblica di Platone e nel De civitate Dei e che continua con molte altre, tra le maggiori ricordiamo La città del Sole di Tommaso Campanella e la Nuova Atlantide di Francesco Bacone. La fortuna del testo è nota, ma spesso quando si parla di utopia il significato originale è perduto, perché è sostituito da quello che è invalso con il giudizio che K. Marx diede di altri teorici del socialismo, cioè l'utopia è una dimensione politica irrealizzabile, un sogno, una robinsonata, che si contrappone all'analisi scientifica della società e alla sua trasformazione rivoluzionaria, quale il comunismo scientifico prevedeva, per il futuro. Il significato invece che al termine dà Tommaso Moro è ancora oggi oggetto di disputa. Il significato che si è soliti dare è quello che la dimensione dello spirito umano, attraverso la rappresentazione più o meno immaginaria di ciò che non è, si raffigura ciò che dovrebbe essere o come l'uomo vorrebbe che la realtà fosse Accanto a questa vi è anche un altro significato. Si è ritenuto che l'etimologia del termine (utopia) dato che la “u”, non sarebbe grammaticalmente esatta per indicare in greco la negazione, dovrebbe risalire all'espressione, sempre greca, di eu-topos, cioè buon luogo o luogo felice.

Non ci dilungheremo ora nell'analisi del testo, ma evidenzieremo solo l'interesse del pensatore inglese per un tema quello del rapporto tra ragione e rivelazione, caro anche ai retori ed agli scolastici e che trovava proprio in quegli anni dibattito tra gli umanisti del nord.Questa discussione aveva particolari ripercussioni in ambito civile e giuridico, perché riguardava la natura stessa della società civile ed il suo essere o meno indipendente dalla dimensione della religione. Prospettare la migliore condizione della società significava per Moro secondo l'artificio retorico in uso proprio nel testo, esporre tesi che in realtà hanno nella loro impossibilità ad essere proposte e realizzate, lo stimolo ad affermare l'esigenza di autentiche riforme. Non dunque una repubblica ideale, ma uno stimolo appunto, così come lo è il Morias encomium di Erasmo da Rotterdam. Inoltre l'opera del pensatore inglese ci appare quasi subitanea risposta a quel testo che determinerà il futuro della politica continentale, cioè Il Principe di N. Machiavelli, scritto tre anni prima.

Proprio quando diverrà Cancelliere del regno inglese, dopo la caduta per alto tradimento del cardinale Wolsey nel 1529, T. Moro si atterrà alle indicazioni contenute nel suo saggio. Utopia è la linea d’ispirazione della sua opera politica. Infatti, Tommaso Moro fa della sua rappresentazione dell'isola, la direttiva per la sua azione. Un politico deve pensare in modo completo allo Stato, non è un amministratore, o peggio, un gestore della cosa pubblica. Il suo non è un semplice servizio al sovrano e al popolo. Il vero politico, quando è uno statista, non è condizionato dagli elementi del quotidiano, questi spettano agli amministratori, ai funzionari, e nemmeno dall'ondeggiare del popolo, è senza popolo e Ademo. La capacità di un politico è proporzionale alla sua capacità di pensare in modo elevato, per fondare la sua prassi. Utopia non è un programma sociale da realizzare, ma è una riflessione sui principi destinati ad assumere una funzione normativa. Convinto di dover sempre distinguere quello che è da dare a Cesare, Tommaso Moro era però consapevole che l'ordine terreno non dipende dai politici, ma da Dio. Per questo non accettò di riconoscere Enrico VIII come capo della gerarchia ecclesiastica e per questo fu condannato. Il potere temporale non può prevaricare quello religioso e soprattutto quello della Chiesa, che è res-pubblica e non Stato dinastico. Tutto il pensiero di Moro è, infatti, intriso di quella visione umanistica che vede l'uomo protagonista della vita, capace di libertà, come affermava Pico della Mirandola, e di saper ben utilizzare il suo natural lume, ma conformemente agli insegnamenti del suo maestro Erasmo da Rotterdam, ben conosceva che la natura umana da sola non è sufficiente, che il bene e la giustizia dipendono da un ordine superiore al quale ci si deve riferire. Per questo si ragiona " sull'ottima forma dello stato", che non è filosofia accademica, ma quella che già indicava Seneca nella tragedia praetexta Octavia, nell'atto II dal verso 442 dove Seneca in vivace dibattito con Nerone sostiene l'obbligo del monarca di disprezzare l'oro e la furia guerresca. (L’opera non è unanimemente attribuiti al Romano).

San Tommaso Moro: filosofia e politica (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Nello Stato deve prevalere l'età saturnia e la giustizia. La vita degli Utopiani si svolge con regolarità, ma è la ricerca morale la loro attività più importante: " Circa la filosofia morale, disputano de le istesse cose come noi. Ragionano dei beni dell'anima, del corpo e degli esterni, se tutti si possono chiamare beni o solamente quelli dell'animo. Disputano della virtù e della voluttà, ma la principale controversi tra loro è disputare in qual cosa consiste la vera felicità dell'uomo, ovvero se consiste in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che nella voluttà[1][1] consista il viver felice. E si servono a questo della religione, la quale però appresso a loro è greve e severa; né mai disputano della felicità, che non uniscano insieme alcuni principi tolti dalla religione e dalla filosofia, senza i quali pensano che la ragione umana sia tronca e debole ad investigar la vera felicità”.

 La vita politica come realtà umana, ma non è esaurita nella sua dimensione, per questo il filosofo, che ben comprende la realtà umana, può assumersi la responsabilità della cosa pubblica. Per questo motivo ad Utopia, il luogo felice, i cittadini sono uguali, non hanno beni, ognuno si avvicenda ai diversi lavori, seguono la religione e la pace: " hanno sommamente in abominazione la guerra come cosa d'animale, né tengono altra cosa più biasimevole che la gloria acquistata con la guerra”. Un mondo consapevolmente felice, un luogo che rappresenta la somma possibilità per un vivere sociale che sia autenticamente stato, Il bene comune divenuto bene civile.

 Il compito del pensatore, del filosofo non è quello di porsi al servizio di un'idea, di una prospettiva già delineata della politica o dello Stato, ma quello di essere proposta autentica, attraverso una rappresentazione dello Stato, per coloro, anche se stessi eventualmente, che sono chiamati o per diritto dinastico o per elezione parlamentare a reggere le sorti della vita comune.

 Non c'è real politik in Tommaso Moro. Certamente nelle sue funzioni egli dovette adottare soluzioni di gestione, amministrare con cautela e negli atti quotidiani di governo si potrà anche in Moro, trovare qualcosa da ridire, ma il punto fondamentale è che senza una grande ispirazione, un grande disegno della vita politica non è possibile nemmeno gestire le piccole cose. I richiami alla concretezza, come a molti politici, amministratori e funzionari statali piace definire la loro visione di governo, finiscono sempre nell'effimero, cioè nel trovare soluzioni di fronte alle emergenze, e nell'essere continuamente rincorsi dalle quotidianità, che non sanno saputo inquadrare all'interno di principi più vasti e precisi. Non basta, come fa Erasmo da Rotterdam, richiamarsi ai prìncipi, bisogna educarsi alla vita politica e alla complessità dell'uomo. Per questo ogni riduzionismo in filosofia, si traduce in politica della gestione o, come in W. Hegel e nei suoi seguaci nell'esaltazione dello Stato, che supererebbe la dialetticità tra privato e pubblico. Proprio il fallimento dell'esperienza storico-politica di questa prospettiva deve ricondurre i filosofi a negare la possibilità di un'intellettualità al servizio dello Stato, e ritornare a quella prospettiva d'analisi che ci ha indicato, sulla scia di Platone, lo stesso Tommaso Moro.

 Non si tratta, ha ragione Kant, di proporre i filosofi come reggitori dello Stato, ma che coloro che si preoccupano della vita politica, cioè della società, che può organizzarsi in uno Stato per realizzare il bene civile, traggano ispirazione per la realizzazione dei loro compiti da principi e non da quel relativismo pluralistico, che in realtà maschera l'incapacità di pensare. Ridurre lo Stato ad una semplice possibilità di regole o di cose da fare, significa deprivarlo della sua funzione. La negazione di questa visione dello Stato, che affonda le sue radici anche in Moro, significa adattarsi a quelle correnti del pensiero moderno che lasciano l'uomo abbandonato a se stesso. Non a caso Salvatore Veca nel suo La società giusta e altri saggi teorie della giustizia fra utilità e diritti, afferma:” la politica non deve proporsi di somministrare agli individui una concezione del bene o della felicità [...] quanto piuttosto di produrre le condizioni per cui ciascuno sia felice per quello che gli pare”. (Milano, Il Saggiatore, 1988, p.51).

 Si tratta invece per la filosofia di non abbandonarsi a questa visione individualistica, che sfocia nell'edonismo e nel crollo del concetto stesso di morale, sostituita dalla nozione di valore, in realtà un’allocazione imperativa d'origine partitica di contenuti da accettarsi per essere parte di quanto c'è da gestire nella cosa pubblica. In questo modo si fonda tutto su equivoche possibilità contrattualistiche e come afferma D. Castellano[1][1]: "In questa prospettive - quelle delle regole - è assente la problematizzazione dell'esperienza sociale ovvero la domanda sulla natura della politica, ridotta a << inconveniente>>. In altre parole queste prospettive rinunciano all’intelligenza dell’esperienza sociale cioè a comprendere perché l’uomo non può non vivere in società. (D. CASTELLANO, La razionalità della politica, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1993, p, 19).

La comunità politica non esiste per rendere possibile a ciascuno la vita, in altre parole fornire garanzie per lo sviluppo individuale a prescindere dalla dimensione dell'alterità, ma per " rendere possibile una vita felice, vale a dire un'esistenza pienamente realizzata e indipendente. In altre parole, la comunità politica esiste per rendere possibile all'uomo una vita conforme alla sua natura, che è la razionalità.

 In questa direzione quindi una comunità non indifferente alla verità, non proiettata solo nelle cose che la vita materiale esige, ma volta ad un più alto significato e vita proficua, quella dell'umanità, che si realizza insieme con gli altri. In questa direzione il punto di base è la dimensione ed il fine morale, che si traduce nelle realtà da compiere nella comunità sociale. I politici reggono le sorti della comunità non perché "sanno fare quel mestiere", ma perché consapevoli d'essere portatori, come Tommaso Moro, di principi. Non si tratta, come sostiene Kant, di essere dei moralisti politici che finiscono con il richiedere il proprio vantaggio a discapito dell'intera comunità.

In questa direzione il compito dei filosofi oggi è di somma importanza, perché esige nuovamente la capacità di pensare non al politico in quanto tale e come unica determinazione dell'uomo, ma al politico come il luogo nel quale si realizza il bene e la felicità. I filosofi devono in questa direzione essere autenticamente per l'utopia, senza la quale il destino della comunità sociale non potrà essere che quello della gestione e di regole contingenti e dettate dall'opportunità, che sono solo il frutto di visioni di parte. Se dobbiamo imparare qualche cosa dalla storia del ventesimo secolo, dobbiamo fare i conti prima di tutto con tutte quelle teorie del pensiero moderno ed in particolare con quelle totalitarie, che riducono l'uomo ad un individuo solo, cui deve provvedere un dominio umano.

 Un compito dunque importante, che i filosofi possono riprendersi, se perderanno l'ancoraggio al potere e al desiderio di possederlo da un lato e dall'altro se rinunceranno ad essere solo degli intellettuali organici ad una visione partitica. Con questo voglio sottolineare che i filosofi possono, anzi debbono, avere idee politiche, ma non possono assolutizzarle in nome e per conto di coloro che "fanno la politica di mestiere" o credono, come oggi, credono molti politici, che il loro compiuto sia quello di servire ad un'utenza, alla quale fornire regole, perché, come già sosteneva il segretario fiorentino i "cittadini viver liberi non sanno"!

San Tommaso Moro: filosofia e politica (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

 Magna Charta Libertatum 

 

Conclusione

 La strada non è facile, perché implica un ripensamento della filosofia e della politica in termini metafisici, perché la connessione tra fondamento e azione non sia confuso con il benessere materiale o la mera felicità dell'attimo. La politica potrà quindi divenire arte del buon governo se s'inserisce in una dimensione etica, quasi un imperativo categorico, direbbe Kant, che veda la salute dello Stato come suprema legge e rifiuti la pretesa autonomistica dei singoli o dei gruppi e operi affinché ognuno si riconosca nello Stato, il quale non chiede ne può chiedere la sottomissione ad una visione particolare e\o storicamente definita, ma un riferimento, prima di tutto all'uomo ed alla sua umanità, bene inalienabile e non definibile in un solo contesto storico, né riducibile a referenti etnici, o ad analisi particolari.

 Su questa base potrà esservi una Costituzione, espressione di una visione universale dell'uomo, che sappia poi tradurre con poche norme fondamentali - le leggi scritte sulle mura della città ad Utopia - l'organizzazione dello Stato e lasci alla capacità dei politici l'arte del governo ed alla giustizia la capacità, non condizionata e prefigurata, di stabilire rapporti equi tra i cittadini.

 

Nota 1. l’opera Utopia fu composta, in un primo abbozzo, da Moro durante la sua permanenza a Bruges per negoziati. Il trattato era inizialmente intitolato De optimo republicae statu (la migliore condizione di una società). Il testo, composto prima nella seconda parte cui si aggiunse la prima fu pubblicata una prima volta nel 1516 con edizione nel 1517 e definitivamente nel marzo 1518, e sarebbe in realtà dovuto uscire presso l'editore Froeben di Basilea insieme con la Querela pacis undique profligatae di Erasmo da Rotterdam, maestro di Moro, nell'autunno del 1517.

Nota 2. La carriera politica di Tommaso Moro lo vede a ventisette anni eletto alla Camera dei Comuni (1504); fu osteggiato dal re Enrico VII, ma con il successore Enrico VIII (1509) ritornò membro attivo della politica. Vice sceriffo di Londra nel 1510, membro del Consiglio reale nel 1518 e tesoriere dello Scacchiere nel 1520.

 

nr. 26 anno XX del 4 luglio 2015



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