NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari

di Italo Francesco Baldo

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Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari

Introduzione

Gli accordi di Yalta (febbraio 1945) tra i principali oppositori del nazionalsocialismo e del fascismo italiano, finirono da un lato con lo sconfiggere questi totalitarismi e dall’altro a favorire un altro totalitarismo, quello del comunismo che pure aveva provocato il secondo conflitto mondiale con l’accordo Molotov-Ribbentropp (23 agosto 1939), per la spartizione della Polonia, l’occupazione degli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e l’occupazione della Finlandia. Yalta consentì a J. Stalin, che pure aveva promesso di far svolgere elezioni libere, in particolare in Polonia, il predominio, di fatto l’occupazione e l’asservimento, di numerosi Stati europei(Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia) e la conservazione degli stati baltici già occupati. Stranamente la Finlandia riuscì a rimanerne fuori, ma l’Unione Sovietica desiderò sempre di espandere la propria influenza anche su altri Stati, forte dell’appoggio dei Partiti Comunisti presenti in quei paesi, Grecia, Italia avrebbero dovuto essere i primi per l’avanzata del comunismo internazionale. Non vi riuscì, ma condizionò pesantemente e lo avvertiamo ancora oggi, soprattutto l’Italia, dove esistono ancora “sogni comunisti” in movimenti, partiti e nostalgie varie, esibite ad ogni piè sospinto, perfino in funerali. L’occupazione sovietica degli Stati non fu sempre facile; la presa di potere mediante colpi di stato riuscì, forte anche di una repressione durissima e con l’invasione diretta di quei paesi che recalcitravano alla trasformazione della propria nazione in uno stato vassallo. Ci riuscì solo la Jugoslavia, ma gli altri Stati dovettero subite per decenni, più di quarant’anni il dominio di quello che veniva pure salutato come il futuro dell’umanità.

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)

Conferenza di Yalta

 

Alcuni Stati, come la Romania, la Bulgaria non ebbero fenomeni significativi di ribellione, ma in altri aperta fu la rivolta. I primi tumulti si ebbero nella Repubblica Democratica tedesca (DDR), Berlino, il 17 giugno 1953, vennero repressi con la forza dal Gruppo di forze sovietiche in Germania, fu la prima affermazione del potere sovietico che non poteva essere messo in discussione. Il malcontento però serpeggiava nei paesi costretti alla visione comunista, che pochi, ancor oggi hanno il coraggio almeno culturale di ammettere che fu un vero totalitarismo e non molto dissimile da altri, anzi fu l’antesignano fin dal 1917 dei modi d’azione di quelli che vennero successivamente.

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)La situazione di crisi crebbe in due Stati; in Polonia gli operai di Poznań, si ribellarono il 28 giugno 1956, le condizioni di vita erano durissime, mancava il pane e soprattutto…la libertà! Il potere intervenne con decisione dallo stesso esercito polacco al comando però di un generale sovietico, Konstantin Konstantinovič (Varsavia, 21 dicembre 1896 – Mosca, 3 agosto 1968), allora ministro della guerra polacco. Gli operai uccisi dal generale sovietico (benché nato in Polonia) furono almeno 100.

Il comunismo italiano per bocca del giornale del partito definì, secondo un modello leniniano consolidato, gli scioperanti "provocatori" e approvò, come per le successive fino a quella di Praga del 1968 di fatto e sempre sostanzialmente la repressione e il 30 giugno 1956 “L’Unità” scrisse: “La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznan e la Polonia”.

Era un episodio isolato, in apparenza, ma la durissima repressione, la paura, l’ingerenza della polizia fu fortissima; solo la Chiesa cattolica con il cardinale Stefan Wyszyński (1901-1981) ebbe il coraggio di protestare, ma subì per anni la repressione. Ma intanto iniziava ad emergere la grande figura di Karol Wojtyla (1920-2005), allora docente all’Università cattolica di Lublino

Solo in un altro stato la rivolta contro il dominio del comunismo fu fortissima; accadde in Ungheria. Il 23 ottobre 1956 esplode a Budapest e in altre località l’insurrezione. Ebbe un breve sviluppo, durò fino al 10 - 11 novembre 1956; la repressione con le truppe e i carri armati sovietici, more solito, comandati dal maresciallo Ivan Stepanovič Konev(1897-1973) fu durissima: la popolazione terrorizzata per anni, molte le vittime e molti i profughi, circa 250.000).

L’occidente, occupato dalla crisi di Suez stette alla finestra, anche se da quel momento iniziò a guardare alla potenza sovietica con paura, l’orso era sempre disponibile a reprimere e con violenza inusitata coloro che gli si opponevano, la democrazia era solo vuota retorica e illusione che i comunisti occidentali avevano creduto essere un segno distintivo dell’Unione sovietica soprattutto dopo la morte di Stalin. In effetti il rapporto Nikita Khruščёv (1894-1971) al XX Congresso del PCUS, 25 febbraio 1956, aveva denunciato Stalin, ma pochi mesi dopo ben si vide che nulla era cambiato, solo la faccia di chi comandava e con i soliti metodi, che proseguirono fin quasi alla caduta del totalitarismo comunista.

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)In Italia i fatti d’Ungheria suscitarono un dibattito interno al Partito Comunista Italiano, ma la personalità di P. Togliatti, che condivideva i metodi del regime sovietico fin da quando si era rifugiato in URSS dopo il 1926, impedì di fatto una vera analisi; i compagni si schierano a favore del “pese di Bengodi” e non molti, si ricorda Antonio Giolitti, ebbero il coraggio di contestare e andarsene dal Partito. Ben si ricordano invece ancora le parole con cui vennero apostrofati gli insorti: “teppisti”, e l’appoggio che Giorgio Napolitano e pure il giovane Enrico Berlinguer diedero e quest’ultimo affermava nella direzione del PCI del 30/10/1956 le “giuste posizioni prese nei giorni scorsi e non accettate da tutto il partito”, e ciò in piena sintonia con Togliatti e i carri armati sovietici nella repressione, affermando che essi portavano la pace: sì, ma quella eterna!

Solo nel maggio del 2006 Napolitano, ormai Presidente della Repubblica Italiana, affermò di aver sbagliato giudizio sugli insorti e che aveva avuto ragione il socialista P. Nenni. Una revisione tardiva si disse e funzionale al viaggio presidenziale in Ungheria, che però trovò solo l’ opposizione da parte di “56 Alapitvany” (Fondazione ’56), ma le ragioni di Stato prevalsero, anche perché gli eredi del partito comunista sono sempre abili a tacere sui misfatti del comunismo sovietico e mondiale che appoggiavano e preferiscono non parlare del “male” compiuto e di quello che continua ancora nel suo nome,a d esempio in Corea e non solo.

L’Unione Sovietica dopo i fatti d’Ungheria rafforzò il proprio dominio sui paesi satelliti, ma la ribellione covava, con difficoltà, ma covava e se ne ebbe eco negli anni successivi, particolarmente in Polonia e in Cecoslovacchia nel 1968, dove anche il comunismo italiano si costrinse a protestare, fu costretto in qualche modo. Lo fece con le poche pagine della risoluzione approvata dalla direzione del PCI il 17 luglio 1968, dove manifestò la solidarietà a al processo di rinnovamento praghese e affermò l’autonomia diogni partito. Iniziando a sostenere “la via italiana al socialismo” nel solco di Gramsci e Togliatti (in L. Longo, Sui fatti di Cecoslovacchia, Roma, editori Riuniti, 1968, p.111-115). Una via italiana che nessuno ha mai capito bene, ma bene si è sempre compreso quello che Togliatti, venerante Stalin, voleva per l’Italia.

Tra i tanti che commentarono i fatti d’Ungheria e che merita ancor oggi di essere rieletto affinché la visione totalitaria del comunismo non possa più essere riproposta, perché danno dell’uomo e della persona, vi fu Primo Mazzolari, un sacerdote che si vuole ancor oggi “di sinistra”, strumentalizzando abilmente quella che fu la sua vita e prospettiva cattolica, che mai cessò di indicare. Proprio dai crudeli fatti ungheresi don Mazzolari prese spunto per denunciare gli impavidi europei e le loro chiacchiere e il comunismo togliattiano afferente a quel totalitarismo che la seconda guerra mondiale aveva sconfitto solo in parte e che, anzi, aveva contribuito a rafforzare nella visione originaria, quella del comunismo. In alcuni articoli, pubblicati su “Adesso” e un intervento in chiesa il sacerdote espresse il suo sostegno agli ungheresi e la sua condanna per ogni dittatura e degli intellettuali sempre pronti a fornicare con essa.

Con efficaci parole indicò come la via del bene del consorzio civile non passa dallo scontro ideologico, parole al vento, né da atti di supremazia, ma dalla concordia tra gli uomini e soprattutto di quella tra fedeli cristiani.

 

Non vogliamo parole

 

“L voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra fino a me”

(Genesi, IV, 10)

 

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Continuiamo a dire che non ci sono parole per esecrare il crimine dei russi e celebrare il martirio degli ungheresi, e ne parliamo a non finire.

Siamo stanchi di ascoltarci e di ascoltare la trenodia (piagnisteo), che minaccia di incantarci e di crederci sdebitati verso questi e verso quelli, perché abbiamo implacabilmente condannato ed enfaticamente esaltato.

Cosa ne pensino i fratelli magiari – i morti e i superstiti – della nostra “unanime commossa solidarietà”, che li lascia morire sotto la larga coltre di grosse e belle parole e di qualche tonnellata di plasma sanguigno messo all’incanto da un’esibizionistica pubblicità, è raccolto in una delle ultime parole degli insorti: “Non vogliamo parole”.

Sappiamo pure cosa ne pensano gli assassini moscoviti, i quali hanno discreti pretesti di non temere il giudizio della coscienza occidentale, tutt’altro che buona, e così poco concreta ed efficace.

Il penoso rilievo non diminuisce il valore ideale dell’esecrazione del mondo civile, che però ha zone d’ombra e di silenzio così preoccupanti (il Pandit Nehru non si è neppure accorto che a Budapest si moriva almeno come a Suez) da far pensare che Kruscev e i suoi siano riusciti, se non proprio a cancellare, a scuotere dalle fondamenta quel pregiudizio borghese che si chiama coscienza. Se il Cremisino non coltivasse simile illusione, non avrebbe sventagliato prima, le benemerenze di Stalin, né riportato, ora, l’ordine slavo a Budapest.

Le guide della nazione-guida del socialismo mondiale, osano sfidare il mondo perché, oltre ad essere militarmente molto forti, sanno che la coscienza morale dei popoli occidentali non tiene affatto.

Le nostre proteste, che, se non portassero la marca vergognosa dei nostro inconfessato materialismo edonistico spruzzato di reminiscenze cristiane, avrebbero capovolto, Dio sa quante volte, l’assurda situazione del mondo attuale, sono delle ragnatele a confronto della massiccia cinica logica del materialismo marxista issato sulle torrette dei arri armati cosacchi.

Quando Togliatti scrive che la Russia, ristabilendo l’ordine in Ungheria, a quel modo, ha salvato se stessa e i comunisti di ogni paese, lui compreso, è diabolicamente conseguente: mentre chi crede di coprire, come facciamo noi, la nostra urlante responsabilità sotto il fragore di cascate di parole, né salva se stesso, né onora i principi morali, cui attinge, non per fare, ma per predicare.

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

E quelli che erano presenti, uno alla volta, cominciando dagli anglo-francesi, avrebbero dovuto allontanarsi dalla “donna colta in peccato”.

Invece, anche gli anglo-francesi sono tuttora del coro, e chiedono giustizia per l’Ungheria, e alzano la voce come noi, ed hanno le mani rosse di sangue non ancora raggrumato.

E se ognuno di noi fa qualche passo indietro nella propria storia, fra le imprese ancora fresche, e di cui meniamo tuttora vanto, chi può concludere la breve rivista con le parole di Pilato:”Io sono innocente del sangue di questo giusto?”

Ci siamo lavate le mani, è vero nel sangue di nuove schiere di immolati, che continuano a pagare per chi rimane sulla scena della storia ripetendo il gesto e le parole sacrileghe di Pilato.

Il dialogo odierno tra l’Occidente e l’Oriente, intessuto sulle sorti della povera e grande Ungheria, è scellerato al apri di quello tra Pilato e la turba: non la sola risposta della fazione comunista italiana, che, per bocca, di Togliatti, “senza esitazione”, dichiara che “una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta con tutta la sua forza per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uomo, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli, ma prima di tutti quelli che già si son posti sulla via del socialismo.”

Se questa fosse la “strada del socialismo”, chiunque ne porti in tasca la tessera dovrebbe sentirsi bruciare di vergogna.

Ma Bulganin, (Nikolaj Aleksandrovič Bulganin (1895 –1975) un politico sovietico, premier dell'Unione Sovietica tra il 1955 e il 1958). rivolgendosi a Eden, Molelt e Ben Gurion, è ancora più cinico: e quelli, per rispondergli, gli hanno dovuto guardare le mani grondanti di sangue, senza il preludio del “mea culpa”.

Il “mea culpa2 è una parola disusata dai farisei di goni tempo, i quali credono di non aver colpa alcuna nelle nefandezze che si commettono sulla faccia della terra.

I protagonisti sono spietati nelle opere e nelle parole, e Dio li giudicherà sulle loro opere malvage e sulle parole, che, a guisa di moneta falsa, fanno circolare tra i poveri.

Il giudizio è già incominciato, e la scure è già alle radici.

Certe grandezze, una volta perdute, non tornano indietro; certe potenze, una volta intaccate, non si rinsaldano, schiacciando barbaramente i deboli e gli innocenti.

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)E noi, le “comparse”, siamo forse migliori delle “guide”?

Le dimostrazioni di questi giorni non sono una testimonianza né una presenza,

Siamo unicamente dei dimostranti. Un po’ tutti.

Gli studenti lo sono chiassosamente, e in ritardo di parecchi anni.

Prendendo il coraggio a due mani, sono scesi anch’essi su quelle strade e in quelle piazze che per tanti anni hanno abbandonato ai lunghi cortei socialcomunisti.

S’accorgono un po’ tardi di avere una bandiera, un’idea, uan fede, una cattedrale, una patria, la libertà.

S’accorgono un po’ tardi che non si può rimanere nell’agnosticismo morale e nell’indifferentismo politico, menandone anche vanto, come se fosse una superiorità disinteressarsi del proprio paese e del suo domani.

E come sorvolare sulle segrete simpatie che molti nutrivano per quel mondo che aveva già il volto di oggi?

La liberà non la si consolida nè la si difende bruciando qualche copia dell’Unità o frantumando qualche vetro delle sedi comuniste, ma temprando volontà e costume onde essere sempre pronti ad assumere il costo personale della libertà.

Poiché è soprattutto questione di costo per essere uomini liberi, e non messo sul conto degli altri, ma sul nostro conto personale.

Non si può far pagare alla generosa gioventù magiara la nostra libertà.

Un po’ meno simpatica degli stupenti è quella gente per bene, che di fuori pianghe sulle sorti dell’Ungheria, ma dentro si rallegra perché pare che sia suonata l’ora di regolare la partita con i comunisti, che ne minacciano gli interessi.

E si danno da fare a stampar manifesti e gridano insolenze con un coraggio che non sapevano neppur di possedere.

Si specula un’altra volta, in nome di una pietà, che può esser anche sincera, che forse lo è, ma che non si può portare sul mercato.

Tutti avvertiamo il peso morale della presenza comunista, ma non è per questa via che riusciremo a diminuirne la pericolosità.

Ogni fanatismo religioso resiste agli errori delle proprie guide, come noi credenti resistiamo nella nostra fede nonostante le indegnità degli uomini che la rappresentano.

Anch’essi hanno imparato a distinguere l’idea dell’uomo, e rimangono sofferenti e impavidi.

Se poi ci vedono così stupidamente insolenti, si barricano ancora di più e divengono ostinatamente inattaccabili.

I cristiani pregano. E fanno bene. Dio solo può salvare l’Ungheria e l’Europa.

Perché ci siamo messi a gridare, ci crediamo forti, e non siamo mai stati così deboli e impotenti di fronte al male inondante, che non può essere vinto col male.

Ma se portassimo nella preghiera “pensieri d’afflizione e non di pace”, toglieremmo ad essa il suo inestimabile valore.

Se non ci muovessero a pietà anche gli oppressori, la nostra preghiera non potrebbe esserer presentata allEterno in nome di Cristo.

Se, pregando, qualcuno pensasse di suscitare nuovi crociati per nuove crociate, aggiungendo nuovi anelli alla troppo lunga catena dell’odio e della vendetta ideologica, quegli dimenticherebbero di essere discepolo di colui,che, nell’agonia del Getsemani, mentre veniva consumato l’obbrobrio su di lui, comandò a Pietro di “riporre la spada nel fodero, perché tutti quelli che fanno uso di spada, di spada periranno”.

“Pregate e vegliate per non cadere in tentazione”.

Il richiamo del Signore vale anche per quest’ora piena di paurose tentazioni, prima fra tutte quella di appellarsi alla violenza per rintuzzare la violenza.

La preghiera non può né deve mai divenire dimostrazione, se vogliamo salvaguardarla da un’atroce profanazione, e confondere il “Kyrie, eleison! Coriste, eleison!” con gli “evviva” e gli “abbasso” delle folle dimostranti, che “ si muovono come canne agitate dal vento”

Sui fatti d’Ungheria: don Primo Mazzolari (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)La chiesa non è una piazzaforte né gode delle immunità diplomatiche: anche l’altare non è un baluardo né una trincea, ma il sacerdote o il cristiano che vi si inginocchia davanti per chiedere a Cristo che perdoni ai propri persecutori, anche se l’arrestano o lo massacrano ai piedi di esso, “vede i cieli aperti”.

Carri armati, mitra, forni crematori, campi di eliminazione, deportazioni…sono i diabolici surrogati di quell’Amore che muove il mondo e che la preghiera commenta davanti alla soglia dell’Eterno “ per non cadere in tentazione”.

(Adesso, 15 novembre 1956 in P. Mazzolari, Non vogliamo parole. Ungheria 1956, Vicenza, La Locusta, 1966, pp.5-17).

 

nr. 38 anno XXI del 29 ottobre 2016

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