Il 14 agosto 1861 Cosimo Giordano, ex ufficiale dell’esercito borbonico decorato per il valoroso comportamento nella battaglia del Volturno, divenuto “brigante”in quanto combattente lealista filoborbonico, attirò in un’imboscata e uccise nei villaggi di Pontelandolfo e Casalduni (oggi provincia di Benevento) una cinquantina fra bersaglieri e carabinieri piemontesi.
Il 23 marzo 1944 i partigiani gappisti Rosario Bencivenga e Carla Capponi in un attentato uccisero 33 soldati tedeschi del battaglione "Bozen" che transitavano in Via Rasella a Roma. L'esplosione uccise anche due passanti italiani.
All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre ’43 le truppe tedesche avevano invaso l’Italia, facendo scattare l’operazione “Alarico”: comprensibile l’irritazione tedesca per il voltafaccia italiano, ma soprattutto per il comando tedesco non poteva essere accettabile dal punto di vista militare la consegna di fatto della Penisola agli angloamericani, nemici comuni fino al giorno prima. Tra il 1860 e il ’61 Il Regno delle Due Sicilie era stato invaso, oltre che da mille irregolari in camicia rossa, dalle ben equipaggiate truppe piemontesi: si proponevano come liberatori di un popolo che non aveva in alcun modo chiesto di essere liberato, e che anzi aveva già accolto in modo ostile i tentativi romantico-liberali della Repubblica Partenopea del ‘99, dei Fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anche l’inglorioso epilogo dello sbarco di Gioacchino Murat nel 1815, fermato a furor di popolo sul bagnasciuga calabro, aveva dimostrato che non si desiderava un altro re e un’altra dinastia.
L’invasione del Regno delle due Sicilie, come anche quella dello Stato Pontificio, avvenne senza alcuna motivazione o pretesto, né era stata presentata dichiarazione di guerra alcuna.
Ai tedeschi il disorientato esercito italiano offrì una resistenza nel complesso poco più che simbolica, a Piombino, nell’Isola di Cefalonia, a Porta San Paolo a Roma.
L’esercito duo siciliano affrontò garibaldini e piemontesi in una serie di dure battaglie, tutte di esito sfavorevole, ma nelle quali spesso rifulse il valore dei soldati e fu chiara una loro sostanziale fedeltà alla monarchia borbonica, a fronte di comportamenti inadeguati e a tratti vili di molti alti ufficiali. A Calatafimi il Generale Landi, poi premiato anche in denaro dai vincitori, ordinò incomprensibilmente la ritirata all’esercito borbonico quando le sorti della battaglia gli erano favorevoli. Particolarmente odioso fu il tradimento dell’ammiraglio Luigi di Borbone, conte di Aquila e zio del re, che rifiutò di contribuire alla difesa di Gaeta e consegnò ai piemontesi, fra le proteste degli equipaggi, l’intera flotta di cui era comandante supremo: l’impossibilità di forzare il blocco navale attuato dai piemontesi rese inevitabile la capitolazione di Gaeta.
A fronte della invasione tedesca il Re d’Italia fuggì con la famiglia reale da Roma, e si pose in salvo presso gli ex nemici.
Francesco II di Borbone fu sempre vicino ai suoi soldati. Lasciata Napoli per risparmiare alla sua capitale le distruzioni di un assedio, si ritirò nella fortezza di Gaeta resistendovi fino allo stremo.
Anche la Regina Maria Sofia, spesso presente fin sugli spalti, fu costantemente prodiga di incoraggiamenti ai soldati e di cure ai feriti per tutta la durata del sanguinoso assedio.
Con l’occupazione dell’Italia, la Wehrmacht andava ad attestarsi sulla così detta Linea Gustav, nel tentativo di fermare le agguerrite truppe angloamericane.
I piemontesi avevano di fronte l’esercito di uno stato pacifico, consistente nel numero, ma di gran lunga inferiore specialmente nell’armamento e nell’organizzazione: nessuna guerra era nei progetti del Re Borbone.
L’indomani dell’8 settembre vide la nascita dei CLN: partigiani resistenti per gli uni, terroristi e banditen par gli altri.
All’indomani dei rovesci militari dell’esercito borbonico, che vedevano avanzare verso nord i garibaldini e verso sud i piemontesi, se da un lato qualche liberale per lo più di classe agiata ne attendeva con favore l’arrivo, dall’altro furono in molti, per lo più gente umile, ad accorrere sotto i vessilli borbonici che alcuni fedelissimi issavano alla macchia: patrioti legittimisti per gli uni, briganti per gli altri.
Nel ’43 circa 650.000 soldati del regio esercito italiano, disarmati e imprigionati dai tedeschi, furono deportati in Germania e rinchiusi in vari campi di prigionia: non ne tornarono in 40.000.
I combattenti repubblichini che si arresero agli angloamericani ebbero lo status di prigionieri di guerra. In alcuni casi, come per gli ultimi marò della Decima Mas, fu cavallerescamente concesso addirittura l’onore delle armi. Diversa fu però la sorte se la cattura avvenne da parte di partigiani.
Come moltissimi combattenti repubblichini, i marò della Decima che a Valdobbiadene si arresero ai partigiani furono tutti ammazzati, contravvenendo alle condizioni di resa patteggiate.
Agli ufficiali del disciolto esercito borbonico vennero concessi due mesi di tempo per decidere se riprendere servizio nell'Esercito Piemontese conservando il proprio grado militare di provenienza o se essere prosciolti dalla ferma militare. I circa 1.700 che però non vollero tradire il proprio giuramento passando alle dipendenze dell’ex nemico, al pari dei 24.000 semplici soldati che non ebbero scelta e di moltissimi civili furono trattati senza alcuna dignità e spietatamente deportati al nord in quelli che furono forse i primi campi di prigionia assimilabili per durezza ai più recenti lager e gulag: tristemente famoso quello del forte di Fenestrelle, sulle Alpi torinesi, in cui si parla di molte migliaia di morti per stenti e malattie, nonostante i prigionieri avessero l’unica colpa di aver difeso il proprio paese e il proprio re da un’aggressione, e che la guerra fosse comunque finita con quella che doveva anche essere un’unione di popoli. Così accadde anche ai difensori di Gaeta, ai quali nelle condizioni di resa era stata espressamente promessa la libertà di tornare alla propria casa. Stessa sorte toccò ai valorosi 500 difensori della fortezza di Civitella del Tronto, che furono gli ultimi ad ammainare il vessillo borbonico, assediati per mesi da soverchianti forze piemontesi…
Comandava l’assedio il generale Luigi Mezzacapo, già ufficiale borbonico passato alla causa unionista: alla resa della guarnigione stremata comandò l’immediata esecuzione dei capi della difesa, compreso il frate cappuccino Padre Leonardo Zilli : "Ho creduto di dover dare un pronto esempio facendoli fucilare", telegrafò a Cavour. L’eroico maggiore di artiglieria Giuseppe Santomartino, pur condannato a morte, grazie alle indignate proteste francesi ebbe la condanna commutata in 24 anni di carcere, ma fu trovato morto: si disse che aveva tentato di fuggire.
Particolarmente odioso risulta il comportamento di Mezzacapo in considerazione del fatto che aveva partecipato sia alla difesa della Repubblica Romana dai francesi del Generale Oudinot che a quella di Venezia insorta contro gli austriaci: in entrambi i casi, dopo la resa, il nemico si era comportato con lealtà nei confronti degli sconfitti. Mezzacapo chiuderà la sua carriera addirittura come ministro della guerra dei due governi Depretis.
La guerra civile del 43-45 arrivò ad alti livelli di asprezza: ogni nostra città espone lapidi e cippi che ricordano fucilazioni, eccidi, deportazioni senza ritorno.
L’occupazione del regno borbonico avvenne con una durezza spropositata, rivolta anche contro civili che non manifestavano sentimenti ostili. A tutti i cittadini di Gaeta fu ingiunto di abbandonare la città, senza che avessero un altro posto dove rifugiarsi. Gaeta fu fatta segno da un bombardamento quasi ininterrotto per più di tre mesi, che non risparmiò nemmeno ospedali e chiese nel dichiarato intento del comando piemontese di fiaccarne la resistenza.
La moderna artiglieria piemontese, grazie alla potenza dei cannoni rigati “Cavalli” di cui era dotata, poteva essere piazzata fuori dal tiro di quella borbonica, la cui controbatteria risultava pertanto pressoché inefficace. Gaeta ne fu distrutta quasi completamente. Qualcosa di simile avvenne nei bombardamenti delle nostre città da parte degli angloamericani: i bombardieri inglesi, sostanzialmente invulnerabili dalla nostra debole contraerea, si chiamavano curiosamente “Liberator”.
I legittimisti filoborbonici, che attraverso una guerriglia per bande si opponevano ai piemontesi venivano definiti “briganti”, e la lotta al “brigantaggio” coinvolgeva interi villaggi sospettati di sostenerli e portavano a eccidi, stupri, incendi e distruzioni.
La guerra civile e la Resistenza vedrà tutta una serie di eccidi nazifascisti: Marzabotto e Sant’Anna di Stazzena sono i più noti fra i circa quattrocento censiti.
I numeri della conquista del regno del sud, non meno tragici, non saranno mai resi noti dal governo italiano. Si contano comunque decine di villaggi dati alle fiamme e distrutti, e migliaia di condanne a morte e di arresti senza ritorno, ma la stessa memoria di quei tragici fatti si è persa, oscurata dalla retorica unionistica.
Di certo il così detto brigantaggio non fu solo resistenza all’invasore e difesa della propria patria, ma un fenomeno complesso, non immune da elementi di delinquenza comune e da episodi criminosi e a volte efferati. Non va dimenticato che anche l’uccisione della maggior parte dei bersaglieri che causò per ritorsione la strage di Pontelandolofo non avvenne in combattimento, ma per linciaggio e fucilazione, con ampio concorso della popolazione eccitata. I “ briganti” catturati, se non fucilati sul posto, venivano comunque chiamati a rispondere anche dei loro crimini comuni: Cosimo Giordano, il brigante di Pontelandolfo, catturato anni dopo, finirà i suoi giorni nel duro carcere di Favignana, scontando una condanna a vita.
Gli autori dell’attentato di via Rasella sono stati decorati con medaglia d’oro. Alle vittime civili dell’attentato è stato negato qualunque indennizzo.
I crimini commessi dai vincitori di tutte le guerre tendono a rimanere nascosti: non fanno eccezione quelli che hanno macchiato la guerra partigiana dal ‘43 al ’45: alcuni valorosi partigiani furono addirittura barbaramente ammazzati dagli stessi compagni. Nel ’56 Francesco Moranino, già comandante della 50° Brigata partigiana Garibaldi, fu condannato all’ergastolo in contumacia (era scappato in Cecoslovacchia per sottrarsi all’arresto) per aver ammazzato 7 partigiani di diversa ideologia fra cui due donne. Due anni dopo, graziato dal Presidente Gronchi, senza aver scontato un solo giorno di prigione, fu eletto deputato al parlamento nazionale.
Il 7 febbraio del '45 un centinaio di partigiani comunisti comandati da Mario Toffanin, detto "Giacca", e da Fortunato Pagnutti, detto "Dinamite", a Malga Porzus disarmarono a tradimento il comandante della Brigata partigiana “Osoppo” di matrice cattolico-azionista Francesco De Gregori, fratello del cantautore (nome di battaglia "Bolla"), e lo trucidarono, insieme a Guido Pasolini ("Ermes"), fratello dello scrittore, e ad altri venti partigiani, rei di opporsi, come tutti gli antifascisti non comunisti, all’annessione alla Jugoslavia di territori italiani, il che, con la benedizione di Togliatti, era nei dichiarati progetti dei compagni partigiani comunisti, sia slavi che italiani. L'altro comandante della “Osoppo”, Aldo Bricco ("Centina"), pur ferito a colpi di mitra, riuscì a fuggire.
Toffanin, condannato all’ergastolo con sentenza definitiva, in seguito a varie amnistie, non scontò nemmeno un giorno di prigione: era fuggito in Jugoslavia e non rientrò mai in Italia. Per contro, l’INPS ha continuato a versargli fino alla morte 672.270 lire di pensione al mese.
Come per Toffanin molte responsabilità per episodi criminosi accaduti durante la guerra civile furono estinte da tre successive amnistie: se da un lato furono il primo passo verso la riconciliazione nazionale (ma forse anche l’ultimo) dall’altro servirono a coprire molte colpe dei vinti, ma anche dei vincitori.
Quando Benito Mussolini nell'aprile del '45 fu fermato dai partigiani a Dongo, aveva con sé danaro contante per circa 230 miliardi di allora, e oltre 42 chili di oro in lingotti: il tutto fu sequestrato dai partigiani. Quando i capi partigiani Franco Giannantoni (“Gianna”) e Giorgio Cavelleri (“Neri”) ne chiesero conto ai loro compagni, furono fatti sparire come era sparito il tesoro.
Altrettanto silenziosamente, ma con più eleganza, l’oro e le floride finanze della Banca delle Due Sicilie furono fatti confluire al nord per ripianare il pesante indebitamento del Piemonte.
Torniamo all’episodio di Pontelandolfo, sopra citato.
Nei giorni successivi all’agguato dei legittimisti filoborbonici una colonna di 500 bersaglieri, al comando del colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, circondò il paese, che aveva ospitato la rivolta, e lo diede alle fiamme, non prima di aver stuprato alcune donne e ucciso circa quattrocento persone senza nemmeno distinguere vecchi donne e bambini. Ad una donna che, tentando inutilmente di difendersi dallo stupro aveva graffiato un bersagliere, prima di venire uccisa, furono tagliate e le mani.
Sulla porta della sua chiesa fu ucciso anche il parroco del paese, e stessa sorte toccò ai liberali che erano imprudentemente usciti ad accogliere i “liberatori”, ma avevano osato protestare per il barbaro massacro.
Il giorno successivo all’attentato di Via Rasella per rappresaglia 335 italiani furono trucidati alle fosse Ardeatine. La strage è diventata l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione, e viene ogni anno ricordata con generale commozione.
La strage di Pontelandolfo e le altre analoghe, archiviata come episodio di contrasto al brigantaggio, è rimasta avvolta nell’oblio.
I responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine sono stati perseguiti, catturati e imprigionati.
Il Colonnello Negri fu insignito delle maggiori decorazioni militari del tempo per il valore effettivamente dimostrato nelle molte campagne militari cui partecipò, ed è figura onorata nei libri di storia: in Piazzetta S. Stefano a Vicenza sulla facciata del palazzo un tempo della sua famiglia, è esposta anche una lapide commemorativa. Se nella tomba in cui riposa gli giungesse l’eco delle critiche odierne per la strage di Pontelandolfo ne sarebbe semplicemente stupito, come si stupì il capitano delle SS Herbert Priebke, esecutore diretto della strage ardeatina, al momento del suo arresto: entrambi ritenevano, da soldati, di aver obbedito agli ordini ricevuti.
L’esecuzione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso era stata ordinata personalmente da Hitler, come era stato il comandante piemontese Gen. Enrico Cialdini a disporre che di Pontelandolfo non rimanesse pietra su pietra.
Chiamata a pronunciarsi sulla strage, l’Associazione Bersaglieri, cha ha nella figura del Colonnello Negri un proprio punto d’onore, ne difende la memoria confermando l’argomento dell’obbedienza agli ordini, e adombra che si voglia infangare l’Unità Nazionale. L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, che peraltro, per motivi anagrafici, riunisce ormai assai pochi partigiani, reagisce nella stessa maniera: ogni volta che emerge qualche punto nero nella storia della Resistenza, non di ricerca della verità si tratterebbe, ma di tentativo di infangarne l’immagine.
La storia viene scritta dai vincitori, e non sempre la storiografia prevalente è vera Storia, giacché è spesso portata a mettere tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, esaltando l’eroismo dei primi e la presunta perfidia e viltà dei secondi.
Alcune antiche ferite sembrano rimarginate, anche grazie a concreti gesti di pacificazione: chi ha combattuto nella Grande Guerra dalla parte austriaca, divenuto cittadino italiano a seguito dell’acquisizione delle terre irredente ha goduto della pensione integrativa accordata ai combattenti italiani, i Cavalieri di Vittorio Veneto: sopiti antichi rancori, gli ultimi Alpini e Alpenjager con commozione si sono abbracciati nelle valli del Triveneto oggi ridenti, ma teatro di sanguinose battaglie nella Grande Guerra, cosi come i discendenti dei Grigi e dei Blu vanno insieme in pellegrinaggio sulla collina di Gettysburg, La nuova Russia, nata dalla disgregazione dell’impero sovietico, ha finalmente riconosciuto la responsabilità dell’eccidio degli ufficiali polacchi sepolti capitano (SS-Hauptsturmführer) nelle fosse di Katyn, ma è anche andata a disseppellire i cadaveri dell’ultimo Zar Nicola il sanguinario e della famiglia imperiale fucilata dai bolscevici a Ekaterinburg, dandole onorata sepoltura nella chiesa- pantheon dei SS Pietro e Paolo a Sanpietroburgo: l’aquila bicipite dei Romanoff è tornata ad essere il simbolo araldico della nazione. Tantomeno nei turisti tedeschi sdraiati sulle spiagge adriatiche qualcuno ha voglia di riconoscere gli invasori del settembre ’43 o i loro figli.
Con senso della Storia degno del nome che porta, anni fa Antonio di Borbone, discendente dei re delle Due Sicilie, in un convegno presso l’Istituto Italiano di Studi Filosofici, che ha sede a Napoli nel Palazzo Serra di Cassano, ricordando la repressione della Repubblica Partenopea del 1799 ad opera del suo antenato Ferdinando VI di Napoli (poi Primo delle Due Sicilie) e del lazzari sanfedisti del Cardinale Ruffo, sul sacrificio dei giacobini saliti sul patibolo ebbe a dire: “La storia del regno di Napoli e del suo popolo ha oggi a pieno titolo nelle sue pagine il grande sogno di un mondo migliore che fu di Eleonora de Fonseca Pimentel, di Mario Pagano, di Domenico Cirillo e di tanti altri. … Noi siamo qui per rendere il dovuto omaggio e il nostro profondo rispetto agli uomini del ‘99”.
La vera riconciliazione non può prescindere dalla riscrittura di fatti non correttamente riportati dalla storiografia ufficiale, che renda, quando dovute, giustizia e dignità ai vinti, e non neghi ciecamente i misfatti dei vincitori se realmente avvenuti. Solo sulla base di una verità accertata e condivisa si può costruire una vera pacificazione che sancisca definitivamente l’avvenuta Unità Nazionale, e superi finalmente le barriere sorte in occasione di guerre combattute in tempi anche molto lontani, ma che a distanza di decenni, e anche di secoli dividono ancora irrimediabilmente i vincitori e i vinti di ieri, mantenendoli parti distinte di un popolo che ancora ricerca con fatica una propria comune identità.
Edoardo Bernkopf
nr. 12 anno XVII del 31 marzo 2012