“Il primo civico del paese, salendo il colle dalla Val di là - come usano ancora chiamarla, con una sottile vena di disprezzo, quelli della Val di qua - è il cimitero, un bel cimitero col muro di sassi e il cancello di ferro. Appare all’improvviso dopo una curva, austero e maestoso. Quando torno dalla città mi fermo sempre per una visita. Poco prima del cartello d’ingresso al paese svolto a sinistra, imboccando la stradina stretta, perennemente dissestata che vi conduce. Sceso dall’auto mi avvicino lentamente al cancello, misurando i passi, lasciandomi alle spalle il rumore, lo smog, la velocità frenetica del mondo di giù. Una brezza sale dalla pianura e solletica la fantasia, che vaga tra i ricordi d’infanzia e le vecchie storie ascoltate da bambino… Sono più di cent’anni che il cimitero sorge in quel luogo. Lo costruirono sul finire del diciannovesimo secolo, dopo che l’altro, a fianco dell’antica chiesa, s’era fatto stretto, al dire dei paesani, perché i morti potessero trovar requie in forma decorosa. Non potendo contare sul parere dei diretti interessati, la comunità aveva deciso di erigerne uno nuovo verso Occidente, in una spianata dalla quale si possono tuttora ammirare la valle, le colline circostanti e, verso nord, le sagome scure del Pasubio e del Carega”.
Comincia così "Il paese silenzioso – storia di un Veneto che non c'è più", opera prima del giovane scrittore montecchiano Michele Santuliana pubblicata da qualche settimana dalle Edizioni Biblioteca dell'Immagine. Memorie di un Veneto rurale raccontate da un giovane esordiente, storie così vicine a noi,che raccontano di vite e di luoghi ormai scomparsi, narrate da occhi curiosi e giovani. E a ben pensare è proprio questo che più colpisce del libro, il fatto cioè che a scriverlo non sia stato un anziano o maturo cronista con decenni di esperienza alle spalle, ma un ragazzo che ha scelto di tornare al passato, forse anche per comprendere meglio il presente. «Si tratta di un racconto di memoria e riscoperta, ambientato nel mio paesello d'origine, Sant'Urbano, la frazione collinare di Montecchio Maggiore dove sono nato e cresciuto - racconta l'autore - . Ma è anche una sorta di romanzo corale, in cui riaffiorano le voci di vecchi paesani che raccontano le loro storie. Storie di vita, di allegria, di gioia e di dolore; storie di paese, di una vita e di una civiltà ormai soffocate da un mondo divenuto frenetica vita di città. Storie che ci ricordano - come ha scritto Mario Rigoni Stern - che al mondo siamo tutti paesani».
Michele, perché un giovane come te sente il desiderio di scrivere un libro sulle storie di un tempo che non c'è più?
«Per me scrivere è innanzitutto salvare qualcosa. Salvarla dallo scorrere del tempo, ma soprattutto, dalla dimenticanza cui spesso cade il frenetico vivere d’oggi. Salvare memorie e storie paesane è un po’ salvare una parte di noi, di quello che siamo stati e, forse, di quello che siamo ancora. Personalmente, pur sentendomi al contempo cittadino d’Europa e del mondo, avverto molto forte il legame con la mia terra, con un'Italia ricca come forse nessun altro paese di storia e cultura, e con un Veneto che ha forse un po' smarrito, nel cammino del progresso economico, una parte di sé. Per questo ho scelto di scrivere, perché i tempi che non ci sono più possono ancora essere se teniamo viva la memoria. Non è facile, lo riconosco: quella rivoluzione conformistica di cui parlava Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta si è ormai compiuta, segnando bruscamente la fine del mondo contadino precedente. E nel mio paesetto di collina, da bambino ho potuto scorgere gli ultimi momenti di quel mondo perduto. Di questo ho voluto scrivere, non con nostalgia, ma con brio e gioia di vivere, gli stessi che trasparivano dai racconti ascoltati da bambino».
Com'è la vita in un piccolo paese come S. Urbano. Si è a pochi km dalla città, ma è come vivere in un altro mondo...
«È un paese che cambia in continuazione, come tutti. Alla fine del libro, osservo, con un velo di tristezza, che “oggi segue più da vicino il ritmo del mondo di fuori”. Lo vedo infatti già cambiato rispetto al periodo di stesura del testo (2009). Ma da bambino lo vedevo un paese ricco di vita e di memorie, soprattutto grazie a certe figure che ho descritto e che hanno segnato la mia infanzia: i miei nonni paterni in primis, ma anche molte altre persone. Gente che ancora viveva della terra e con la terra. Da questo punto sono partito, raccogliendo racconti e memorie orali, parlando coi vecchi paesani o consultando i documenti dell’archivio parrocchiale. A volte percepivo un distacco tra paese e mondo di fuori, a volte piuttosto forte. Una sorta di chiusura che credo comune ai piccoli centri, specie se isolati anche geograficamente. E fino al secondo dopoguerra non c’erano molte strade per arrivare a Sant’Urbano».
Dopo la maturità sei stato per un anno lontano da casa, nella comunità Il Mandolrlo. Parlaci di questa esperienza.
«Al termine del liceo feci una significativa esperienza presso la Comunità vocazionale di Vicenza. Fu un anno di scavo profondo, al termine del quale compresi che la mia strada non era quella del seminario. Al contempo però, scavare interiormente aveva fatto riemergere fatti e memorie dell’infanzia, di quel paese che mi aveva così fortemente segnato. E i volti e le storie dei vecchi paesani, la loro allegria e gioia di vivere, furono così vividi che mi parve quasi naturale mettermi a scrivere. Volevo salvare la loro memoria. Allo stesso tempo scrivere era rimettere ordine anche dentro di me, fare chiarezza».