NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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“Vita Nova” per la danza

Bassano ha contribuito al progetto della Biennale Danza dedicato a ballerini di età compresa tra i 10 e i 15 anni. Parla il coreografo norvegese responsabile dello spettacolo

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Biennale Danza

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

Foto di Akiko Miyake

Questa settimana a Bassano del grappa, presso il CSC centro per la Scena Contemporanea/ Casa della Danza ha avuto luogo la preparazione per la parte veneta del progetto della Biennale Danza chiamato “Vita Nova”, progetto pilota finalizzato alla creazione di un repertorio di coreografie contemporanee dedicato ai danzatori dai 10 ai 15 anni. Oltre al Veneto, le regioni coinvolte sono la Toscana, le Marche, l’Umbria, il Lazio e la Puglia. Per il Veneto la collaborazione della Biennale è con Il CSC di Bassano. Lo spettacolo è andato in scena a Venezia al Teatro alle Tese presso l’Arsenale di Venezia, ha visto come protagoniste 4 giovanissime danzatirici, Alice Cattelan, Giulia Fregonese, Emma Piotto, Elisa Settin, selezionate nell’ambito delle scuole di danza del territorio ed è stato commissionato dalla Biennale al coreografo norvegese Stian Danielsen che lo ha preparato a Bassano. Lo spettacolo dura circa 17 minuti ed è incentrato sui giochi di gruppo dei bambini accompagnati da filastrocche in alternanza tra momenti statici e dinamici declinati attraverso un’espressività del gesto e del viso che esprime l’unicità dell’individuo e le sfumature emotive dell’animo umano. La presenza scenica evidenziata dalla scrittura di Danielsen e dall’interpretazione dalle ragazze rende lo spettacolo universale e realizzabile da danzatori di qualsiasi età.

 

Quando hai incontrato le ragazze e come hai costruito la coreografia per loro?

Biennale Danza (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)Stian Danielsen: “Le ho incontrate il primo giorno e il compito dato dalla Biennale era che volevano qualcosa che riguardasse i giochi dei bambini, quindi ho dovuto trovare un titolo prima di scriverlo. Si chiama “Let’s play” e ho cominciato prima di tutto col conoscerle, stare con loro nello spazio e vedere come si muovevano dando loro dei compiti semplici”.

Quindi tu eri interessato al rapporto che le ragazze avevano con lo spazio?

“Per me era anche interessante sfidare il compito: giochi da bambini, loro sono bambine di 12-13 anni, volevo creare qualcosa che entrasse e uscisse dai giochi e ho lavorato molto sui differenti stati. Anche mettere alla prova il pubblico riguardo a quello che vede: bambine che fanno giochi da bambini o qualcos’altro? Come accompagnarle in soli 17 minuti? Volevo portarle verso uno stato mentale differente quando pensano e fanno le cose, il modo in cui cambiano. Penso che sia interessante il modo in cui il pubblico percepisce e sa cosa sta guardando e decide di cambiarlo: per alcuni secondi cambia improvvisamente verso questa trasformazione senza fermarsi e ripartire, rifermarsi e ripartire ecc”.

Il titolo è “Let’s play” ma la dinamica del gioco a volte esprime aggressività, come se fossero arrabbiate e ci sono alcune ripetizioni che sono adatte a liberare energia. la mia impressone è stata che non ci sia un messaggio di gioia perché quando pensiamo a giochi di bambini pensiamo qualcosa di allegro e tenero. Non sembrano delle bimbe ma degli adulti che danzano.

“Questa è un’altra cosa che volevo mettere alla prova: si chiama “let’s play” e il compito è giochi da bambini, loro sono bambine, fanno tenerezza; sarebbe stato facile e non interessante, volevo più dimensione. Non volevo una danza carina per ragazzine che correvano in giro con dei bei vestiti, volevo qualcosa di forte, lavorare su qualcosa che pone delle domande su chi sono loro sul palco. Se il lavoro sia buono non sono io a doverlo giudicare ma il pubblico, perché viene a vederlo. Penso che la fisicità basti per se stessa e il testo ti dà un suggerimento su quello di cui tratta e di come sarà. Penso anche che noi, in quanto adulti, pensiamo che loro a 12 anni siano in un certo modo e possano fare certe cose e volevo sfidare anche questo: cosa possono essere sul palco al di là dei loro 12 anni”.

Le hai trovate tecnicamente preparate? Pronte a realizzare quello che volevi da loro?

“Ho imparato da loro, sono molto aperte a fare, invece di fare domande sul compito lo hanno attaccato per vedere come potevano risolverlo, non temevano di fare le cose correttamente, nella dinamica giusta o di divertirsi ma volevano anche lavorare”.

Le ho viste molto coinvolte nel progetto e molto contente di fare la coreografia, che tipo di relazione hai visto tra di loro e che tipo di rapporto hai costruito con loro in soli 10 giorni?

“Mi ha commosso la relazione di vicinanza che abbiamo avuto in così poco tempo, per me che sono abituato a lavorare con adulti professionisti: non è come diventare migliori amici ma creare una situazione in studio dove ognuno si senta a propri agio. A volte correvano e dovevo cercarle, si nascondevano da me nel mezzo del lavoro, si rilassavano troppo ma a me non piace fare: “Tornate qui !!”. Ho sempre dato loro fiducia riguardo alla loro voglia di lavorare, non volevo soldatini, ma volevo che loro riconoscessero quando si sbagliava qualcosa e che fossero coinvolte nella pièce, perché questo è quello che deve venir fuori e non che io faccio dei bei passi nel modo giusto con il tempo giusto, questo non è interessante. Non avrei potuto realizzare la pièce senza l’aiuto di Giovanna Garzotto, l’assistente coreografa”.

Biennale Danza (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)



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