Questa settimana al Comunale di Vicenza ha avuto luogo una residenza di danza la cui restituzione di una prima parte del lavoro, dal titolo “Sopra di me il diluvio”, è andata in scena al ridotto del TCVI. La coreografia è firmata da Enzo Cosimi, già ospite l’anno scorso al TCVI con il titolo “Calore”, coreografia che fa parte del progetto Ric.Ci, ideato dal critico Marinella Guatterini per il recupero delle coreografie degli anni ’80 e ’90. “Sopra di me il diluvio” è invece un lavoro nuovissimo ed è stato interpretato dalla danzatrice Paola Lattanzi. La parte della messa in scena di “Sopra di me il diluvio” è stata affiancata dalla proiezione di uno stralcio del video relativo allo spettacolo “Welcome to my world”. Il tema di riferimento è l’Africa e il rapporto tra uomo e natura. L’opera compiuta andrà in scena alla Biennale Danza a Venezia tra un mese e mezzo.
Nell’incontro col pubblico si parlava molto di questo rumore di fondo, primordiale, che mi sembra sia un po’ il trait d’union tra la fisicità, la tensione all’interno del corpo (lei è quasi come una pila, è molto tesa, ha questo corpo molto nervoso) e un’ intelligenza collettiva in stand by rappresentata da questo televisore, questa tecnologia che forse fa un passo indietro perché non c’è segnale. Che rapporto c’è tra la natura, l’essere umano e la tecnologia, visto che tu porti in scena la tecnologia però il lavoro, come quello precedente, parla del rapporto uomo-natura?
Enzo Cosimi: “Io avevo fatto una cosa molto interessante, pop, un grosso evento per la Campari, tre anni fa, ed era sul tema dell’apocalisse Maya, quindi è partita da una cosa molto semplice e questa cosa mi ha portato a rileggere delle cose bibliche eccetera; quindi già da prima avevo questa necessità di mettere l’uomo in rapporto con la natura e chiaramente è cambiato molto negli anni. La natura si sta ribellando, sta urlando, quindi questo lavoro, Wellcome è partito da questa cosa. Per me è sempre molto difficile spiegare i miei spettacoli perché poi non sono spettacoli in cui si raccontano delle storie, sono visioni che si accumulano per poi arrivare comunque ad una centralità, a una drammaturgia centrale. Questo lavoro ancora ha un mese e mezzo per essere concepito”.
Lo porterai in scena tra un mese e mezzo in Biennale.
“Sì, debutta là, quindi questa è la prima residenza. Ho fatto vedere questa parte perché è la più definita anche se potrebbe anche questa avere dei cambiamenti: sai benissimo che quando si porta uno spettacolo, fino al giorno prima o anche il giorno stesso fai delle variazioni. Però trovo interessante che ci siano appunto queste residenze in cui tu puoi avere un feedback del lavoro in progress, non finito. Poi finito anche mi piace: tutte le volte anche con “Calore”, abbiamo fatto degli incontri dopo spettacolo”.
Anche l’anno scorso che lo avete portato in giro col progetto Ric.Ci
“Sì, gira molto ancora e poi andrà in Belgio, mentre Wellcome ad ottobre sarà a Tokyo e lì, per esempio, mi incuriosisce molto portare Wellcome, un lavoro sulla natura in un paese, diciamo, molto curioso”.
Anche sotto gli occhi del mondo per il discorso ambientalista.
“Si sì”.
Quanto il progetto Ric.Ci ti aiutato a diffondere ulteriormente o a far riscoprire “Calore”?
“Il Progetto Ric.Ci è stato molto importante, fondamentale devo dire, anche ringraziare Marinella (Guatterini ndr) che aveva insistito perché lei mi aveva dato una rosa di tre ed è stata lei ad insistere su “Calore”. All’inizio ero un pochino “così”, poi invece ci ho riflettuto e alla fine abbiamo avuto ragione, nel senso che si è rivelato un lavoro di una freschezza, ancora dopo 32 anni e sono felice”.
Qui hai illuminato il palco dal basso e tutta la parte alta della scatola scenica lasciando che la luce bianca ricadesse giù quasi a cascata ma al tempo stesso mettendo in forte evidenza tutta l’illuminotecnica del teatro: è una scelta drammaturgica o puramente estetica? Qual è la tua intenzione a riguardo?
“Tutte e due, una scelta estetica e drammaturgica nel senso che si voleva lavorare con questi led, una luce diffusa che non crea ombre, che è una cosa bellissima, che sta in quella posizione”.
Nell’incontro col pubblico si parlava del suono, che è una cosa che ha colpito molto. Dicevi che tu cercavi un tribale contemporaneo che non fosse vecchio e polveroso; qual è la tua esperienza o concezione di tribale contemporaneo? Mi sembra di capire che tu cerchi una certa autenticità di suoni e di segni, perché quando si parla di tribale o di etnico contemporaneo si pensa sempre a qualcosa di contaminato o comunque di snaturato nella sua essenzialità.
“Non mi interessa l’esotico, certamente di quello non mi importa nulla, mi interessa l’Africa. In tanti lavori, anche in “Calore” c’era una certa tribalità ma completamente diversa da quella che c’è qui, anche in “Welcome to my World”: loro con questi segni che hanno sul corpo, certamente è un tribale molto minimalista, non è che li mando con la paglia in testa. È vero che abbiamo fatto vedere solo 15 minuti, in tutti i campi il lavoro non è stato quello di rappresentare una certa idea di Africa: la luce fredda, quello che dicevo, ci incuriosiva questo tribale ibernato, raggelato. Non mi interessa niente di stare lì a fare le robe etniche”.