NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Franco Di Mare dai teatri di guerra al teatro

Intervista al giornalista inviato Rai in più di un fronte di guerra che ha portato in scena la storia di una bambina uccisa da un cecchino a Sarajevo

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Amira

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

“Amira” è il nome di una bambina uccisa da un cecchino a Sarajevo durante la guerra nella ex Jugoslavia. A lei e a tanti altri episodi di guerra, vissuti in prima persona in varie parti del mondo, l’inviato del TG2 e TG1 Franco di Mare dedica una pièce di teatro giornalismo che ieri sera è andata in scena a Villa Cordellina con la partecipazione di Anna Zago e Aristide Genovese di Theama Teatro e il musicista Pietro Pagnes. Privo di retorica e arricchito da citazioni letterarie, con il supporto di video tratti da interviste, filmati storici, TG e film sia di guerra che commedie, lo spettacolo di Di Mare arriva dritto al centro, coinvolgendo lo spettatore proprio grazie al segno teatrale, spesso più efficace della stessa cronaca in tv: memorabili la scena del mitra e quella machete.

 

Questo spettacolo è preso da un libro che hai scritto?

Amira (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Franco Di Mare: “È il contrario, lo spettacolo nasce nel 2006 dalla considerazione che fosse il caso di fare una riflessione su che cos’è la guerra per l’uomo: secondo una serie di studi la guerra è una condizione dell’animo umano, periodicamente accade nel mondo e questa inquietudine m’era rimasta dentro. Insieme a un amico abbiamo pensato di portare questa riflessione a teatro e lo abbiamo portato per un anno in giro per le scuole. Sul Corriere della Sera, Emilia Costantini in un ampio articolo diceva:“Franco Di Mare dai teatri di guerra al teatro” e un agente letterario mi chiese: “perché non ne scrivi un libro?”. Ho scritto “Il cecchino e la bambina”, 21 storie di guerra, storie residuali, quello che mi rimaneva nel taccuino alla fine dei miei viaggi, storie minimali ma non minimaliste all’interno delle quali trovavi tutto quello che è la guerra, piccole storielle di persone e di fatti che non avevano la robustezza per finire in un servizio da TG, però ognuna di queste, prese singolarmente, aveva un suo senso. Sono andate molto bene e ho continuato”.

Come mai hai scelto il racconto teatrale, dal vivo, con il pubblico?

“Io credo che l’affabulazione, il ritorno alla parola, sia una necessità; anche il racconto omerico nasce dalla parola prima che dalla scrittura ed era necessario per me anche come forma di liberazione dai demoni che avevo, come dire, coltivato ed alimentato con tutto quello che avevo visto e che mi hanno perseguitato tutte le notti della mia vita. Per me parlare con gli altri era necessario e importante, pensa che all’inizio lo facevo con i miei amici che mi chiedevano che cos’è la guerra, com’è andata, perché, per come, e dopo un po’ cominciavano a non poterne più perché pensavano che era eccessivo”.

Si parla di “guerra di camorra”, di violenza, a Napoli, una città che è stata una delle più grandi e splendide capitali mondiali della cultura e della ricchezza fino a 150 anni fa, e che adesso invece subisce queste ferite, proprio come se fosse una guerra. Quanto secondo te una guerra di camorra subita dai cittadini può somigliare alle guerre che hai visto tu?

“Non soltanto a Napoli ma in qualunque altra città, dove tu trovi violenza trovi la ripetizione di giochi di guerra con le bande, capobanda e decisione di arrivare armati ai conflitti: in qualunque luogo del mondo e in qualunque tempo le dinamiche delle violenza sono sempre uguali. Napoli da questo punto di vista, ha una particolarità: ha la periferia nel suo interno. Periferia è una parola che deriva dalla crasi di due parole greche, significa “fuori dalle mura del centro storico”; le banlieu di Parigi sono la periferia fuori dalle mura del centro storico. Questo è valido in tutte le città del mondo tranne che a Napoli e a Rio de Janeiro: le periferie sono dentro al cuore della città. Questo è così devastante che ha un effetto imponderabile, distruttivo e deformante sullo sviluppo della comunità. Chi nasce e vive a Napoli non può esimersi dall’idea della guerra: un napoletano sa perfettamente come si comporta e come è fatto un camorrista perché è il suo vicino di banco a scuola. A Napoli c’è un quartiere piccolo che conosco bene, da cui provengono i miei genitori, Santa Lucia, che è diviso da una strada: a destra i palazzi nobiliari e dall’altra parte c’è il Pallonetto di Santa Lucia, un dedalo malfamato dove si vive malissimo. Tutto questo diviso da una sola strada: i bambini crescono e vanno nelle scuole pubbliche insieme, figli di camorristi con i figli del notaio o dell’avvocato. Il figlio del notaio e dell’avvocato capisce il linguaggio del camorrista perché tutta la cultura napoletana è permeata da questa doppia anima. Per questo Napoli è sempre “Miseria e nobiltà” e questa particolarità è la sua ricchezza perché il povero napoletano è sempre un po’nobile e il nobile napoletano capisce il povero…”

Amira (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)…E forse è anche un po’un “malamente”.

“Esatto. Ed è anche la sua rovina”.

Noi abbiamo sempre un po’un pregiudizio che in qualche modo ci sia sempre un mondo “altro”, in cui avvengono delle cose che a noi non succederanno: Zoro ha fatto un bellissimo servizio sui profughi siriani che avevano uno stile di vita come il nostro: il medico, la dentista, la figlia che va a scuola. L’Italia è stata definito un focolaio possibile, potrebbe succedere anche a noi qualcosa? O in Grecia: non sappiamo cosa potrebbe succedere lì.

“È quello di cui parliamo stasera. Sai, quando si gioca sul separatismo, sull’idea di differenza, “voi” e “noi”, di distanza tra culture, “noi del Nord”, “voi del Sud”, “noi meridionali”, “voi veneti”, si gioca sempre su nervi scoperti e su sensazioni epidermiche, non sulla ragione. Io l’ho visto fare in Jugoslavia ed è finita malissimo. Qui, tempo fa, un leader politico molto noto disse che un proiettile costava 500 lire, che ci voleva poco e che lui aveva 40 mila uomini pronti a prendere le armi e scendere a Roma. Sono brutte cose, non si dicono, perché in Jugoslavia sono successe”.

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