NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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L’uomo che ha “rianimato” la ghironda

Intervista a Sergio Berardo, ospite a Ferrock con la sua band Lou Dalfin, che è riuscito a far tornare protagonista questo antico strumento, ormai in disuso. Sul palco musica folk e la lingua d’Oc, quella dei trovatori

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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L’uomo che ha “rianimato” la ghironda

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

Grande festa la settimana scorsa al Ferrock con la band occitana piemontese dei Lou Dalfin, capitanati da Sergio Berardo, polistrumentista famoso non solo in Italia per aver rivalutato l’antico strumento della ghironda. Attivi da molti anni i Lou Dalfin non sono più soltanto una band che unisce la tradizione storica con il rock contemporaneo ma un’associazione culturale di formazione e diffusione con un’orchestra, la Grande Orchestra Occitana, che conta fino a 100 elementi di tutte le età e che viene spesso invitata ad esibirsi all’estero.

 

Tu hai fondato i Lou Dalfin quasi 30 anni fa

L’uomo che ha “rianimato” la ghironda (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Sergio Berardo: “Nell’82. A quei tempi andava di moda il folk revival e noi eravamo come tante band folk. Noi abbiamo cercato di fare la musica cercando di leggerla per quello che siamo noi: siamo della provincia di Cuneo e Torino dove vive la minoranza etnica occitana e la gente parla ancora la lingua d’oc, la lingua dei trovatori".

Tu sei il ghirondista più famoso d’italia.

“Beh, sono conosciuto… Ce ne sono tanti, soprattutto da noi, perché Lou Dalfin è diventato un centro didattico di insegnamento. Il fatto di leggere la musica tradizionale e di viverla come un fenomeno rivolto al presente e all’attualità, è stato un modo riconoscersi nelle proprie radici occitane, avere orgoglio per la propria terra. È diventato un vero e proprio fenomeno di costume nelle nostre zone".

Oggi in giro c’è tantissimo folk, folk metal, celtica: molto spesso cercano di rifarsi a delle tradizioni che sono state riscoperte ma che magari sono di difficile documentazione perché tramandate oralmente.

“Lì è un po’ un problema di molti giovani e di terre che hanno un po’ perso le loro radici musicali e vedono chi vuole fare qualcosa che sia un po’ legato la passato e alle radici a girare verso questi esotismi e questo “neoceltismo”. Siamo in un momento in cui le persone sono disorientate non hanno qualcosa a cui aggrapparsi, cercano disperatamente dei suoni e delle atmosfere che li riportino a ricollegarsi a qualcosa che c’era prima, a volte questo avviene in modo ingenuo altre in un modo più consapevole. Nei Balcani, nei Paesi Baschi o gli occitani non hanno bisogno di cercare altre tradizioni".

Cosa si può trovare di attendibile in tutto ciò che viene riscoperto e nel tramandare le tradizioni?

“È importate questo, che ci sia uno studio scientifico. Alla base di quello che faccio io c’è uno studio attento degli strumenti: noi abbiamo 9 cornamuse diverse in Occitania, i nostri oboi, da noi la ghironda è qualcosa che ha riattecchito tantissimo nonostante l’ultimo suonatore prima di me fosse morto nel 1935, proprio perché era ancora ben vivo il ricordo nelle persone. Non è stato un qualcosa di importato, nello stile si è ricreato moltissimo perché è giusto così, le tradizioni devono reinventarsi e ricrearsi continuamente. Tra noi c’è un ricercatore universitario proprio di queste cose, sapere dove è il confine tra musica popolare quindi espressione, vitalità, festa e tutto il resto e lo studio scientifico della materia".

L’uomo che ha “rianimato” la ghironda (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Il pubblico che ascolta come fa a distinguere il prodotto che può essere di interesse scientifico con quello che magari è di qualità ma che magari non ha una attendibilità?

“Una cosa è la ricerca sul suonatore di quella valle che suona quelle cose in quel’ambiente e una cosa è la riproposta sul palco. Il vaglio, il crivello è il pubblico, se poi c’è un background, una verità in quello che fai, prima o poi esce fuori. Che tu faccia del cajun (la musica dei francesi della Lousiana), della musica irlandese, del flamenco, del rebetiko, la tua verità è il tuo rapporto con la tua terra e la tua tradizione. Gli etnomusicologi mettono i loro paletti giustamente, poi la musica popolare è una cosa che ha come unico giudice il pubblico".

Stiamo parlando di realtà molto localizzate che comunque piacciono in generale.

“Sì, pensa alla musica irlandese come piace fuori dall’Irlanda, o la musica scozzese. O il flamenco".

Però parliamo anche di cose che sono state sfruttate molto a livello commerciale.

“Per noi no".

Per voi no ma è anche vero che c’è stata una diaspora irlandese che aiuta la diffusione, c’è stata una spettacolarizzazione all’americana con Michael Flatley però qui parliamo di cose molto localizzate, penso a France’s got talent, dove ha vinto un gruppo di musicisti bretoni ed è stato un grande successo. Al di là delle mode, quanto una trasmissione o un fenomeno internet possono aiutare a comprendere queste realtà culturali?

“Internet per me è come attaccare i manifesti. La verità di quello che fai, come ti dicevo, e le sue possibilità di continuazione, di radicamento e di consapevolezza per la gente, stanno proprio nel momento in cui lo vivi, poi il resto serve a dire che sabato siamo a suonare lì e va bene. Io credo che l’importante sia sempre la comunità che lo produce. Noi siamo storicamente contrabbandieri non solo ma anche di musica, è una cosa che ti porta a comunicare, una delle nostre ragioni è proprio quella di portare fuori anche dalle valli la nostra musica".

L’uomo che ha “rianimato” la ghironda (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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