NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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La città delle parole, scritture del Novecento vicentino

Paolo Lanaro ha messo assieme una piccola, ma singolare storia della Vicenza letteraria, attraverso le vicende dei suoi scrittori più famosi e di alcuni ospiti inattesi

di Alessandro Scandale
a.scandale@gmail.com

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Paolo Lanaro

Chi descrive la propria città dovrebbe dunque intraprendere un viaggio nel tempo anziché nello spazio. Lo scrisse Péter Szondi, critico letterario, filologo e accademico ungherese. Una citazione presa a prestito dal vicentino Paolo lanaro che ha pubblicato di recente, per i tipi dell'editore veronese Cierre, il libro La città delle parole, scritture nel Novecento vicentino. Una storia, o forse dovremmo dire una carrellata della Vicenza letteraria del secolo scorso raccontata in episodi e attraverso le vicende dei suoi scrittori più famosi, da Luigi Meneghello a Goffredo Parise, da Guido Piovene a Fernando Bandini, da Mario Rigoni Stern a Virgilio Scapin, il libraio scrittore che ha lasciato una traccia profonda nel recente passato. Certo, quella di Lanaro non ha la pretesa di essere una grande storia, visto anche il ridotto numero di pagine del volume. Però una piccola, singolare storia della Vicenza letteraria sì, attraverso le vicende dei suoi scrittori più famosi e di alcuni ospiti inattesi. L'autore identifica per ciascuno una circostanza, un episodio che, come un flash, illumina il profilo e l'opera dello scrittore raccontato. Ritratti inediti di vicentini che, per un motivo o per un altro, hanno dato significato e senso alla cultura di una città che di cultura, e di arte, ne ha sempre avuta molta, anche se spesso non ha avuto il coraggio - o l'ardire? - di riconoscerla e rivendicarla come propria.

Paolo Lanaro (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Così leggiamo dalla prefazione al libro firmata da Gianantonio Stella. Non sono tanti negli orti i pomi e i peri / quanti a Vicenza i conti e i cavalieri, recitava un antico adagio del '400. E così doveva essere davvero. Perché la città porta ancora tracce di profonde divisioni. Come fosse stratificata per classi sociali. Marcate dal possesso della villa più o meno palladiana, del palazzetto nobiliare, della dimora riservata con il giardino interno occultato dal portone agli occhi degli estranei. Anche gli scrittori però sono stati abbondanti, a Vicenza. Da Luigi da Porto che nel Cinquecento scrisse su Giulietta e Romeo la novella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti che avrebbe ispirato Shakespeare ed Antonio Fogazzaro del Piccolo mondo antico, dal poeta Giacomo Zanella a Virgilio Scapin, il mitico libraio di Contra’ Do’ Rode che mischiava la scrittura e il baccalà, i calici di torcolato e i cammei preziosi nei film di Pietro Germi o Ettore Scola, la città berica e la sua provincia traboccano di figure che hanno segnato la letteratura italiana. Per non dire degli stranieri che di qui passarono lasciando testimonianze straordinarie della visita. Come Johann Wolfgang Goethe. Entusiasta del Teatro Olimpico: «C’è veramente qualcosa di divino nelle sue strutture, c’è tutta la forza del grande poeta che dalla verità e dalla menzogna ricava un terzo elemento, che ci affascina». Entusiasta della Basilica: «Non si riesce a esprimere l’impressione che fa». Ma entusiasta anche dei vicentini: «mi piacciono sempre molto; essi hanno dei modi spigliati ed affabili; che derivano da un’intensa vita pubblica. Essi vanno infatti da un luogo all’altro, nelle chiese, al mercato, alle passeggiate, in pellegrinaggio (...), a teatro, agli spettacoli pubblici, al carnevale, ecc. ed il gentil sesso è generalmente bello; le donne si conducono senza civetteria e sono vestite proprio ammodo».

Presentato a Palazzo Cordellina, in collaborazione con la Biblioteca Bertoliana, il libro di Lanaro racconta figure di autori e uomini di cultura, come nel racconto La sera in cui Piovene inaugurò la libreria Due Ruote che, ricordando la figura indimenticabile di Scapin - dietro quella sua amabile bonarietà alligna uno spirito sulfureo, l’inclinazione a ridurre tutto a uno sberleffo. Scapin ha un’aria da prete, ma non essendolo diventato ne ha la furbizia senza averne l’ambiguità – fa tornare alla memoria quelle librerie che un tempo erano un tempo quasi un rifugio protetto dal rumore incessante della vita. O ancora in Bandini e la neve, dove il poeta vicentino recentemente scomparso viene ricordato come uno al quale piaceva parlare di politica e a mano a mano che il discorso procedeva e si riaccendevano le antiche passioni: il riformismo sociale, la lotta contro il malcostume e la corruzione, la necessità storica del socialismo. Uno che si irritava per il malaffare diffuso, per certe concezioni guaste e patologiche del potere.

L'autore - scrive ancora Stella - ripercorre l’ultimo secolo di storia, vicentina e italiana, partendo dal soggiorno di Friedrich Nietzsche all’hotel Tre Garofani di Recoaro, semplice e modesto e a buon mercato, per chiudere con Fernando Bandini, che se ne andò la mattina di Natale del 2013 dopo avere lasciato poesie bellissime dedicate spesso alla sua urbe: “Non avevo una storia nel cuore, / dentro le ossa fuoco o rancore. / E camminavo con indolenza / per le sorde vie di Vicenza. / Ombre nel vento chiaro i colombi / remeggiavano a piccoli scoppi / d’ali. Fioriva la gialla forsizia / nei giardini della città-pizia / che rispondeva con sentenze oscure. / O mia città di puttane e di santi / di stracci e di diamanti!” E Neri Pozza, che come editore «riproduceva nel colore, nel tipo di carta, nei caratteri, le perfette bilanciature dei versi di Montale». E poi Gigi Ghirotti, che a un certo punto decise di raccontare il cancro che l’avrebbe ucciso: «Da un anno mi insegue un odore di etere, di alcool, di antibiotici, di lisoformio e questo cocktail olfattivo mi pizzica le narici, mi inzuppa le ossa, mi si è attaccato alla pelle». E Gigi Meneghello, che per spiegare la forza del dialetto citava l’oseléto perché «l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e d’oro mentre l’oseléto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». E Mario Rigoni Stern, che su tutte le creature amava il gallo cedrone che secondo i vecchi raggiungeva «ogni mille anni» un altissimo monolito nella foresta «dove andava a ripulirsi il becco». E via via che scorri le pagine di Lanaro, ti tornano in mente le parole di Parise su questo magnifico sfondo: «Lo spettatore non ricorda il titolo dell’opera, né la trama, né se questa è un’opera lirica o una tragedia o una commedia in prosa: non ricorda se non vagamente, come l’apparizione di lemuri chiacchieroni, di aver visto in palcoscenico attori o comparse, non ricorda musiche o suoni, o parole illogiche o sensate, non ricorda un’orchestra, né la platea e il pubblico, se platea e pubblico esistevano, né i palchi e i rumori e lo scalpiccio dei loggioni. Lo spettatore (o visitatore) ricorda soltanto ed esclusivamente e per sempre la scenografia e l’atmosfera emanata dalla scenografia, nel silenzio più assoluto, un silenzio di neve.» La neve amatissima da Bandini, da Meneghello, da Rigoni Stern che raccontava come a volte, «dopo ore e ore di cammino» nelle battute di caccia coi piedi affondati nella prima neve d’autunno, «si scaricavano un paio di colpi in aria in onore di francolini e forcelli e si tornava a casa esausti, col carniere vuoto».



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