NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Fresu & Towner che coppia!

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Fresu & Towner che coppia!

Il tuo festival “Time in jazz” promuove la sensibilizzazione all’ambiente e dall’anno scorso è patrocinato dall’UNESCO, ci racconti di questo ulteriore apprezzamento di peso mondiale?

P.F.: “Abbiamo chiesto all’UNESCO di avere un patrocinio (l’UNESCO non patrocina tutti ovviamente) proprio perché è un festival che prima di qualsiasi altro, in Italia, si è posto il problema della relazione con l’ambiente: è molto seguito, vengono decine di migliaia di persone, si svolge in luoghi immersi nella natura e c’è il rischio che una manifestazione così diventi troppo impattante sul territorio. Ci siamo posti il problema di rendere questo festival sostenibile sul piano ambientale e delle energie che utilizziamo. L’UNESCO ha riconosciuto in questo lavoro un percorso molto importante e quindi ci ha patrocinato. Da quest’anno sono ambasciatore dell’UNESCO Giovani e il 30 di aprile c’è stata la giornata internazionale dell’UNESCO ( per il jazz ndr) che ha coinvolto tutte le regioni italiane con 70 concerti che sono stati fatti in tutta Italia ed è stato molto importante".

Il Mediterraneo è sempre stato simbolo di ricchezza e opportunità, oggi invece sembra essere una porta verso dei paesi che rappresentano il benessere da pochissimo tempo. I profughi e gli immigrati che stanno arrivando hanno tradizioni musicali abbastanza radicate e molto caratterizzate. Potrebbero crearsi nuove forme che cambiano la geografia della musica? Per esempio una scena nordeuropea con una fisionomia completamente inedita?

Fresu & Towner che coppia! (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)P.F.:“Questo esiste già da tanti anni, in Italia non da moltissimo perché è stato un Paese meno meticciato rispetto a Francia e Inghilterra, però esiste e le migliori cose che stanno succedendo in questo momento arrivano dagli incontri tra le culture altre, quindi Maghreb, Caraibi e Africa. Ci sono tantissimi progetti interessanti che dimostrano quanto la migrazione sia fondamentale per l’arricchimento e lo scambio. Una delle prime risposte al Mare Nostrum così tragico di questo momento è la musica come linguaggio trasversale capace di mettere insieme gli altri e vedere le diversità da un punto di vista estremamente positivo. Quando sono arrivato a Parigi per viverci, negli anni ‘90, la prima cosa che mi ha sconvolto fu proprio la capacità che avevano i musicisti francesi di convivere con culture completamente diverse dalle loro. L’arte si arricchisce sempre dalle diversità".

R.T.: “È già successo negli USA per anni, dove tutti erano immigrati, tranne gli indiani, e tutti portavano la propria musica d’origine: africana, polka, danze irlandesi, la musica classica dell’Est, tutto arrivava in America. Quando ero a New York, nel ’68, c’erano molti giovani musicisti dell’Est. Ma già ne ‘600 e nel ‘700 c’erano gli immigrati che portavano musica".

La diffidenza potrebbe influire sulla fruizione musicale di determinanti generi creando dei ghetti musicali per cui un determinato gruppo di persone ascolta quella musica e altri non ci si avvicinerebbero mai? Oppure si potrebbe creare una dominanza di suoni che influenza il rock e il pop mainstream come è avvenuto con l’hip hop?

P.F.: “Io penso che oggi si stia andando verso una musica unica e chi è diffidente con la musica lo è anche tutti i giorni, secondo me; il problema della diffidenza è insito nella natura umana indipendentemente da tutto. Il pubblico del jazz non è diffidente proprio perché il jazz nasce come musica curiosa per antonomasia per cui se uno lo è vuol dire che non ha capito il senso di questo messaggio; ci sono le musiche che ci piacciono di più o di meno ma la curiosità è parte fondamentale dell’essere musicista. Quando c’è diffidenza c’è proprio una difficoltà ad accettare il nuovo o l’inascoltato, ciò che rappresenta, un po’ la paura di essere sconvolti da una cosa che è una novità. Fortunatamente nelle cose che facciamo questo è ancora lontano".

Si dice spesso che la musica di oggi è debitrice di grandi del passato come Mozart o Beethoven. Un paio d’anni fa, sempre nell’ambito di Vicenza Jazz Fabrizio Bosso e Rosario Giuliano mi dissero che molta dell’improvvisazione jazz parte dalle fughe di Bach. Ci sono altre forme che arrivano dalla classica altrettanto riconoscibili che sono diventate parte del linguaggio jazz?

P.F.: “Assolutamente si. Bach è un po’ il padre di tutti. Il jazz deve molto alla classica, non solo Bach o la musica barocca e a quella romantica, il ‘900, molto anche all’opera italiana. Quando gli italiani sono arrivati negli Stati Uniti nei primi del ‘900 si sono “scontrati” con gli africani: noi portavamo in dote l’opera che era la nostra musica popolare. La musica classica era la musica di allora per cui non abbiamo inventato niente".



nr. 19 anno XX del 21 maggio 2016

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