“È ancora possibile la poesia?”Affermava Eugenio Montale, quando ricevette nel 1975 il premio Nobel per la letteratura, ed una delle considerazioni espresse nel discorso è da rivisitare e continuamente rimeditare, perché essa evidenzia proprio il carattere stesso della poesia e ci avverte della sua necessità. Disse il poeta: “ In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”. Tanti uomini ne sono affetti e nel passare dei secoli continuamente si contagiano e diffondono contagio, tanto, disse Montale “la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario”, perché scrive come invasato e l’urgenza di comunicare il suono della sua totale esistenza in tutte le possibili forme, si fa strada. Non si tratta di scrivere in un modo o nell’altro, ma di suonare le corde della vita, del suo significato e del suo destino. Ritorna però incessante la domanda del premiato: “Potrà sopravvivere la poesia nell'universo delle comunicazioni di massa?”. Certo non esisteva ancora “internet”, ma il poeta s’interrogava proprio su quanto la poesia può vivere in un mondo che letteralmente consuma velocissimanente tutto. La risposta la diede Montale stesso: “È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s'intende per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c'è morte possibile per la poesia”.
Infatti, la poesia, come ci rivela lo stesso termine è etimologicamente connesso al verbo greco antico pôiein, che vuol dire “fare, creare”. Fin dall’origine quindi la poesia è creazione e la creazione, quando è autentica, si rinnova, coinvolgendo, continuamente. Gli antichi ritenevano che la poesia, soprattutto l’epica, avesse ispirazione divina, come sostiene lo stesso Platone nel dialogo Jone. Forse non sono gli dèi e nemmeno le Muse a donare agli uomini la capacità di poetare, ma quando ci si avvicina ad essa qualcosa di “strano”, di non riducibile alla sola dimensione orizzontale dell’uomo, ci avvince e sempre la poesia c’innalza al vertice del senso della vita, tanto che possiamo dire che se l’uomo perderà la ricerca di quel senso, allora anche la poesia cesserà; ciò, riteniamo, però, per fiducia, non avvererà, per questo la poesia religiosa è l’apice del poetare.
Così ogni istante produce della poesia in qualche parte del mondo, perché i contenuti della poesia non hanno un luogo, una lingua; essi sono per così dire trascendentali ovvero consentono di fare poesia, ma non derivano dalle esperienze poetiche. Certo, la riviviscenza della poesia forma gli animi; essa ha una funzione paradigmatica per l’uomo e la complessità della sua vita in ogni espressione, religiosa, culturale in genere, politica e anche pedagogica, come attestano i poemi omerici, ma… Ma la poesia non nasce dalla lettura di poesie, nasce dalla nostra stessa esistenza, da tutto quanto colpisce un uomo e talora costui si fa poeta.
Un’altra domanda però incalza e ben fu anticipata da Montale. In un’epoca di crisi, come la nostra e che non è riconducibile alla sola economica, può esserci ancora poesia? Noi che ci crediamo padroni della nostra sorte e “ depositari di un destino che nessuna altra creatura vivente può vantare” possiamo avere ancora un destino nelle arti o queste si ridurranno a solo consumo, ad attimi fuggenti che nulla depositano nel cuore e nella mente dell’uomo? Io credo di sì. Lo attestano i tanti poeti che in tutto il mondo quotidianamente, la poesia è quotidiana, propongono a tutti i loro versi e li abbandonano all’azzurro del cielo, dove chiunque può vederli.
Queste considerazioni ben introducano a quanto compie da tredici anni a Vicenza Antonio Capuzzo. Il docente del Fogazzaro, uomo di cultura e poeta egli stesso propone ogni anno, un “Quaderno di poesia” al quale partecipano tanti poeti che “vengono legati”, per così dire, da un tema com’une; ognuno è libero di interpretarlo secondo il suo animo, la sua cultura e soprattutto con quell’istanza vitale che rende la poesia un significato per chiunque la legga e la faccia propria. Questo perché la poesia si fa storia del lettore e il lettore, catturato esemplarmente nei versi, li fa propri per dire di sé attraverso le parole del poeta.
Tanti i temi, indicati fin dal 2003, quando l’iniziativa di Antonio Capuzzo iniziò il suo percorso. Il primo La vera e la falsa Eva, Poesie sulla clonazione, proseguendo con Il tempo segreto, Poesie sulla notte; Il giardino incantato, Poesie d’amore e via via fino a (Ma)donna con bambino, Poesie sulla maternità per giungere all’ultima Nell’azzurro, poesie sul cielo. Tutte le sillogi sono pubblicate dall’Editrice Veneta con la consueta cura.
L’ultima raccolta affronta, come abbiamo detto, “il cielo”, “una parola strana, – avverte Antonio Capuzzo nella lucida Introduzione – che non corrisponde ad un oggetto preciso, forse nemmeno ad una realtà oggettiva ben distanti da altre” Proprio questa sua indeterminatezza è “il simbolo di ciò che sta in alto, dello spazio considerato sacro, privilegiato, dove immaginiamo” che vi sia quanto di buono è possibile, la sede del Dio. Infatti, guardare il cielo, anche solo per vedere il tempo meteorologico, è qualcosa che sempre ci spinge a considerare noi stessi, il nostro stato d’animo. Il cielo è analogo alla poesia perché in ambedue si esprime pienamente la ricerca di significato, quella possibile eternità del verso al quale tutti i poeti aspirano e che indica che mai cesserà il verso. Cielo-poesia un’analogia totale alla quale i poeti che hanno regalato alla silloge i loro componimenti affidano il loro canto, Osservando il cielo o Al tramonto o solo sentendolo dentro nella sua Infinita bellezza. Il cielo blu, colorato nel quale lanciarsi con il Parapendio quasi spirito alato.
Il cielo con la terra, è la prima creazione: “In principio Dio creò il cielo e la terra. (Genesi, 1,1) sotto il quale e nella quale si consuma la nostra esistenza, oscillando tra necessità e aspirazione, tra contingenza ed universalità, tra finito che ci imprigiona ed infinito che ci e ognuno cerca di dargli colore. Sorridi al cielo, è l’ultima poesia, quasi a suggello della necessità di non abbandonarsi ai soli bisogni che spesso s’inseguono nelle cose di tutti i giorni.
Gustavo Dorè, Dante e Beatrice contemplano il cielo empireo
Una raccolta di poesie che dalla prima all’ultima afferma un’inderogabile necessità che ogni uomo, anche il più coinvolto nella schiavitù delle cose vane non può evitare, perché la sua vera aspirazione è la circolata armonia di bene e bellezza che il cielo addita e soprattutto il cielo empireo. Verso questo il destino immortale dell’uomo, diceva Immanuel Kant nel suo saggio Storia universale della natura e teoria del cielo, avvia quella segreta facoltà di conoscenza dello spirito immortale che parla una lingua impronunciabile e che suscita pensieri inespressi, che si sentono, ma non si lasciano dire se non dalla poesia.
Nell’Azzurro. Poesie sul cielo, a cura di Antonio Capuzzo, Quaderno di poesia n.13, Vicenza, Editrice Veneta 2014.
nr. 04 anno XX del 31 gennaio 2015