NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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È di moda il “genere”

di Italo Francesco Baldo

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È di moda il “genere”

Ogni tanto gli intellettuali soffermano la loro attenzione, prima di trovare un altro argomento, su qualcosa che sembra interessarli. Negli ultimi tempi è diventato di moda il termine “genere”, meglio far mostra di utilizzare quello inglese “gender”, che è utilizzato soprattutto in politica e nelle questioni della parità tra i sessi presenti nel mondo, che dovrebbero essere due, se, sempre gli stessi intellettuali, non avessero decretato che non esiste una definizione univoca di”sesso”, ma che questo, per via del pensiero della differenza, si declina in tanti modi, ossia in quanti sono gli esseri umani, confondendo tra natura e diversità di piacere che dalla natura ogni essere ricava.

Nei tempi andati, quando nelle scuole elementari, oggi sostituite dalla “primaria” e nessuno sa che vuol dire, visto che si continua imperterriti a chiamare questa istituzione con il nome antico, era impartito lo studio della lingua italiana principalmente, orrore dei soliti intellettuali negli anni settanta e poi ricreduti... tanto per scrivere nuovi saggi, sulla grammatica, le letture e delle poesie la parafrasi, il termine “genere” aveva un preciso significato.

Nella parte della grammatica nella quale si studiava il sostantivo, la prima distinzione, dopo la definizione era “il genere”. Infatti, “ i sostantivi si distinguono, secondo il genere in maschili e femminili. Come accade che alcuni sostantivi siano maschili e altri femminili? È facile rispondere… perché, ad esempio madre, questi nomi indicano persone che nella realtà sono femmine; se fossero maschi, avrebbero altri nomi. […] Non è facile, però spiegarsi, perché siano maschili capello, fango, vestito, o perché siano femminili cenere, scarpa coperta”. (cfr. Il libro Garzanti della lingua italiana, Milano, 1970, pp. 159-161)

Fermarsi a questa distinzione per “genere” è troppo elementare e non fornisce vera spiegazione. Bisogna andare ad altre discipline che s’intravedono peraltro anche nella definizione grammaticale, ossia quando ci si riferisce a “persone” e qui la questione diviene importante. Nella cultura europea, quando si utilizza il termine, si richiama non al significato d’origine greca, in altre parole “maschera”, ma a quello che il cristianesimo e particolarmente il mondo cattolico ha elaborato. Il Cristianesimo ha fatto entrare nella lingua d'uso la parola persona, e ha aperto il dibattito teologico e filosofico intorno a questo termine a partire dalla definizione di "persona" ritenuta classica di Boezio: "Sostanza individua di natura razionale". L’essere umano, in quanto persona non è definito dal genere maschile o femminile, ma dalla natura razionale, quella che procede dal lume naturale che è insito nella donna e nell’uomo, che Dio tali li fece: Adamo ed Eva secondo la narrazione del cantico iniziale del Genesi.

È di moda il “genere” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)
Testi dei filosofi libertini

 

Certo questa riflessione non è accettata da tutti ed è stata pure contestata da diverse filosofie dal ‘600 al ‘900, ma non certo in base alla distinzione sessuale, piuttosto in considerazione di una visione diversa dell’essere umano, come ben attesta il mondo libertino inglese e francese con il suo apice nel marchese de Sade, ma anche dal marxismo che considera l’uomo, come aveva fatto anche Aristotele, come un animale politico, ma a differenza dello Stagirita, non ne fornisce una definizione completa, ma lo limita e restringe solo nella dimensione economica (struttura) dalla quale dipende tutto il resto (sovrastruttura). Non stupisca se da questa concezione parziale, riduttiva e relativista, nasca il totalitarismo, ossia l’elevazione di una parte a tutto, che ha tanto insegnato a certo fascismo e al nazionalsocialismo. Tutti figli di quel totalitarismo che è in primo luogo il relativismo, ovvero la riduzione dell’uomo ad un solo suo aspetto, come ha pure compiuto la visione psicoanalitica di S. Freud e di gran parte delle scuole che da lui hanno avuto origine.

 

È di moda il “genere” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Proprio quest’ultimo sembra essere il “padre” dell’attuale visione del “genere”, ridotto a sola considerazione sessuale, ma in realtà il vero padre è quel Herbert Marcuse, freudiano e seguace della scuola di Francoforte, che, rifugiatosi a causa del nazionalsocialismo negli Stati uniti, negli anni sessanta del secolo scorso ha goduto di fama ed interesse nella contestazione e nei suoi esiti. Eros e civiltà è il suo saggio più rappresentativo, perché fornisce la chiave di volta di tutto il suo pensiero ed in particolare L’uomo a una dimensione. Sostiene in Eros e civiltà Marcuse: “Il principio della realtà si materializza in un sistema di istituzioni… La repressione è un fenomeno storico. L’asservimento efficace degli istinti sotto il controllo dei freni repressivi, è imposto non dalla natura ma dall’uomo. Il motivo per cui la società impone la modificazione decisiva della struttura degli istinti è quindi “economico”. “La teoria freudiana nella ultimissima fase è centrata sul conflitto tra istinti di vita (Eros) e l’istinto di morte. La sessualità conserva la sua posizione di predominio nella struttura degli istinti”. Proseguendo: “Durante la storia della civiltà che ci è nota, le restrizioni istintuali imposte dalla penuria sono state intensificate dalle restrizioni imposte dalla distribuzione gerarchica della penuria e del lavoro…Il principio del piacere fu detronizzato non soltanto perché esso militava contro il progresso della civiltà, ma anche perché militava contro una civiltà il cui progresso perpetua la dominazione e la fatica del lavoro”. Per cui “Gli uomini non vivono la loro vita, ma eseguono funzioni prestabilite; mentre lavorano non soddisfano propri bisogni e proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione”. Una coniugazione di freudismo e marxismo che ha dato origine a quel fenomeno di “liberazione sessuale” che purtroppo solo la diffusione dell’Aids ha in qualche modo temprato, ma non certo risolto.

Per Marcuse e i suoi seguaci italiani, magari del flebile pensiero, come affermava Carlo Augusto Viano, la lotta contro l’economia dominante dovrebbe consentire al principio di piacere, ovvero la sessualità di essere al centro della vita umana. Ma anche qui non è il “genere” (femminile/maschile) a prevalere” quanto piuttosto la dimensione del piacere che è indipendente appunto dal genere, che appare a Freud, come a Marcuse, parola vuota, perché non definisce né la realtà dell’individuo né quella sociale cui lo restringe, come ha ben individuato Jacques Lacan (La cosa freudiana, Einaudi, Torino 1972), il materialismo economicista.

Nella considerazione sociale organizzata nel mondo moderno e contemporaneo la distinzione di “genere” ha poco peso, perché nello Stato esiste il popolo e/o i cittadini.

A partire dalla prima costituzione ancora attiva, quella degli Stati Uniti d’America i termini maschi e donne compaiono solo negli emendamenti e precisamente “maschi” nel XIV – (1868) Sec. 2 – I rappresentanti saranno distribuiti tra i vari Stati secondo la rispettiva popolazione, contando il totale delle persone in ciascuno Stato, escludendo gli Indiani non soggetti ad imposte. Ma quando [in uno Stato] il diritto di voto per qualsiasi elezione per la scelta degli elettori per il Presidente e il Vice-Presidente degli Stati Uniti, i Rappresentanti nel Congresso, l'Esecutivo e i funzionari giudiziari dello Stato o i membri delle relative Assemblee legislative, venga negato ad alcuno degli abitanti maschi di tale Stato, che abbia ventuno anni di età e sia cittadino degli Stati Uniti, o gli sia in qualsiasi modo limitato, eccetto che per ribellione o altro crimine, la rappresentanza [di tale Stato] sarà ridotta nella proporzione con cui il numero di tali cittadini maschi è in rapporto con il totale dei cittadini maschi di ventuno anni di età in tale Stato”. Il termine “donne” nel XIX Emendamento del 1920, che concede loro il voto.:” Sec. 1 – Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato in ragione del sesso”.

Nella prima Costituzione francese, quella del 1793 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la differenza di “genere” non compare, ma solo: “Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge”.

Similmente nella prima Costituzione emanata in Italia, Bologna 4 dicembre 1796 e neppure in quella della repubblica Cisalpina del 19 marzo 17897 che all’art. III non “ammetta veruna distinzione di nascita, Né alcun potere ereditario” e art. 22:” La legge non ammette fra i cittadini altra distinzione fuori di quella che nasce dalla diversità dÈrequisiti costituzionali richiesti per la capacità delle diverse funzioni pubbliche”

Ciò che viene posto in rilievo è il cittadino, non l’appartenenza al genere, e così pure nello Statuto Albertino del 1848, dove è utilizzato il termine “madre”, quindi ci si riferisce ad una donna/femmina, per le questioni della reggenza in caso di erede minore, artt. 14;15 e 17.

Nella seconda Costituzione italiana, quella entrata in vigore il 1 gennaio 1948 con chiarezza all’articolo 3 si stabilisce che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La Costituzione Della Repubblica Italiana utilizza il termine “madre” una volta all’art.37 e il termine “donna” o “donne” negli articoli 48; 51 e 117. Si insiste particolarmente sulla parità fra “donne e uomini” ossia ambedue sono cittadini e quindi hanno apri doveri e pari diritti. Sì interesse è l’art.117 che afferma: “117 Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Ancora una volta non vi può essere alcuna differenza di “genere”., ma indipendentemente dal “sesso” in Italia vi sono solo cittadini italiani, minorenni o maggiorenni. La rimozione degli ostacoli che potrebbero discriminare vanno intesi sia per le donne, ma anche per tutti coloro che potessero trovare difficoltà, come le persone-cittadini disabili, nell’esercitare il proprio status di cittadini.

Provvedimenti legislativi centrali, regionali o anche delibere comunali non dovrebbero mai riferirsi al “genere”, ma solo alla rimozione degli ostacoli per fornire pari opportunità, ma queste non possono in alcun modo privilegiare un cittadino perché donna o uomo. Ciò, nonostante la moda imperante, che addirittura vorrebbe che il numero dei rappresentanti dei cittadini fossero stabiliti in base al sesso, come avviene per le preferenze, se due, una femminile e una maschile. In realtà il voto dovrebbe dirigersi ai migliori cittadini, forniti maschi e femmine di pari opportunità, non di vincolo di voto preferenziale. Per chiarire, è pari opportunità che non vi sia un numero maggiore di maschi o femmine nelle liste, ma non è pari opportunità costringere l’elettore (maschio o femmina) a votare obbligatoriamente un maschio e una femmina, dato che non possono esistere certo distinzioni di sesso tra i cittadini ed in particolare tra coloro che sono designati ad amministrare o a far parte del Parlamento. Per costoro deve prevalere, anzi essere vera ed unica distinzione,m prima di tutto l’onestà coniugata con la conoscenza, la competenza e l’abilità, secondo quell’antica prospettiva che i migliori debbono essere designati a governare e ciò non per il genere sessuale di appartenenza.

 

È di per sé semplice applicare la Costituzione, qualora non si navigasse “alla moda”, che tende a privilegiare la dimensione di genere, ma qui si apre una questione molto importante e che è proprio il frutto di coloro che intendono operare nella differenza di sesso. Oggi, dopo le raggiunte conoscenze operate dalla psichiatria. dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla psicanalisi e da altre scienze della psiche e da quelle sociali, il sesso non è più solamente inteso quasi esclusivamente nella funzione genitale, ma ha assunto una consistenza maggiore, dato che investe, per alcuni in modo totalizzante, tutta la personalità di un essere detto umano. A dir il vero nemmeno nei tempi antichi la sessualità era intesa solo nell’ambito riproduttivo, ma declinata nella dimensione dei sentimenti o del piacere (basti leggere gli epigrammi di Marziale o certi componimenti di Catullo).

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Canto V Inferno


La sessualità non definiva l’uomo, essa ne era una parte e nel corso dei secoli fino ad oggi si distingueva la dimensione degli affetti, dell’amore e quella del piacere, tanto che la sessualità se si svolgeva nell’amore coniugale era permessa ed accettata, mentre quella che aveva come fine il piacere era considerata negativamente. Ben lo dice Dante Alighieri, quando ricorda Paolo e Francesca nel canto V dell’Inferno e ci indica come l,’amore quando è piacere non conduce al bene, ma all’inferno: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte:’

Infatti, se la sessualità è solo piacere, allora non vi può più essere distinzione di genere, dato che esso è ricavato in modo diversissimi e indipendenti dalla dimensione maschio/femmina. Ne consegue quindi che essendo le differenze di piacere innumerabili, quasi solo individualizzate, allora non vi può essere considerazione né per il maschio né per la femmina. Lo Stato Italiano e non solo quando precisa che non vi può essere distinzione di sesso, andrebbe nella direzione sopra enunciata.

 

È di moda il “genere” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Ma, a ben vedere, questa riduzione della sessualità a dimensione edonistica individualizzata, è la dimensione unica dell’uomo oppure è necessario tenere conto della globalità dell’essere umano ? Questo interrogativo è prioritario, perché la riduzione prima e l’assolutizzazione della dimensione di genere e conseguentemente connessa alla sessualità quella del piacere, porta ad una prospettiva totalitaria nella quale non l’uomo come essere, ma il singolo come unica realtà diviene con la sua ricerca di piacere, il determinante e tale che si erge ad assoluto del mondo e richiede che tutto sia rispondente a quanto lui stesso esige. Una visione che il pensatore tedesco Max Stirner (Kaspar Schmidt) (1806-1856) ha con chiarezza individuato nel suo saggio L’unico e la sua proprietà:” "Io sono il proprietario della mia potenza; e tale divento appunto nel momento stesso in cui acquisto la coscienza di sentirmi Unico. Nell'Unico, il possessore ritorna nel Nulla creatore dal quale è uscito. Qualunque essere superiore a me, sia esso Dio o Uomo, deve inchinarsi davanti al sentimento della mia unicità, e impallidire al solo di questa mia coscienza. Se io ripongo la mia causa in me stesso, l'Unico, esso riposa nel suo creatore effimero e perituro che da se stesso si consuma; quindi potrò veramente dire: – Io ho riposto la mia causa nel nulla”.

 

Un passo avanti

Ciò che insegna Stirner è che non debbono più esistere definizioni a priori, ogni singolo decide da sé quello che vuole essere. Una radicalità superiore a quella di Nietzsche, parimenti “odiato”, perché distruttore della ragione e proprio dal marxismo, a partire dal fondatore, perché negatore della riduzione totalitaria dell’uomo a uomo economico e soprattutto perché esibisce una volontà non organizzabile. Vero è che qualche corrente del marxismo intenderebbe il comunismo come il raggiungimento dell’anarchia, ma la prospettiva di Stirner non è quella dell’anarchia, fatto politico, ma quella della distruzione dell’uomo, anzi della stessa definizione di uomo.

 L’uomo come essere non esiste più, esiste quello che il singolo intende essere. Così non due generi (maschile e femminile), ma il Mio genere e lo Stato, semmai possa esistere, non può far altro che accettare il Mio genere e acconsentire a tutte le sue possibili manifestazioni, perché qualsiasi repressione sarebbe negatrice della assoluta realtà del singolo.

 Non si tratta solo di fine del diritto e quindi della cosiddette pari opportunità di genere, ma della negazione dell’uomo. A tale fine operano i sostenitori del gender, che non riconoscono un’umanità, ma solo la singolarità e dimenticano di trarne quelle conclusioni che abbiamo indicate con le parole di Stirner.

 Una ripasso almeno della definizione di “genere” si rivela importante per non ritenere appunto genere una definizione parziale assunta a universale. Infatti il termine il genere, in quanto elemento primario della definizione, deve esprimere l'essenza del soggetto preso in esame. Così “uomo” è definito nella sua essenza, a differenza di tutti gli altri esseri, come essere razionale ovvero capace di imparare discernere oltre al “come” anche il “perché “ e la “causa”. Anche gli animali mostrano capacità intelligente e la evidenziano con la capacità della memoria, ma non hanno la stessa essenza dell’uomo. Infatti l’uomo altro da “animale” e l’indicazione dell’uomo come “animale politico “ va coniugata insieme a quella dell’essere che sa il “ perché” e la “causa” e non ridotta alla sola capacità di essere in molti (polis).

È di moda il “genere” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

 Platone e Aristotele

 

Fin dalla riflessione filosofica di filosofia greca con Platone e Aristotele si è ritenuto che quando si riguarda l’uomo, diremo il genere umano, lo si debba fare con una visione globale, teoretica, capace di comprenderne l’essenza, la sua causa prima, pratica ossia la direzione delle sue azioni orientate al bene e alla felicità e in relazione a ciò quanto egli può costituire nella relazione con i molti, ossia lo Stato, la giustizia e anche il benessere della propria casa, l’economia. Saremo capaci di tener sempre presente ciò o ci ridurremo ad ambiti parziali?

 Se il genere è ridotto alla dimensione sessuale e soprattutto a quella del “piacere”, chiediamoci, quale futuro se non quello del vantaggio del singolo e la distruzione del genere umano, ossia di un’identità superiore nella quale ognuno si riconosce. L’orizzonte della capacità umana di riflettere su se stessa può abbandonarsi al parziale, ma può saper anche ricondursi ad una visione universale nella quale riconoscere l’umanità che è in ciascuno di noi in tutti coloro che sono nostri simili e ciò senza confusioni, ma con quella capacità di distinguere che è propria dell’uomo che non corrisponde alla sola sfera della sessualità e del piacere che se ne può ricavare

 Di proposito non abbiamo richiamato la dimensione religiosa né quella cristiana che ha ben chiara, a parte qualche teologhetto in cerca di notorietà provinciale, la visione globale della persona umana (questa carne, queste ossa quest’anima, diceva Ildegarda di Bingen) e dei suoi fini che non sono mai riduttivi, ma sempre universali, né di quella islamica che certo non amerebbe il “genere” come viene proposto dai modaioli in vena ieri come oggi di apparire più che di essere.


nr. 09 anno XX del 7 marzo 2015

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