NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
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Il partigiano… dimenticato: Mario Dal Pra

di Italo Francesco Baldo

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Il partigiano… dimenticato: Mario Dal Pra

 Mario Dal Pra (Montecchio Maggiore 1914- Milano 1992) è stato uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Milano presso l’Università Statale, una scuola di filosofia che ha annoverato illustri pensatori. Fu fondata da Piero Martinetti e Antonio Banfi, dapprima presso l'Accademia Scientifico-letteraria e in seguito presso l'Università degli Studi di Milano (sorta nel 1924). Tra gli esponenti di questa scuola si annoverano importanti filosofi italiani del secolo scorso come Giovanni Emanuele Barié, Ludovico Geymonat, Enzo Paci, Mario Untersteiner, Giulio Preti, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Fulvio Papi, Franco Alessio e lo stesso Mario Dal Pra; altri che ancor oggi continuano l’opera di così illustri maestri. Accanto alla ricerca aperta a nuove frontiere e alla conoscenza di filosofi attivi nel mondo, molti suoi esponenti proposero riflessioni ed impegno nella costruzione dell’Italia uscita dal fascismo. Mario dal Pra fu tra costoro e nella sua vita, fino alla fine, l’ultima intervista è del 1992, sostenne la necessità di una coniugazione tra filosofia e vita associata nel solco della grande tradizione platonica che sosteneva la necessità di una ricerca continua, anche di soluzioni nella vita di uno Stato.

 Mario Dal Pra proveniva da anni di studio, ricerca ed impegno educativo a Vicenza, dove era docente di Storia e Filosofia nel Ginnasio-Liceo “A. Pigafetta” ed insegnava anche in quello della Dame Inglesi. Fin dal primo scritto, la sua dissertazione di Laurea (Il realismo e il trascendente) Dal Pra sostenne che il pensiero debba conquistare la realtà e, riflettendo su di essa, saper proporre il senso e l’anima della vita. Il suo lavoro di ricerca ebbe fino al 1943 varie direzioni con la grande costanza di riflettere sulle opere piuttosto che sui critici. Analizzò e comprese il fascismo che guardò con attenzione. In particolare quando esso intendeva fare del pensiero una direzione di vita perché tendeva “alla convenienza perfetta tra pensiero ed azione” e questo, sostenne, era importante soprattutto per i giovani che “tendono ad una preparazione sommaria alla vita, intesa come un aringo d’interessi materiali; molti nutrono nell’anima non la fede, religiosa e politica, ma lo scetticismo nelle grandi forze dello spirito.” Siamo nel 1942, ma proprio mentre riflette su questo, Dal Pra inizia quel cammino che lo porterà a diventare un partigiano con il nome di Procopio di “Giustizia e Libertà “ del Partito d’Azione e a combattere proprio quel fascismo che egli considerò negatore di quegli ideali che proponeva.

 Mario dal Pra, dopo la guerra si inserì nella vita culturale di Milano e pur non partecipando direttamente alla vita politica, militò, dopo la fine del Partito d’Azione, nel Partito Socialista Italiano, dando ampi contributi anche a livello giornalistico su “L’Avanti”. Continuò la sua intensissima ricerca nel campo della storica della filosofia, acquisendo meriti di ricercatore e di pensatore capace di aprire nuove prospettive nel campo storiografico, in quello della filosofia inglese e medioevale. Non venne mai meno al suo compito di docente e di educatore, sapendo bene che un bravo insegnante è colui che non ripete quanto appreso, ma che unisce alle conoscenze lo sforzo continuo di aumentarle, discutendole e approfondendole. Fu questa la sua direzione di vita che mantenne fino alla fine, quando, improvvisa, giunse la morte. Ma egli aveva provveduto, donando la sua Biblioteca all’Università Statale, Biblioteca di Filosofia, affinché fosse sempre a disposizione degli studenti e non un “scrigno”, destinato alla polvere. Con Vicenza mantenne costanti rapporti, non solo per motivi familiari, ma anche con l’Accademia Olimpica di cui fu membro e la sua città natale, Montecchio Maggiore, gli dedicò un Convegno. Durante il quale precisò, quasi testamento teorico, i tre obiettivi principali e dominanti della sua ricerca filosofica in sintonia con le altre correnti filosofiche attive nel mondo contemporaneo (cfr. In onore di Mario Dal Pra, Quaderni della Biblioteca Civica, Montecchio Maggiore 1988, p.10). Il filosofo indicò nell’ordine: 1) l’allargamento del tempo storico nelle più varie direzioni contro ogni esaltazioni dogmatica ed esclusiva del presente, per un dominio sempre più esteso della storicità e per una concretizzazione sempre maggiore dei suoi prodotti; ”2) l’affinamento critico sempre maggiore del compito conoscitivo della ragione contro ogni sua assolutizzazione e contro ogni esaltazione unilaterale e parziale dell’esperienza; 3) la valorizzazione critica della prassi e del suo universale concreto movimento storico, contro ogni assolutizzazione pratica e sociale e contro ogni chiusura dogmatica dell’iniziativa e della libertà.”

 Il catalogo delle opere del filosofo sarebbe lunghissimo, ci limitiamo, in relazione al presente intervento, a ricordare il suo testo La guerra partigiana in Italia: settembre 1943-maggio 1944, a cura di D. Borso; Presentazione di G. Perona, Edizione Nuova ed. ampliata,Milano, INSMLI; Firenze [etc.!: Giunti, 2009 e la Prefazione a S. Trentin, Stato, nazione, federalismo (Ed. clandestina, Milano, La fiaccola, 1945, rist. anast., Venezia, Marsilio, 2010. Sulla figura e l’opera restano fondamentali: M. Dal Pra-F. Minazzi, Ragione e storia, Milano, Rusconi, 1992 e F. Minazzi, Mario Dal Pra filosofo e partigiano: sulla genesi etico-culturale di una scelta civile antifascista,Vicenza, Accademia Olimpica, 2008. Oggi il pensiero di Mario Dal Pra è studiato e conosciuto per il grande valore della sua impostazione storiografica e non mancano contributi sulla sua figura ed impegno di educatore e di uomo dedito al bene comune, come hanno sottolineato diversi interventi al Convegno indetto in suo Onore dall’Università dell’Insubria a Varese nell’Ottobre 2014: La filosofia nella storia della filosofia e della scienza.

Il partigiano… dimenticato: Mario Dal Pra (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)La data decisiva nella vita del filosofo fu senz’altro il 1943; fin dal gennaio aveva iniziato a prospettare nuovi orizzonti con il piccolo ma denso saggio Necessità attuale dell’universalismo cristiano (ed. recente, a cura dello scrivente, Vicenza, Editrice Veneta 2005). Il testo faceva parte di una pregevole collana (Collezioni del Palladio) di saggi di riflessione ed impegno, edita con la cura anche di Antonio Giuriolo, per l’Officina tipografica Vicentina.

 

 Riflettere su questo filosofo e questo partigiano vicentino è importante perché la sua vita non è stata solo una presa di posizione, ma anche una precisa elaborazione sulla libertà e sulla necessità che vi sia sempre consapevolezza storica che sappia unire la riflessione morale all’impegno come cittadino, attraverso l’educazione ai più importanti doveri della vita. Non si tratta di accettare oppure no la prospettiva che ebbe Mario Dal Pra nella sua individuale prospettiva umana, ma di avere la capacità di conoscerlo e di dialogare con lui e i suoi pensieri. È questa la sua eredità culturale: la capacità di aprirsi al dialogo, che è prima di tutto conoscenza e non “pensare per prese di posizioni” Queste, frutto più spesso di ignoranza che non di sapere, erigono quelle barriere che oggi, come ieri, sono frutto di pensieri, chiusi nei piccoli stipi d’archivio delle menti incapaci si riflettere su questa semplice proposizione: non sempre ciò che non si conosce è meno importante di quello che si conosce.

 

1943

 Come abbiamo sopra riferito il 1943 è un anno deciso per Mario dal Pra non solo per gli scritti di quell’anno, ma per la sua personale deliberazione a rifiutare il fascismo e qualsiasi sua espressione nella prospettiva di un autentico rinnovamento morale della società italiana. Dopo la pubblicazione del saggio citato. seguono altri interventi importanti, tra cui Valori cristiani e cultura immanentistica, che sarà però pubblicato l’anno successivo nella collana Guide di cultura contemporanea, a cura di G. Flores D’Arcais, R. Mazzetti e G.Vigorelli per la CEDAM di Padova.

  Crediamo però che il saggio che indichiamo qui sia il più importante per comprendere il cambiamento del filosofo. Si tratta della conferenza tenuta a Todi il 2 maggio 1943 al Reale Istituto di Studi Filosofici: Ordinamenti economici e coscienza morale. (Cfr. Reale Istituto di Studi Filosofici di Perugina, anno III, resoconto n. 7. La conferenza fu registrata e dattiloscritta, ora è disponibile nell’edizione curata da E.I. Rambaldi nella “Rivista di storia della filosofia”, 2000, fasc.4, pp.625-670 con il titolo Et vos estote parati. Mario Dal Pra, La Vigilia).

 Il testo ci precisa un Dal Pra ancora più attento alla dimensione della coscienza morale e spirituale dell’uomo e in relazione all’economia, che il filosofo non considerò mai, in quegli anni, come realtà a se stante e, certo, nemmeno come “struttura”, per dirla con il K. Marx di Per la critica dell’economia politica. Ciò perché egli riteneva “l’attività spirituale come il valore primo, la fonte dei valori” e questo valore deve essere considerato “ coincidente con l’azione, in quanto non può esserci valore alcuno che non scaturisca dall’intimo della spiritualità e del suo svolgimento.”. Con precisa analisi della vita spirituale, connessa con l’azione, la prospettiva crociana è molto presente, il filosofo ben evidenzia che questa dimensione morale si riduce “sostanzialmente l’attività religiosa, lo spirito religioso. La donazione d’amore di libertà che facciamo ai nostri simili è l’edificazione d’un mondo migliore, d’un ordine divino. In ciò una coniugazione, tipica di questa fase del pensiero di dal Pra, dove la filosofia e la religione non sono ambiti separati, scissi, ma uniti nella dimensione di spinta morale, che è ciò che preme: “Ci sono pertanto delle istituzioni che debbono essere difese a qualunque costo, e nella cui difesa sentiamo impegnati tutti noi stessi, colla nostra coscienza morale; e mentre avvertiamo che il cedere nella difesa di altri valori non importerebbe per noi abdicazione morale, per quelle istituzioni della volontà morale non è affatto così: Ci sono dunque dei valori storici cui non bisogna sopravvivere, mentre ce ne sono degli altri cui si può sopravvivere. Né c’è alcun Dio o fato che ci pone, quali sentinelle, in un determinato angolo del mondo, c’è semplicemente la nostra volontà morale che ci assegna il nostro posto e che esige che sia difeso ad oltranza; né c’è, in queste lotte, un eletto da Dio che debba rendere vana la nostra difesa ed infonderle quindi un tono di remissione e di fiacchezza.”

 Ritengo queste parole l’atto preciso con il quale Dal Pra dichiara la sua svolta; svolta morale che abbandona quei valori, talora in precedenza considerati, ma che sono contingenza, non immanenza della coscienza morale nella vita di un uomo, moralmente conscio della sua dignità personale. Infatti: “lo sforzo morale della persona è appunto quello di accrescere il numero ed il valore delle istituzioni morali, di accrescere il contenuto della dignità da riconoscere alla persona umana, e di trasformare in istituzioni morali il maggior numero possibile di istituzioni di mera prassi. Dobbiamo quindi dare concretezza all’atto morale e ciò vale “naturalmente anche per il campo economico” perché le istituzioni economiche non sono materiale estrinseco alla coscienza morale, ma costruzione della coscienza morale.

Il partigiano… dimenticato: Mario Dal Pra (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) Dopo il 25 luglio e fine del fascismo Mario dal Pra nel rinato “Il giornale di Vicenza”, che sostituì la “Vedetta fascista”, pubblicò il 30 luglio l’articolo Ordine e libertà dove espone pubblicamente i suoi nuovi orizzonti; orizzonti chiari a ricordare il 1848 e l’anelito di libertà dei vicentini: “ La bandiera del nostro Risorgimento torna a sventolare gloriosa; tornano sulle nostre labbra i nomi di Mazzini, di Garibaldi, di Mameli, di tutti coloro che intesero la Patria come Libertà. […]Questa libertà che è ordine morale non si riacquista per decreto di legge, né per colpi di Stato; si riacquista solo per educazione, per formazione, per ferrea volontà ispirata agli eterni valori dello spirito. La libertà non è dunque dono, ma è conquista, faticosa conquista che riassume in sé tutte le conquiste della civiltà e della storia. Per realizzare tale conquista occorre essere pervasi dall’amore dell’idealità, dal desiderio di superare l’egoismo per unirsi a tutti gli uomini nella fraternità dello spirito. […]Dobbiamo farci autori di quest’ordine che si chiama libertà appunto perché ha la sua radice nell’interiorità. Quello che altri chiamò fin qui ordine era la compostezza della morte, l’uniformità di una maschera che tutti ci ricopriva e che tutti ci umiliava in un volto solo, senza palpiti e senza passione. Si trattava di ordine apparente e di disordine sostanziale. Oggi ognuno si trova impegnato di fronte alla propria coscienza, di fronte al proprio dovere: non si sente più servo, ma libero e quindi obbligato all’interiorità.” E quindi “facciamoci apostoli di quest’ordine nella libertà, in cui è divenuta lieta, anche ieri, la nostra giovinezza.” Un sentimento e una riflessione che svolgevano tutti coloro che iniziarono da quel momento una nuova strada anche con prospettive diverse da quelle di Mario Dal Pra, ma egualmente attente al bene comune, come fece Mariano Rumor.

 Dal Pra dopo l’8 settembre dovrà andarsene da Vicenza,(cfr. G.A. Cisotto, Nella giustizia la liberta: il Partito d'azione a Vicenza (1942-1947), Sommacampagna (VR), Cierre, edizione dell’Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea della provincia di Vicenza Ettore Gallo, 2010.). Ha scelto con chiarezza e tensione morale il Partito d’Azione; si stabilisce a Milano per sfuggire al mandato di cattura; subirà comunque due condanne, una a Venezia e un’altra a Milano. Con il nome di “colonnello Procopio” parteciperà, curando la stampa clandestina del Partito, alle vicende della guerra e dello scontro contro il fascisti e i nazionalsocialisti e ricoprirà incarichi delicatissimi nei processi dei partigiani contro fascisti e collaborazionisti.

 A Milano,nel dicembre 1943 prende contatto con Leo Valiani e Riccardo Lombardi. Da allora fino al 25 aprile ‘45 cura la stampa clandestina del PdA, col nome di battaglia di “colonnello Procopio” (nei ritagli di tempo invero, cura le Sententiae di Abelardo). Tornata la pace, fu professore al Liceo G. Carducci di Milano e libero docente di filosofia medievale alla Statale. Costituisce dal nulla un archivio della Resistenza a Sesto S. Giovanni (il futuro INSMLI), e nell’estate ’47 comincia a scrivere una storia della guerra partigiana. Nel dicembre 1947 ha la malaugurata idea di consegnare la prima tranche del lavoro (fino al giugno ’44) al gen. Raffaele Cadorna, (capo del Corpo Volontari Libertà, il braccio armato del CLN), che cassa il progetto. Ma non viene certo meno l’impegno morale di Dal Pra che prosegue nella vita scolastica e universitaria, e negli scritti di impegno, dove denuncia, senza mezzi termini, come la fine del fascismo non abbia portato un vero rinnovamento nell’apparato dello Stato e per questo mancherà quel cambiamento che lui, da partigiano, ma anche da filosofo, riteneva necessario per il nuovo Stato, rimarrà prigioniero delle vecchie logiche e degli interessi di parte se non di quelli individuali.

Il partigiano… dimenticato: Mario Dal Pra (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) La vicenda culturale e umana di Mario Dal Pra proseguì per tutta la vita con la visione di un necessario impegno morale nella vita e a questo egli in prima persona si attenne.

 Ricordarlo come filosofo è importante (Presentiamo Mario Dal Pra, l’uomo, il filosofo… vicentino “La domenica di Vicenza”, nr. 03 anno XX del 24 gennaio 2015), ma anche come “partigiano” nella sua città, dove compì la scelta che portò al 25 aprile, perché la storia o, meglio, la consapevolezza storica, non è mai unilaterale e soprattutto non ha paura di riflettere su eventi e protagonisti. Chi dimentica non è mai un buon storico e soprattutto non ha quella visione che Dal Pra chiedeva, ossia un impegno morale che alla fine è indipendente da qualsiasi visione politica. Questa è frutto della contingenza storica, mentre l’altra è quel richiamo perenne a essere uomini autentici a prescindere dalla collocazione del momento in cui determinati fatti avvennero. Ben afferma E. Garin: “È dovere dell’uomo ragionevole, sia di destra che di sinistra, rifiutare in partenza la falsificazione sistematica della storia (oggi di moda), distinguendo fra scienza (o cultura) e mediocre propaganda politica” (Intervista sull’intellettuale, Roma. Bari, Laterza, 1997, p.113) di cui purtroppo è piena la scuola, che non fa storia ma stantia retorica, perché non consoce e non intende conoscere gli eventi, ma si arroga la presunzione del giudizio.

 Ritengo che Vicenza, le sue Istituzioni e particolarmente il Ginnasio-Liceo “A Pigafetta” dove maturò la sua prospettiva nel Partito d’Azione, l’Anpi e l’ Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea della Provincia di Vicenza “Ettore Gallo”, abbiano un debito morale nel ricordare Mario dal Pra, filosofo e uomo dedito al bene comune, attraverso la sua scelta di militare nelle file della Resistenza non per sé, ma per l’Italia.

 

Appendice

 Riportiamo parti del testo di Dal Pra sulla guerra partigiana, disponibile anche in rete.

 

    I. LE ORIGINI DELLA GUERRA PARTIGIANA

1. II movimento antifascista in Italia nei primi mesi del 1943.

  Le forze antifasciste italiane uscirono da una posizione di attesa ostile nei confronti del regime fascista per entrare nell’organizzazione di una resistenza attiva nei primi mesi del ‘43. La posizione di attesa ostile aveva le sue ragioni nell’apparente solidità del regime mussoliniano e nell’isolamento in cui le forze antifasciste erano state costrette dalle misure di polizia; gli antifascisti più noti erano stati costretti a rifugiarsi all’estero o erano rinchiusi nelle carceri e controllati nei luoghi di confino; in tal modo mancava loro la possibilità di conservare e approfondire una rete organizzativa, di costituire un punto di richiamo e di propulsione per più ampie zone dell’opinione popolare.

  A favorire il passaggio alla resistenza attiva furono gli stessi avvenimenti bellici e gli scacchi subiti dall’Asse nella guerra contro gli Alleati. Mentre fino a quel momento l’opinione pubblica italiana aveva senza entusiasmo e senza convinzione seguito passivamente la guida fascista del Paese, i rovesci militari cominciarono a seminare un senso di disagio fra le varie categorie della popolazione. L’istanza delle persone di cultura per una libertà da sostituire al regime dittatoriale, già annegata nell’atmosfera conformistica durante la bonaccia, risorgeva ora più vivace di fronte allo schieramento imponente di forze nella nuova guerra mondiale e di fronte all’ingrandirsi del pericolo totalitario tedesco per tutta l’Europa. Anche nel popolo minuto delle città e delle campagne s’introdusse, oltre alla sfiducia nella vittoria fascista, il senso del pericolo connesso a una sconfitta, prospettata sul piano mondiale. La minaccia intanto si faceva vicina: il pericolo si profilava abbastanza imminente. Non si poteva più disinteressarsi delle vicende del Paese, non si poteva più stare a guardare. Ed ecco il serpeggiare di un disagio che in alcuni rimase allo stato di desiderio, mentre in altri si formulò ben presto come spirito d’opposizione.

  Fu appunto il costituirsi di tale opposizione nel fondo dello stato d’animo del Paese che consentì all’antifascismo latente e ridotto alla difensiva di passare all’offensiva. Si riannodarono le fila da lungo interrotte, si stabilirono contatti fra vecchi militanti e nuovi antifascisti; nelle città di provincia s’incontrarono e formarono dei piccoli gruppi; poi i gruppi di città vicine entrarono in collegamento; gli antifascisti andarono a cercarsi gli uni cogli altri; incominciò una prima circolazione d’idee, da cui derivò una configurazione iniziale di raggruppamenti politici. Nonostante i pregiudiziali dissensi fra coloro che pensavano necessario passare subito a un’azione concertata e coloro che ritenevano che il regime fascista si sarebbe dovuto lasciar rovesciare dalla forza stessa della storia, si ebbero le prime iniziative. Esse andarono dalla stampa e diffusione di fogli clandestini alla costituzione e ricostituzione di partiti e movimenti, dal consolidamento di collegamenti tra città e città e tra regione e regione alla discussione sul modo di procedere alla resistenza attiva contro il regime fascista. Militanti del Partito Comunista e del Partito Socialista ripresero i contatti coi vecchi compagni; forze nuove costituite da intellettuali e da elementi progressisti di varia formazione diedero vita al Partito d’Azione; con intendimenti di rinnovamento rispetto alla tradizione del P.S.I. sorse il Movimento di Unità Proletaria; circolò la stampa clandestina: il primo numero de “L’Italia libera” venne distribuito nel gennaio ‘43; nel giugno dello stesso anno venne diffuso nel Veneto il foglio clandestino “Giustizia e Libertà”.

  Nelle città industriali del nord il P.C.I. e il P.S.I. ripresero a lavorare fra le masse operaie, iniziando il chiarimento dei loro compiti nel grave momento che si attraversava; le persone di cultura si raccolsero nel P.d’A. al quale si avvicinarono molti persuasi della necessità di costruire la nuova democrazia italiana sulla base del socialismo liberale propugnato da Rosselli; anche gli esponenti del vecchio Partito Popolare, protetti dalle associazioni dell’Azione Cattolica, ripresero i loro collegamenti e la loro organizzazione.

  Nel seno di questo generale movimento clandestino antifascista si ebbero i primi dissensi: chi riteneva necessario sabotare la guerra fascista per togliere il popolo dalla soggezione alla Germania e dalla conclusione ultima della sconfitta; chi pensava per contro che si dovesse proseguire la guerra in cui, si diceva, era impegnata l’Italia, riservandosi di rovesciare il fascismo a guerra vittoriosamente conclusa. Non ci si nascondeva che la vittoria fascista avrebbe significato consolidamento del fascismo; d’altra parte la vittoria cominciava a sfumare inesorabilmente. Qualcuno pensava che l’esercito, o almeno una sua parte, avrebbe potuto realizzare al momento opportuno un grande capovolgimento nella vita politica del Paese, prendendo in mano la situazione e togliendo il potere a Mussolini e ai fascisti; non mancava chi poneva grande fiducia nella monarchia e nelle forze militari ad essa collegate. Il contare sulle forze popolari era un atteggiamento condiviso da pochi, per la difficoltà che un simile disegno sembrava implicare: com’era possibile che un popolo rimasto inerte per anni e anni trovasse il coraggio di ribellarsi, di prendere le armi, d’imprimere un volto alla situazione in conformità ai suoi interessi? Per questo appunto alcuni pensavano che soltanto dall’esterno sarebbe venuta una liberazione.

  È facile comprendere la difficoltà per tutte le forze antifasciste di trovare un terreno comune costruttivo in una così grande varietà di valutazioni e di atteggiamenti. Il terreno comune si venne lentamente enucleando in quanto le forze antifasciste, perplesse e trattenute da una sfiducia fondamentale nella possibilità di una vicina liberazione attiva e popolare, si vennero insensibilmente ponendo in attesa; le altre forze più fiduciose e attivistiche si trovarono affiancate le une alle altre nello sforzo comune. L’obiettivo che, in tal modo, si venne chiarendo fu il seguente: provocare la disfatta del fascismo e della guerra che esso combatteva, accelerare il moto di sfasciamento della compagine statale dittatoriale, tentare di inserirsi poi nella situazione che ne sarebbe risultata allo scopo di promuovere una condizione democraticamente attiva, che avesse per soggetto il popolo. Ma era difficile, nei mesi del ‘43 precedenti il 25 Luglio, credere a un facile rovesciamento della dittatura fascista; per cui al lavoro di coordinamento si affiancava sì un intenso lavorio di sistemazione ideologica e di obiettivi politici, ma senza possibilità di tentare sul terreno pratico una loro realizzazione concreta. Si preparava una situazione potenzialmente ricca di sviluppi, ma ancora chiusa in se stessa; le coraggiose espressioni di tale stato di tensione interna sono date dagli scioperi del marzo ‘43 nelle città industriali del nord, dalle manifestazioni dell’intolleranza studentesca di fronte all’albagia dei gerarchi fascisti; manca ancora tuttavia il piano dell’azione; si tratta di atti staccati, quasi di prove in cui si cimenta il coraggio e la capacità effettiva sul terreno rivoluzionario. Tuttavia da queste prove viene nuovo incitamento all’azione, anche se le schiere degli antifascisti sfiduciati e prudenti giudicano quelle azioni come inutili provocazioni a un colosso potente e massiccio.

  Lo sciopero di oltre 50.000 lavoratori a Milano e di altre migliaia nell’Italia settentrionale costrinse Mussolini a rivolgersi riservatamente ai gerarchi del direttorio nazionale del Partito Fascista raccolti in riunione segreta con le seguenti parole: “Voglio esporvi la situazione come si presenta nella sua dura e vera realtà. A Milano, a Torino e a Genova e in altre città dell’Italia settentrionale si sciopera, e il numero degli scioperanti a volte raggiunge cifre non pensabili. Gli operai di queste città hanno rifiutato di lavorare adducendo il pretesto che vogliono pane e non carte annonarie. Bisogna che io vi dica però che dietro lo sciopero economico c’è la speculazione politica: ma io sono risoluto a troncare qualsiasi speculazione anche se dovrò ricorrere a mezzi estremi, che in definitiva sono i più efficaci: far fuoco sulla massa degli scioperanti. Quel che è peggio poi è che non si è saputo porre un freno a quella caotica situazione, anzi devo far rilevare che perfino la Milizia, cioè la guardia armata, presidio della rivoluzione, si unì agli scioperanti. La Pubblica Sicurezza intervenne titubante. Si fecero circolare volantini invitanti gli operai a riprendere il lavoro; ma nessuno ebbe il coraggio di assumersi la responsabilità del momento e porre sui volantini la propria firma. Il Prefetto, il Podestà e il Questore di Milano avevano paura che lo sciopero si trasformasse in rivoluzione di massa, e intervennero lentamente e pavidamente. C’è dunque qualcosa di congestionato e d’incagliato nella macchina del fascismo, che dovrebbe invece funzionare come un campanello d’allarme”.

  Naturalmente “la notizia dello sciopero fu tenuta segreta e nascosta fuori Milano: tutti i mezzi furono adoperati ed escogitati perché non si propagasse, per evitare che l’esempio fosse contagioso. Già nella stessa Milano, all’infuori degli interessati che partecipavano allo sciopero, non era possibile ad altri sapere qualcosa, perché oltre agli arresti in massa fra i più agitati, la paura di parlare era perfino terrore: tutti sapevano benissimo di essere continuamente spiati e controllati da una massa infinita di agenti di polizia e di delatori, pronti a carpire in aria una frase per procedere al fermo e all’arresto di chiunque” (1).”

 

Conclusione

Gli scioperi del marzo ‘43 segnarono tuttavia l’inizio di quella lotta fra popolo e regime che doveva portare a quei cambiamenti che fecero nascere, dopo il 1945, l’Italia repubblicana, la sua Costituzione e l’istanza che uno Stato non è appannaggio di una forza, ma del concorso di tutte, secondo quella responsabilità personale e civile che è la condizione per cui esiste la democrazia stessa.

 

nr. 16 anno XX del 25 aprile 2015



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