NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Classicità e decadenza a Vicenza

di Italo Francesco Baldo

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Classicità e decadenza a Vicenza

Introduzione

Il valore del “classico” è nel vocabolario alla mano sinonimo di qualche cosa d’importante, che non tramonta. La prima definizione in tal senso è contenuta nelle Noctium Atticarum (XIX, 8,15) di Aulio Gellio del 159 d.C. che precisò il termine riferendolo ai poeti ed indicando la loro capacità di essere importanti rispetto agli scrittori proletari. Nell’Umanesimo e nel Rinascimento italiani la ripresa della cultura latina e greca fece emergere proprio il valore del classico che il filosofo Hegel definisce la compiuta unificazione di contenuto ideale e forma sensibile. Proprio l’Ottocento e la filosofia tedesca esaltò il grandissimo valore del mondo antico sulla scia anche delle conoscenze archeologiche. Una ricerca dello spirito (Geist) degli antichi si traduce nella ricerca di bellezza, di armonia interiore ed esteriore. Quando anche oggi ci rivolgiamo a qualcosa di classico lo intendiamo sempre come armonia di proporzioni, di sentimenti pure quando nelle tragedie ci appaiono situazioni di grave disarmonia. Ad esempio nell’ Edipo re di Sofocle, vi è il parricidio, l’incesto, ma le vicende determinate dal fato, chiedono che si risolva tutto in una nuova armonia, cfr. Edipo a Colono. La soluzione non è certo consona al nostro modo di sentire, ma fa riflettere eticamente. Il classico con la sua richiesta di armonia, è richiesta di bellezza, che è sinonimo di bene, come ricorda N. Cusano all’inizio del suo testo De pulchritudine (Vicenza, Editrice Veneta, 2011): “è da notare che il bene è chiamato kalòs (“bello”), il bello kàllos (“bellezza”), quasi a dire che bene e bello sono nozioni prossime. Ma il greco kalò (“chiamo”) in latino si dice voco; infatti il bene chiama e attira a sé, e così anche il bello. Inoltre, ciò che è bello è detto anche formosum da forma (“bellezza”), e speciosum da species (“bell'aspetto”), e decorum da decus (“dignità”): perché ciò che è degno è anche amabile e bello”. Il cardinale, ricordando l’8 settembre la nascita di Maria, madre di Cristo, la diceva, secondo la classica tradizione “tota pulchra”, perché ciò che è importante è sempre bello, lo ricorda lo scrittore del Genesi (I,31)”. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella”.

Non si tratta di leggere l’arte in genere solamente com’emblema del “classico”, perché la qualificazione può investire ogni campo, anche la moda ha una sua classicità, come la legatura dei libri, ma il punto più importante è che ciò che è appunto classico, non può né deve essere confuso con quello che è “a la page” che spesso è considerato “bello”, più per il coinvolgimento psicologico che non estetico, dove come i seguaci di J.F. Herbart, apprezzano soprattutto la fisiologia del piacere sensibile, tanto che T. Lipps ritiene che l’arte altri fini non abbia se non quelli del riconoscimento della vita nella sua realtà, nella rivelazione dell’individualità, nella commozione e liberazione da un peso e il libro svolgimento della fantasia (cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1958, p. 455). Così l’arte esce dalla prospettiva del “classico” per assumerne un’altra, manifestando la propria antitesi irriducibile, ossia non può esservi composizione tra ciò che è appunto classico e quello che viene indicato da Lipps. In senso marxiano, che fa da riferimento spesso ai negatori del classico, a favore del libero espressionismo, uno dei due termini deve essere negato, perché nega l’esistenza dell’altro. Il classico nega la libera espressione quindi deve essere negato come il servo deve uccidere il padrone. La via è di facile corso, basta dare libero sfogo a qualsivoglia pensiero e magari tradurlo in qualcosa che vien detto arte, ma questo dire, è appunto un dire, talora una chiacchiera, dell’artista o supposto tale.

Non si tratta più di ricercare che cosa sia bello o magari sublime come chiedeva I. Kant, che nell’arte indicava la via anche alla morale e quindi alla trascendenza, perché capace di dare all’immaginazione quella libertà che è conformità a leggi e non libero svolgimento rapsodico d’immagini che casualmente si formano nella mente. Come non ogni pensiero è di per sé filosofia, così non ogni immagine/rappresentazione anche teatrale, è necessariamente “arte”. Ma qui si consuma il destino amaro dell’arte oggi, che non è, come si diceva sopra, riconoscimento, ma espressione di chi dice di farla.

La via che l’arte ha intrapreso, è quella della sperimentazione sempre e comunque, che finisce in un niente, dato che è solo un attimo di pensiero, naturalmente fuggente. Coinvolge al momento, come un dolce scelto in pasticceria per il piacere immediato e non per la bontà. La bellezza autentica richiede che il soggetto, artista in questo caso, si domandi se quel che compie possa essere a un tempo bello universale. Non si pretende che si acquisisca il consenso universale, come accade per ciò che è classico, ma che almeno ci si ponga la domanda e come fanno gli scienziati, prima si provi nel chiuso dei laboratori e poi nella scena, quando i risultati siano almeno allo sperimentatore, certi. La sperimentazione non è mai, infatti, manipolazione, di dati precedenti, ma tentativo di vera innovazione. Non esisterebbe l’eliocentrismo se si fosse semplicemente intervenuto sul geocentrismo, come facevano gli astronomi medioevali, con l’equante (un ipotetico punto posto sulla linea degli apsidi di un pianeta caratterizzato dal fatto che la velocità angolare del pianeta misurata dal punto equante è costante nel tempo).

Il valore del classico è importante e non si riferisce solo a ciò che è antico, ma anche a ciò che in tempi recenti può essere considerato eccellente e punto di partenza. La classica teoria della relatività, che non è il relativismo, ha poco più di cent’anni, ed è classica. Il taglio di Fontana è divenuto un classico dell’arte moderna, ma non perché lo disse Fontana, ma perché fu riconosciuto come tale, seppur a fatica.

Il classico è il valore di una cultura e Vicenza l’ha sempre coltivato nel corso dei secoli anche nel suo Liceo, l’“Antonio Pigafetta”, considerato, un tempo, “la piccola Atene”.

Classicità e decadenza a Vicenza (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

Liceo Classico “A. Pigafetta”

 

Il mondo classico a Vicenza

Dopo le vicende che portarono alla caduta nel 476 d.C., dell’Impero Romano d’Occidente la cultura latina soprattutto non scomparve, ma iniziò quel lento processo di trasformazione che porterà alla cultura italiana, meglio dapprima alla lingua italiana (cfr. l’Indovinello di Verona, il Placito capuano, ecc.). La cultura, che, oggi, chiamiamo classica latina ebbe dimora per diversi secoli nei monasteri e nelle prime università per poi trovare diffusione con l’Umanesimo e l’invenzione della stampa a caratteri mobili in tutto il mondo. Si aggiunse a questa “riscoperta” anche quella del mondo classico greco che divenne il patrimonio culturale per antonomasia dell’Europa e anche di Vicenza.

Proprio ripercorrendo la storia delle istituzioni scolastiche vicentine, possiamo cogliere questo valore di cui, a Vicenza, il Liceo-Ginnasio “A. Pigafetta” è l’erede. Possiamo a buon diritto ricordare che fu il grammatico Quinto Remnio Palemone, maestro di Persio e Quintiliano con la sua Ars grammatica, a illustrare per primo nelle lettere proprio Vicenza, la città dove nacque e che era municipio, ascritto alla tribù Menenia. La vera storia delle istituzioni scolastiche a Vicenza inizia però con l’823 d.C. quando l’imperatore Lotario I, sulla scia di quanto aveva compiuto già da Carlo Magno, prescrisse che nelle maggiori città si aprissero scuole pubbliche. In queste era insegnata la grammatica e i rudimenti della lingua latina. Bisogna aspettare però Innocenzo II e il 1184 perché sotto la guida del vescovo Cacciafronte si aprisse una scuola di teologia. Inizia così la stagione illustre dell’università di Vicenza, cui la città dedicherà grande attenzione, fino al 1407, quando la Serenissima stabilì che l’università fosse solo a Padova. Comunque le scuole non cessarono a Vicenza ed ebbero illustri maestri di lingue classiche, da cui il greco Giorgio Trapezunzio, Ognibene Leoniceno, Oliviero d’Arzignano, Marc’Antonio Sabellico, Celio Rodigino, Filippo Beroaldo, Fulvio Pellegrino Morato, Francesco Maria Macchiavello, e tanti altri e nell’Ottocento G. Zanella, una tradizione che continua con i recenti C. Carli, A. Serafini, V. Fumarola, L. Agostinelli, M. Nicolli, E. Gallo, G. Giolo, B. Andretta R. Vicari, e coloro che ancora le belle lettere insegnano con grande capacità e dedizione nel Liceo. A costoro si aggiungono i matematici e i fisici B. Telch, F. Faedo, M. Pozzato Scanni, gli storici dell’arte F. Barbieri, R. Cevese e i filosofi illustri G. Zuccate, M. Dal Pra e G. Faggin.. Ma sono solo alcuni nomi; nelle lapidi del chiostro altri sono ricordati dall’affetto e dalla stima degli alunni: V. Trettenero, L. Salin, P.Cordenons, B. Bressan, G. Bonamici, S.Magrini, S.Scaramuzza, G. Bellavitis, D. Turazza e G. Alberti, G. Zuccate, G. Faggin anche alcuni allievi, che vinsero dei concorsi. Una caratteristica questa tipica del Liceo “A. Pigafetta”, dove l’attenzione per la formazione culturale e civile autentica degli studenti da parte di moltissimi docenti è sempre stata viva e da questi ricordata, lo soleva fare anche il più noto tra gli esponenti politici, uscito dal Liceo: Mariano Rumor.

Riprendendo, nel 1565 apre il Seminario diocesano, che soprattutto nell’Ottocento sarà un protagonista degli studi classici con Carlo Bologna e Giacomo Zanella, oltre che dell’anelito all’Italia Unita, insieme proprio agli allievi del Liceo. Nel 1583 i Padri Somaschi, che avranno la cura della Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, istituiranno una scuola di grammatica per i fanciulli, là dove nel primo dell’Ottocento avrà sede proprio il Liceo. Intanto continua quella preziosa relazione con il mondo classico che a Vicenza raggiungerà il massimo livello di espressione con Andrea Palladio e nelle opere di Cesare Campana, tra cui Le lagrime del Bacchiglione per la morte del C.te Antonio Valmarana, del 1577. Sarà il palladiano teatro Olimpico a dare nuova e continua voce alla rappresentazione dei testi teatrali degli antichi greci e romani. Infatti, è la tragedia Edipo re di Sofocle ad inaugurare una stagione di classicità che dura a tutt’oggi. Va ricordato a questo proposito che proprio Vicenza, dopo la fine della latinità, viene scritta la prototragedia in lingua latina, Achilles, da parte di Antonio Loschi (Patavini, Tip. Del Seminario 1843). Ed è sempre a Vicenza che è scritta la prima tragedia in lingua volgare, la Sofonisba di Giangiorgio Trissino, illustre per capacità diplomatica, ma anche per gli studi intorno alla lingua (cfr. Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986). La tragedia ebbe la prima rappresentazione con un apparato scenico ideato del Palladio nel 1562 nel salone del Palazzo della Ragione.

Anche i gesuiti tra Seicento e Settecento tengono scuola a Vicenza e la loro ratio studiorum, sempre con l’attenzione al mondo classico, soprattutto latino, forma i giovani vicentini. Quando la Compagnia di Gesù è soppressa, il Senato Veneto, lungimirante, nel 1774 apre nuove scuole in collegamento con la Pubblica Libraria, cioè la Bertoliana, che nel 1708 aveva aperto i battenti, grazie alla donazione di Giovanni Maria Bertollo. È questo un collegamento che durerà: quale alunno del Liceo non ha frequentato la Bertoliana, anche solo per apprezzarne le frequentatrici?

Dal 1790 nuovi ordinamenti per le scuole vicentine, coordinate dal preside Abate Giov. Antonio de Rossi per 16 anni, fino all’istituzione dell’attuale Liceo, la cui prima storia è delineata dal prezioso volume di T.Assirelli Le vicende del Liceo Pigafetta di Vicenza e l'istruzione liceale in età napoleonica ed asburgica, 1808-1866, Vicenza, Tip. Rumor, 1984 e La navicella dell'ingegno: i duecento anni del Liceo Ginnasio Antonio Pigafetta 1807/8-2007/8, a cura di AA.VV., Biblos, Cittadella e Vicenza, Liceo Ginnasio statale A. Pigafetta, 2008.

Fin dall’inizio il Liceo si distingue per la capacità di formare da gran parte del corpo insegnante, per l’impegno culturale, scientifico, politico, in senso nobile, i suoi alunni, che vedono riconosciuti i loro meriti in numerosi concorsi, indetti fin dall’origine. Una tradizione questa che continua e stimola sempre a fare meglio. Il Liceo di Vicenza ha quindi una storia importante e riconosciuta anche da S.A.I.R. Francesco Giuseppe che lo visitò nel 1857 e vide il busto di S.A. I. Francesco I ed è erede di una storia importante e, ritengo, che anche oggi, debba tenere in gran conto le parole che, al termine l’Autore del saggio Memorie antiche e moderne intorno alle pubbliche scuole in Vicenza, (Sala Bolognese (BO), A. Forni, 1978, rist. dell’ed. Vicenza, Tipografia Dipartimentale, 1815, p. 106), Ignazio Savi scrive: ”Possa la gioventù nostra animata da simili esempi e passati e presenti infervorarsi vieppiù nell’amor dello studio, aspirare ad una meta ancor più sublime, cogliere più gloriose le palme a decoro sempre maggiore della patria, e pel bene universale delle famiglie e dello Stato!” e nel solco autentico e sempre vivo delle radici della nostra cultura il “Piga”possa regolarsi, non su moderni filosofanti, ma nella riflessione sull’antico, capace di attualizzarsi e coniugarsi con il mondo contemporaneo, sostenendo il valore della tradizione. Lunga vita dunque al Liceo, perché dolce m’è pigafettare. (Per gentile concessione, tratto da Pigafettarm’è dolce, Vicenza, Editrice Veneta, 2007)

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EDIPO RE, Teatro Olimpico 24-30 Sett. 1995:Roberto Herlitzka, Franca Nuti, Moni Ovadia, Mario Scaccia, Progetto: Mario Mattia Giorgetti

 

Delineata così, seppur sommariamente, la presenza antica e contemporanea della cultura classica nell’istituzione scolastica più nota di Vicenza, vi è anche da ricordare il grande apporto alla cultura classica teatrale, dato dall’annuale Ciclo di spettacoli classici che vanta ben 68 edizioni, erede di quella prima rappresentazione dell’Edipo re di Sofocle che inaugurò il 3 marzo 1585, il teatro Olimpico. Andrea Palladio cui seguirà Vincenzo Scamozzi, e i soci dell’Accademia Olimpica diedero alla città e al mondo un edificio dal fascino irripetibile ed un unicum della cultura teatrale europea, pur dovendosi ricordare a Sabbioneta (MN) il Teatro all’antica delineato da V. Scamozzi.

“La cavea semiellitica coronata da un arioso peristilio abbellito da statue, l’orchestra ‘affondata’ nel terreno come nei teatri romani, la monumentale scenafronte animata da sculture si fusero nella mirabile interpretazione palladiana delle strutture del teatro classico, abbinandosi al fascino della «romanza»2 scena di città lignea plurifocale impalcata nelle prospettive scamozziane raffiguranti una Vicenza-Tebe specchio dell’anacronistico revival imperiale antiveneziano e revanscista attuato dalla committenza accademica. (cfr. S.Mazzoni Edipo tiranno all’Olimpico di Vicenza (1585), “Dionysus ex Machina”, nel web). Un teatro classico che conserva la sua natura e che con il teatro greco di Siracusa, quello Romano di Ostia e quello di Pompei, dovrebbe conservare la sua precipua natura con spettacoli degni del luogo, cosa che è anche avvenuta e avviene, ma a Vicenza e ad Ostia almeno con qualche forte dubbio!

Da notare che qualche esponente dell’amministrazione pubblica e qualche scrittore, Vitaliano Trevisan, vedrebbero bene l’abbandono della sudditanza del teatro moderno ai luoghi simbolo di quello classico. :”Forse occorre liberarsi definitivamente dalla sudditanza psicologica del teatro del nostro tempo nei confronti di questi edifici e smetterla definitivamente con la presunta filologia: attaccare i classici, metterli con le spalle al muro e spingerli al confronto serrato con le estetiche contemporanee, così immaginifiche e tese verso orizzonti ancora inesplorati. Loro, quei teatri, quegli spazi, sono là, aspettano: che ci si decida, che si superi il nostro imbarazzo di spettatori, che si tolgano di mezzo contraddizioni e scrupoli. Ne potrebbero uscire rinvigoriti sia gli spazi stessi – finalmente alle prese con una tragedia nuovamente condivisa, con spettacoli capaci di far piangere, di smuovere l’immaginario e l’interiorità del singolo spettatore su contenuti, forme, ambienti che siano tragici del nostro tempo – sia gli artisti, che non potranno più celarsi dietro ai pretesi vincoli della struttura tragica attica”. (S.Mazzoni Edipo tiranno all’Olimpico di Vicenza (1585), “Dionysus ex Machina”, nel web)

Ma quanta fatica si dovrebbe fare, quella che nel teatro in Italia hanno fatto, ad esempio, L. Visconti, G. Strehler, L. Ronconi, M. Scaparro, che cercò di fondare un centro per il teatro classico, proprio partendo da Vicenza e dai suoi spettacoli in Olimpico e altri, purtroppo circondati da molti, troppi, pretesi innovatori e sperimentatori, perfino nelle Giunte municipali.

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Irene Papas

 

Nelle varie proposte teatrali del Ciclo di spettacoli classici a Vicenza è transitato tutto il teatro italiano e non solo. L’avvenimento era breve con due stagioni, una a primavera e la più importante in settembre. Difficile nominare tutti gli artisti e le comparse, in genere alunni del Liceo Classico “A. Pigaetta”, ma come non ricordare Giorgio Albertazzi e Irene Papas? Perché dimenticare Elena Zareschi, Valeria Morricone o Pino Micol e ancora Leda Negroni, Adriana Innocenti, Salvo Randone ecc. ecc. Lo spettacolo era classico, le innovazioni poche e misurate perché il rispetto del testo e del luogo era sacro. La stessa parola “classico” sembrava quasi magica per le proposte e solo qualche rara incursioni era ammessa nel teatro moderno, come Le mosche di G. Sartre.

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Giorgio Albertazzi

 

I tempi cambiano e cambiano i gestori della cosa pubblica. L’Accademia Olimpica gestiva la stagione teatrale e si distinse il prof. Remo Schiavo con le sue scelte, dettate dal suo amore per l’arte e il teatro. Poi il Comune di Vicenza decise di assumere in proprio, anche in rapporto con la Regione Veneto (cfr. Teatro Veneto), la gestione ed infine il solo Comune con l’ Assessore alla cultura, oggi alla Crescita, responsabile della programmazione, collegato con la in Fondazione Teatro Comunale di Vicenza.

Negli ultimi anni il Ciclo di spettacoli classici è fonte di dibattito, perché più che alla tradizione di “classici” guarda allo “ sperimentalismo sui classici” o anche a quella di spettacoli “anticlassici”.

Pare, a leggere i cartelloni proposti negli ultimi anni, che il teatro classico per sopravvivere dovrebbe necessariamente aggiornarsi, sperimentare, percorrere nuove vie, per rendere “contemporanei” i testi degli antichi e non solo. Una necessità culturale o semplicemente commerciale?. Forse né l’una nè l’altra, perché a Vicenza non vi è quel gruppo di futuristi con in testa Tommaso Marinetti che criticò gli spettacoli classici a Siracusa nel 1921. La cultura non è mai stravolgimento dei testi, ma li rispetta nella loro unità e valore e se testi teatrali non li stravolge ad uso e consumo del regista o degli attori. Non è una necessità commerciale, perché non si deve fare necessariamente “botteghino”, visto che il Ciclo si mantiene per opera di Pantalone. Allora quale la necessità, per la quale si ricorre anche a spettacoli già prodotti in terre straniere?

Un’ipotesi è quella che dietro a tutto ciò non vi sarebbe che la necessità, quasi innata, di un aggiornare l’antico, di renderlo attuale, ma questo fu compiuto dei grandi registi del passato e suonerebbe “vecchio” oggi..

Un’altra congettura è quella che vede privilegiare lo sperimentalismo in teatro, ma anche questo è almeno “vecchiotta” come proposta; già vista e non se ne poteva più!

Infine un latente anticlassicismo, un’insofferenza, tipica di certi studenti del liceo classico, chiamati, loro malgrado, a tradurre i testi greci e latini. Vi è però anche quell’esigenza giovanilistica di provare sempre qualche cosa di nuovo, anche se trasgressivo. Ma non credo. Oggi non vi è trasgressione, ma tutto sembra essere lecito, perché il singolo decide che cosa sia o non sia per lui. Il problema è che se il singolo decide di esprimersi in casa propria, allora la sua libertà è vincolata alla sua coscienza morale, se l’ha, ma quando si spende il denaro di tutti, allora è dovere pubblico, se non anche morale, quello di chiedersi se sia un bene, almeno comune, ciò che si fa con il rispetto a Pantalone.

Se, invece, si considera che agli amministratori tutto è possibile, per via della loro personale libertà di espressione, allora tutto può essere compiuto, perché con le parole, quei sottilissimi pugnali, come dicevano i Sofisti, tutto si può giustificare. In fondo dietro a ciò vi è quel pensiero sulla libertà, tanto di moda oggi, che si riassume nel: “Faccio quello che voglio”, ma dimentica, intenzionalmente, che “essa cessa dove inizia la libertà degli altri.

Per questo sin dall’epoca classica, gli uomini si sono dati ordinamenti e leggi, proprio per non lasciare all’arbitrio di chi detiene il potere, anche solo amministrativo, di fare quello che vuole lui.

 

Vicenza ha una tradizione valida di classicità, pensarla e ripensarla e non farla decadere è compito dei suoi cittadini e in particolare degli Amministratori avendo presente quanto afferma, citato da M. Scaparro, Peter Brook: «”se dovessi fare solo due regie all’anno vorrei mettere in scena un testo classico con gli occhi di un contemporaneo e un contemporaneo con gli occhi di un classico». Nel 1996, ad esempio, il programma dell’Olimpico prevede il Lorenzaccio di De Musset (regia di Maurizio Scaparro), il balletto Don Giovanni di Mauro Bigonzetti (ispirato a El Burlador de Sevilla di Tirso de Molina), alcuni Entremeses di Cervantes diretti da José Luis Gómez e Rosario Ruiz (Teatro de la Abadia di Madrid), l’Edipo Rey di Sofocle — letto dallo stesso Gómez nella splendida traduzione di García Calvo — Edipo nei «Dialoghi con Leucò» di Cesare Pavese e le sceneggiature dei film Edipo e Medea di Pier Paolo Pasolini, lette da Pino Micol e Valeria Morioni”.

Questi spettacoli piacquero al pubblico.

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Valeria Morriconi



nr. 33 anno XX del 19 settembre 2015

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