Il Settecento si chiude con due prospettive sulla libertà, quella kantiana e quella della riduzione d’ogni realtà umana a politica, nel mentre continua la sua presenza la visione cristiana sia quella della Chiesa Cattolica sia quella del variegato mondo della riforma, cosiddetta protestante.
La prima considera la libertà come idea regolativa della vita e nell’imperativo categorico costituisce la legge per la realizzazione della stessa. Ogni soggetto è chiamato a far propria la legge, in considerazione del suo pensarsi “libero” di operare come se che compirà sia ad un tempo una norma universale di bene per tutti gli altri uomini. Un preciso rigore che accompagna la quotidianità e pone l’uomo capace di ragione che l’assume come vantaggiosa per il fine morale, ossia il Sommo Bene. Infatti, “se la natura umana è determinata ad aspirare al sommo bene, si deve ammettere che anche la misura delle sua facoltà di conoscere, e specialmente la relazione di queste facoltà, nella quale si riconosce l’unità del tutto nella prospettiva di un accordo conveniente a questo scopo”. (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. F. Capra, rev. E. Garin, Bari, Laterza, 1970, p. 182). Certo non possiamo avere una certezza di tipo matematico, ma la ragione pratica pensa una fede che “è derivata dalla stessa intenzione morale come una determinazione libera” (Ivi, p., 182) che consente “di sbarazzarsi dell’importunità violenta delle inclinazioni, in modo che nessuna affatto, neanche quella che ci è più cara, abbia influsso su una risoluzione, per cui ci dobbiamo ora servire della nostra ragione”. (Ivi, p.199). Questa riflessione, pur apprezzata da molti, non è stata però veramente seguita, anzi la principale critica, quella di formalismo dell’etica kantiana, m ha prevalso, dimenticando che proprio il pensatore tedesco intendeva per “forma” non un’astrazione e nemmeno un fariseismo, ma una modalità alla quale riferire le possibili azioni da compiersi, (cfr. Parte XX de Il grillo parlante, “La domenica di Vicenza”, nr. 25 anno XX del 27 giugno 2015).
La libertà ha avuto anche la pregnante elaborazione illuministica sfociata nella Rivoluzione francese. In essa la liberté è una condizione politica che lo Stato elargisce ai cittadini, ne detta le regole e i limiti, oltre i quali nemmeno la coscienza può andare. Lo Stato è l’unico riferimento ed esso si costituisce come “liberatore” dallo Stato precedente, quello assoluto. Solo l’uniformarsi alle leggi è vera libertà, perché essa coincide con quanto, in tutti i settori, stabilisce lo Stato stesso. Senza difficoltà possiamo parlare dell’origine dello stato totalitario proprio nella concezione che i rivoluzionari francesi si diedero e costruirono sia nella I Repubblica, sia nel Direttorio, nel Consolato ed infine nell’Impero. La dimensione democratica non fu altro che il riconoscimento che lo Stato era solo il popolo dei cittadini, e non vi dovessero essere altre divisioni, quelle che si chiameranno “di classe”. Il dibattito per le eventuali decisioni per lo Stato non poteva avvenire che all’interno di quanto lo Stato, mediante una Costituzione, assunta spesso, senza consultazione dei cittadini, decide attraverso le mediazioni dei politici. Tutto in conformità ad una Costituzione che altro non è che un’espressione politica, presa secondo la volontà della maggior parte, dei politici. È soggetta a cambiamenti per gioco politico e ha come scopo principale la conservazione dell’assetto politico stabilito. Infatti, una Costituzione non può essere modificata che per intervento di coloro che gestiscono il potere politico e non per decisione dei cittadini, o per insurrezione di una parte, spesso violenta, di cittadini, come in Russia. Anche la presa di potere politico dittatoriale non sempre ha modificato la Costituzione, questa è stata utilizzata a proprio scopo accentuandone alcuni aspetti, com’è avvenuto per il Regno d’Italia o la Repubblica di Weimar.
Ciò che però è costante nella visione della libertà inaugurata dalla Rivoluzione francese è che non esista una libertà indipendente dalle condizioni che il potere politico detta per essa. La cosiddetta libertà individuale, diviene la libertà della propria coscienza, che si può manifestare solo entro i limiti stabiliti dalla legge; cfr., ad esempio, Legge 25 giugno 1993, n. 205 della Repubblica Italiana che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, considerata totalitaria, ma non quelli riferibili all’altrettanta visione totalitaria del comunismo, come ben ha insegnato Hanna Arendt nel suo Le origini del totalitarismo. La diversità dei modi con i quali si esprime il totalitarismo, ma bisogna ricordare che Gulag e Lager sono stati predisposti per negare perfino la vita di coloro che non erano adeguati al potere politico dominante, non ne inficia la natura che è identica nella sostanza.
Proprio quest’ultimo esempio sottolinea come la libertà sia possibile entro la legge e che la legge non abbia più come fine la giustizia, realizzazione del bene civile, ma l’affermazione di una particolare visione dello Stato. L’unica garanzia, che una parte non possa sempre immediatamente prevalere, è la Costituzione, ma il gioco politico consiste proprio nel piegare la Costituzione alla propria visione politica, in un dominio incontrastato dei sofismi verbali da un lato e degli interessi materiali dall’altro. In questo contesto politico non è la ricerca della migliore soluzione per uno Stato, ma il maggior vantaggio, anche in termini di solo “dominio” di coloro che detengono il potere, che non siede solo nelle aule parlamentari, ma nel governo e nelle sue propaggini burocratiche, che viene costituita al servizio del potere stesso e della magistratura la cui indipendenza dal potere parlamentare è solo una favola, dato che essa deve applicare quanto le leggi affermano e queste sono il frutto del potere politico, legislativo in primis e di quello esecutivo: E’ sufficiente ricordare come le leggi spesso diano al potere esecutivo la decisione di porre in essere proprio le leggi, mediante Decreti Legge o Ministeriali.
La tanto sognata indipendenza dei tre poteri dello Stato che Montesquieu elaborò Spirito delle leggi, non ha avuto una vera realizzazione, ma è una ripartizione del potere dello Stato possibilmente tra esponenti della stessa visione politica. Una qualche indipendenza della magistratura, ad esempio in Italia, pare frutto dei concorsi per l’accesso a questo potere, ma molti sono i dubbi che circolano al proposito o sul ruolo di supplenza legislativa esercitata spesso dalla Corte Suprema, la Cassazione. Il giudice tende quindi ad una tecnica di riferimento per la società che intende ottenere o sanzionare una condotta dei cittadini mediante lo spauracchio della misura coercitiva, in realtà perché vi sia un adeguamento alle leggi, ma queste non hanno per fine quello morale, ma solo quello del potere politico e pertanto la magistratura si apre alla sua politicizzazione, ma non potrebbe fare altrimenti.
Con la Rivoluzione francese, l’autorità politica non comanda ad uomini liberi per il fine della perfezione nella virtù morale, ma stabilisce quello che è conveniente a chi detiene il potere. A fondamento non vi è la libertà dell’uomo sia che viva da solo o in società, ma essa è posta come diritto che lo Stato stabilisce, cfr. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino artt.2,6,7,9 e 26 e nell’Atto Costituzionale dalla Repubblica Francese nel 1793, agli artt. 120,121 e 122. che aprì le porte al Terrore di Robespierre. Diritti ampi, ma inficiati dalla dimensione di una visione adatta al tempo, ossia alle condizioni di coloro che in quel momento detenevano il potere, modificabili da loro stessi, come fu la Costituzione del 1799, la quarta nel giro di sei anni. La novità di quest’ultima è che fu sottoposta a plebiscito, ma essa era entrata già in vigore e la consultazione è sospettata di broglio. Un metodo che chiedeva però solo la ratifica di quanto deciso, non il reale coinvolgimento popolare.
Dal punto di vista del diritto costituzionale, non vi è un principio fondativo, che trascenda il complesso delle norme e sia di riferimento etico, ma il diritto si fonda su chi detiene il potere. Con chiarezza afferma M. Bettiol, Metafisica debole e razionalismo politico, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2002, p.119: “Il primato comporta che tutto deve essere definito dalla politica. Il criterio ultimo di riferimento non è dato da un criterio filosofico, ma ideologico, operativo, per cui è malvagio chi si oppone al divenire della storia. Il massimo della malvagità è essere reazionari, “perché l’unica certezza – diceva A. Del Noce – che ora rimane è quella che l’etica non può altrimenti definirsi che come partecipazione alla marcia del progresso”. Questo è dettato dall’orientamento di chi detiene il potere e dei vantaggi, ad esempio elettorali, che personalmente o la sua parte può ottenere.
La libertà proclamata, è solo libertà politica del cittadino, l’uomo rimane nella sua complessità estraneo e ciò che non è normato è l’unico ambito della sua libertà. Lo Stato, però, detta norme su tutti gli aspetti individuali e socio-politici, pertanto non vi è che un margine, difficilmente individuabile di libertà. Infatti, l’uomo non è ordinato alla comunità definita da una Costituzione, la sua vita, sociale necessaria data la sua mancanza di totale autosufficienza, per realizzarsi, non lo costringe a questa, ma lo fa incontrare e nella relazione contribuisce alla realizzazione della persona nella finalità morale. San Tommaso d’Aquino, sulla scia di Platone e Aristotele Aveva ben chiaro questo, ma la distruzione operata dall’Illuminismo della prospettiva metafisica, ha finito con il ridurre l’uomo a solo condizione terrena e del presente, nella quale chi detiene il potere non dipende che da se stesso, solo casualmente le elezioni possono toglierlo, ma anche chi lo sostituisce resta comunque figlio di questa mentalità, che, ripetiamo, è ideologica, perché fa prevalere l’aspetto politico sulla visione globale dell’uomo. Infatti, lo rende “schiavo” da libero, perché quello che lo determina non è più la sua natura libera, ma quanto il diritto ha stabilito.
Di contro a questa visione permane quella del mondo anglosassone e della cristianità cattolica. Nel mondo anglosassone vi è continuità, eccettuato D. Hume che sostiene l’impossibilità di derivare il dover essere dall’essere e pertanto le azioni dell’uomo, anche in sede politica, non possono esser frutto d’altro che della contingenza.
Le elaborazioni che si erano compiute nei periodi delle due rivoluzioni inglesi, dalla riaffermazione della tradizione risalente alla Magna Charta Libertatum e dalla riflessione di J. Locke, in particolare, permangono, anzi collidono proprio con le elaborazione del periodo della Rivoluzione francese. Lo Stato nella visione che esaminiamo, non interviene mai nella sfera della libertà individuale, tranne che nel caso in cui questa si rapporti o collida con quella di un altro individuo. La magistratura ha un ruolo di giudizio e non di semplice applicazione delle procedure stabilite in relazioni alle leggi approvate. In questo contesto matura il valore della coscienza individuale rispetto a quella della società o delle eventuali “formazioni sociali” nelle quali si vive. Essa, la coscienza, è libera e indipendente, lo Stato non può che garantirla e proteggerla, salvo la condizione che essa infici un’altrui libertà di coscienza. Vi è una precisa tensione all’equilibrio tra le parti sociali e lo Stato assolve questo compito. La politica non ha una dimensione ideologica cui riferirsi, ma più semplicemente ha il ruolo di organizzare l’incontro tra gli individui, senza la pretesa di avere un riferimento fondamentale. L’individuo fa riferimento a se stesso e nel rispetto delle alterità svolge la propria vita. Non ha altro riferimento al quale ubbidire, tranne quello posto da se stesso, anzi viene considerato negativo quando questo riferimento venga anche solo proposto da realtà esterne, come avviene, ad esempio nella Chiesa cattolica, che è avversata più che per i temi teologici o morali, per quella considerazione, risalente allo scisma inglese voluto da Enrico VIII Tudor, che la legge come organismo politico. Analoga avversione fu per i quaccheri, colpevoli di avere una dimensione non individuale della scelta religiosa ma collettiva e quindi tendenzialmente politica.
La libertà è condizione dell’individuo, di per sé assoluta, se non vi fosse la necessità della relazione con altri o il pericolo di violenza reciproca (cfr. homo homini lupus di Th. Hobbes). Vale solo la coscienza individuale, pensata libera, ma in realtà questa libertà è esteriore, dato che l’uomo, ogni singolo uomo è nella predestinazione divina e pertanto non è ontologicamente libero, ma agisce secondo il volere proprio. Se ciò è in qualche modo condizionato dalle leggi dello Stato, possiamo parlare di un’esigenza di responsabilità di tipo morale, ma si è aperta anche un’altra via, quella del libertino: se sono predestinato, non importa se l’esito sarà la dannazione o la vita beata, io posso compiere tutto quello che voglio senza alcuna preoccupazione che quella di avere il mio consenso ed eventualmente quello di un altro individuo che partecipa alla mia azione.
Nell’ambito del mondo cristiano due sono le prospettive, quella che si richiamano alla libertà come libero arbitrio, il mondo cattolico, e quella come servo arbitrio, tipica del mondo riformato, pur con necessarie sottolineature visto la vastità delle posizioni.
La tradizione cattolica sostiene la libertà come dignità ontologica dell’uomo (l’uomo è libero per natura), ed essa non è soggetta né alla dimensione ideologica, che è sempre l’esaltazione di una parte rispetto al tutto, né a quella della volontà che sempre più nell’Ottocento è intesa nella prospettiva delle scienze psicologiche, che nascono e si diffondono proprio in questo periodo.
La visione dell’uomo nell’ambito della Chiesa cattolica è precisa e ad essa si riferiscono tutti gli esponenti siano essi chierici o laici, filosofi o teologi; quello che nella visione della libertà importa è che l’uomo ha il desiderio del bene, che non possiede, ma agisce in modo da poterlo realizzare e teleologicamente raggiungere nella contemplazione di Dio. Nella coscienza, che è consapevolezza della libertà e quindi della necessaria deliberazione verso il bene, l’uomo agisce e nel contesto ecclesiale accoglie quanto il contesto stesso indica non con una visione parziale, a globale che richiede il concorso di tutti in relazione alla Sacra Dottrina, espressa della Bibbia, al Magistero e alla Sacra Tradizione. Tre riferimento imprescindibili, ma che sono accettati per deliberazione, ossia responsabilità del lume naturale alla luce della fede. Non si tratta di “una scelta”, questa implica l’equivalenza tra quanto è sottoposto all’opzione, ma di una decisione personale, che obbliga chi la compie e non può mai essere imposta.
In tempi recenti, 1991, con chiarezza ha sostenuto J. Ratzinger: “Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte dell’opinione dominante”, come fece Tommaso Moro("Il Sabato", 16 marzo 1991). L’uomo vive e considera la libertà come il dono più prezioso - il maggior dono che Dio fece all’uomo, ci ricorda sempre Dante - e sa che l’autorità, se veramente tale, propone e dispone delle possibilità (permessi e divieti) affinché nell’esercizio libero della coscienza, possa distinguere e deliberare per il bene. (cfr. il mio in “La Domenica di Vicenza” nr. 04 anno XIX del 1 febbraio 2014)
Nell’Ottocento proprio la riflessione sulla libertà di coscienza avrà un preciso capitolo, che andrà approfondito.
Max Stirner
Il quadro del pensiero ottocentesco, che prosegue anche nel XX secolo, è riconducile a queste tre prospettive, compreso l’idealismo soprattutto di G.F. Hegel e seguaci ma si affaccerà una nuova considerazione, che, alla distanza, appare oggi come la vincitrice, è quella che nega da un lato, secondo la tradizione illuminista, la prospettiva metafisica e o religiosa, ma anche quella politica della Rivoluzione francese, che costituirà il fondamento dei totalitarismi (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo, ecc.), ma pure di quella libertà di coscienza che dovrebbe sempre temprarsi nella relazione con altri individui; quel liberalismo che da un lato è antitetico al totalitarismo ma che ha in sé il limite dell’assolutezza dell’individuo. La scoperta, del singolo, troverà nel pensiero di Max Stirner, più che in quello di S. Kierkegaard, la più completa elaborazione. Un mutamento che pone in chiara evidenza che ciò che muta è la visione della natura e dell’immagine dell’uomo. Proprio questo è il segno distintivo del Novecento, dove la libertà è indipendenza dagli altri se non contrapposizione. Il risultato al quale si sta pervenendo è che l’arbitrio del singolo debba essere sempre e in ogni modo accolto, anzi lo Stato, se proprio deve esistere, altro non può fare che essere il garante d’ogni singola volontà, per la quale deve pure predisporre una legislazione adeguata, che si riduce all’unico articolo l’espressione: quanto vuole – segue l’oggetto - si accetta e si svolge come vuole il singolo!
nr. 39 anno XX del 31 ottobre 2015