Venti di guerra, della terza guerra mondiale, si affacciano oggi alla nostra riflessione. Ne ha parlato per primo il papa Francesco fin dal suo insediamento. Da quel momento vi è stato un continuo progresso dei conflitti sia quelli tra gli Stati sia quelli all’interno degli Stati e sia in quel fenomeno che chiamiamo “terrorismo”, ma che, in realtà, è una guerra condotta con protagonisti e modalità differenti dalla guerra che vede in campi gli eserciti, comunque organizzati a livello centrale.
Le ragioni dei conflitti, secondo una riflessione che si è consolidata, dipendono solo ed esclusivamente da ragioni politiche che possono portare ad un conflitto. Le stesse questioni strategiche, che, un tempo, erano una delle condizioni per muovere guerra, sono oggi abbandonate. Tutto è politica, ma in realtà l’affermazione è che tutto è economia. La questione del petrolio spinge alla guerra, ed insieme con questa la volontà imperialistica mai sopita di molti stati “occidentali”. I due fattori che sono addotti come cause della possibile, ma scongiurabile guerra, risentono d’impostazioni precise, che riducono tutta la complessità sempre e comunque ad un fattore economico. Tale riduzionismo, che spesso si sposa con questioni anche locali, secondo gli interessi di parte, assume nel preciso contesto di una possibilità bellica, una visione che non dibatte intorno al fondamento stesso delle azioni dell’uomo. Il problema della guerra, della stessa economia, è in primo luogo una questione morale, perché dalla ricerca del bene dipendono le possibili azioni. La visione riduzionista invece, considera una parte per il tutto; è questa la ragione della non autentica credibilità di certe prospettive, essa appaiono strumentalizzazioni di posizioni i cui fini sono, come già affermato, nella prospettiva d’azioni politiche locali. Oggi, lo attesta il terrorismo di matrice islamica, il conflitto dipende più da ragioni che chiamiamo ideologiche, che non da questioni economiche, le quali vengono esibite e spesso considerate le uniche, ma che hanno invece un ruolo secondario. L’entusiasmo che molti giovani, nati e cresciti in Europa e non solo, dichiarano per il califfato ci debbono far riflettere, in quanto non sono mossi da sete di denaro, ma da convinzione e trovano, magari in interessati capi, le indicazioni per essere protagonisti di una nuova storia. Si ricordi come i giovani nel cosiddetto “Sessantotto” si entusiasmarono alla nuova direzione che doveva prendere la storia, ma poi comandarono i “soliti” della politica ed in particolare chi utilizzò quei giovani e non furono i movimenti extraparlamentari, ma il Partito Comunista che nel 1978, cfr. Teorema Calogero a Padova, se ne disfò per i propri fini di potere. I “più attenti” per non dire “i più furbi” dei giovani ben s’inserirono nelle maglie del potere e magari qualcuno, dopo aver indicato nuove prospettive anche solo teoriche, ma non in linea con il partito, finì tesserato.
Quando si riflette sulla guerra, una delle azioni più terribili che l’uomo compie e con la quale tutto è sempre perduto, è necessario considerare che anche in caso essa, come tutto l’operare dell’uomo, fa riferimento alla morale e alla ricerca di bene che essa pone, come superiore a qualsiasi altra prospettiva, ivi compresa quella dell’utile che se è necessario alla vita materiale dell’uomo, non è il fine dell’uomo.
La morale entra in gioco, dicevamo, quando si parla di guerra. Le posizioni che considerano la guerra o il divenire, come Emanuele Severino (cfr., La guerra, Rizzoli 1992) o Umberto Curi (Pensare la guerra, Dedalo 1985) non riescono a porre autenticamente la questione della guerra, perché la prima sostiene che la guerra è sì una follia, ma questa follia, che è la razionalità dell’occidente, risulta inevitabile, proprio perché è il divenire, il conflitto la madre di tutte le cose, come sosteneva il filosofo greco Eraclito. Più interessante la seconda, perché tenta, non riuscendovi, attraverso la riflessione intorno alla politica di sostenere che al di là delle basi della tradizione marxista, è possibile una “maturazione di un orientamento generale di cultura politica della pace. ” Partendo dalla differenza tra guerra, che è sempre capitalista è insurrezione della classe operaia, sempre legittima, U. Curi ritiene che la pace possa essere uno strumento di sfondamento della forma attuale del politico, un mezzo capace di rimettere in movimento una situazione altrimenti in chiosata dal concorso contraddittorio dell’epoca nucleare e della remissività pacifista. In effetti, la pace è assunta come nuovo elemento per la riappropriazione del politico da parte della classe operaia, Una visione che riduce il problema pace-guerra nuovamente al problema politico del conflitto di classe e, leninianamente, l’elemento anche religioso e borghese della pace, può diventare strumento utile per una rivoluzione, che non può essere affidato alle incertezze di uno sviluppo incontrollabile della dinamica conflittuale. Il partito, sembra suggerire Curi, deve condurre le dinamiche sovversive presenti nelle frange estremizzate.
Queste posizioni esprimono visioni comunque di conflitto, dimenticano la dimensione della morale, che come sosteneva gia Sant’Agostino (Quaest.in Heptateuchum) a proposito della guerra che, quando pensata, non si deve obliare che vi è un bene universale che interessa tutta la grande famiglia del genere umano. Le esigenze di questa più vasta comunità umana devono avere il loro peso, fino a prevalere talora contro gli egoismi delle particolari sovranità territoriali. Questa direzione morale è stata seguita anche da altri illustri pensatori come il F. De Vitoria (De jure belli) F. Suarez (Disputatio de Bello). Questi autori non pongono in primo luogo il problema della politica, ma quello dell’etica, dove si esprime la volontà. In questo ambito la guerra non è mai considerata come ineludibile, come necessità della vita, come Eraclito e Hobbes - l’uomo lupo all’altro uomo-, né come espressione di una classe, quella capitalista, che necessariamente la usa per propri fini e alla quale si deve opporre la lotta di classe o quella contro l’imperialismo, forme anch’esse di guerra, non confondiamo, e riconosciamo che molti pacifisti professano la necessità di questa lotte e di una continua conflittualità con il potere...quando non è il loro. La guerra non ha la fatalità di una legge della fisica o l’imposizione di un istinto belluino. Essa deve essere considerata sul piano della razionalità, cioè della valutazione intorno al bene. Le posizioni dei Manichei, Viclefiti o Tremolanti-Quaccheri che sostengono a priori che l’urto bellico è sempre illecito, cioè fondamentalmente immorale o le posizioni al lato estremo, cioè quelle che vedono, come Nietzsche la buona guerra santificare ogni causa, non si pongono nell’ottica della morale, cioè quella della libertà di azione verso il bene, che implica anche una presa di posizione forte contro il male ovunque sia e ovunque si mascheri e si ponga anche il problema di come eliminarlo. Per loro tutto avviene di necessità, opporsi non vuol dir nulla, perché tutto è già definito naturalmente o per predestinazione. Discutere sulla moralità della guerra, è invece un compito più vasto, che implica anche la capacità di riconoscere il male e di agire perché esso divenga impotente. Non si tratta di irenismo assoluto, come lo intendeva R. Murri in La croce e la Spada (Firenze, R. Bemporad & Figlio, Libreria A. Beltrami, 1915) e ben lo sapeva il grande fautore della pace, Erasmo da Rotterdam, che fu accusato di pacifismo dall’Università di Parigi, ma che egli respinse, come attesta il suo saggio per l’intervento Guerra ai turchi: una questione improrogabile e cammin facendo un commento al Salmo 28, Abano T. (PD), Piovan, 1996.
Si tratta di comprendere che anche per la guerra non ci si trincera dietro le questioni economiche, ma si riflette con una visione ampia ed articolata, dove entri in campo anche la questione della “liceità” della guerra stessa, magari seguendo quanto avvertiva San Tommaso d’Aquino: ” Tutti coloro che prenderanno la spada periranno di spada" (Summa theologiae, 2,2, q.40, a 1.) e sulla sua scia pensare se vi sia o no una giusta causa di guerra, come ad esempio un’invasione con la distruzione di persone e cose. Non si tratta qui di “prestigio” di potenza, ma di umanità, e tutto non prima di aver espletato tutte le possibilità di evitare il conflitto, compresa anche il pagare un venale prezzo. Infatti, perché si possa muovere guerra, avverte l’Aquinate vi sono solo tre condizioni e comunque sempre con l’intenzione del bene e dello schivare il male: “ Perché una guerra sia giusta si richiedono tre cose.
Primo, l'autorità del principe, per ordine del quale deve essere proclamata. Infatti, una persona privata non ha il potere di fare la guerra: poiché essa può difendere il proprio diritto ricorrendo al giudizio del suo superiore. E anche perché non appartiene ad una persona privata raccogliere la moltitudine, cosa che è indispensabile nelle guerre. E siccome la cura della cosa pubblica è riservata ai principi, spetta ad essi difendere lo stato della città, del regno o della provincia cui presiedono. E come lo difendono lecitamente con la spada contro i perturbatori interni, col punire i malfattori, secondo le parole dell'Apostolo: "Non porta la spada inutilmente: ché è ministro di Dio e vindice nell'ira divina per chi fa il male"; così spetta ad essi difendere lo stato dai nemici esterni con la spada di guerra. Ecco perché ai principi vien detto nei Salmi: "Salvate il poverello, e il mendico dalle mani dell'empio liberate". E S. Agostino scrive: "L'ordine naturale, indicato per la pace dei mortali, esige che risieda presso i principi l'autorità e la deliberazione di ricorrere alla guerra".
Secondo, si richiede una causa giusta: e cioè una colpa da parte di coloro contro cui si fa la guerra. Scrive perciò S. Agostino: "Si sogliono definire giuste le guerre che vendicano delle ingiustizie: e cioè nel caso che si tratti di debellare un popolo, o una città, che han trascurato di punire le malefatte dei loro sudditi, o di rendere ciò che era stato tolto ingiustamente".
Terzo, si richiede che l'intenzione di chi combatte sia retta: e cioè che si miri a promuovere il bene e ad evitare il male. Ecco perciò quanto scrive S. Agostino: "Presso i veri adoratori di Dio son pacifiche anche le guerre, le quali non si fanno per cupidigia o per crudeltà, ma per amore della pace, ossia per reprimere i malvagi e per soccorrere i buoni". Infatti può capitare che, pur essendo giusta la causa e legittima l'autorità di chi dichiara la guerra, tuttavia la guerra sia resa illecita da una cattiva intenzione. Dice perciò S. Agostino: "La brama di nuocere, la crudeltà nel vendicarsi, lo sdegno implacabile, la ferocia nel guerreggiare, la smania di sopraffare, e altre cose del genere sono giustamente riprovate nella guerra". In questo anche I. Kant in Per la pace perpetua è d’accordo (cfr. Articoli preliminari e N. Bobbio, La guerra nella società contemporanea, a cura di L. Bonanate, Principato, Milano 1976, pag. 52).
Da ricordare che con la guerra moderna, i mezzi di distruzione sono efficacissimi e tali da rendere la guerra illegittima per l’umanità e alla luce di ciò ogni azione bellica deve essere respinta, come ben avvertiva il poeta vicentino Giacomo Zanella di fronte agli orrori della guerra franco-prussiana del 1870 (cfr. La guerra nel settembre 1870), chiedendosi se “civil t’appelli/ secol mio?
Eppure esiste una moralità della guerra? Sì, quando sia chiaro che chi muove guerra lo fa con l’intento espresso di distruggere i principi morali e quindi politici e giuridici che ne derivano in una cultura, come era chiaro,a d esempio per il comunismo sovietico (cfr. A. Brucculeri, Moralità della guerra, Roma, “La civiltà cattolica”, 1943, p.57). Il sacerdote gesuita ben aveva chiaro che cosa sia la guerra e contemporaneamente quanto la si debba evitare, soprattutto costringendo i popoli alla guerra, mediante, ad esempio, la coscrizione obbligatoria, ma, nel contempo, come, quando di difesa, sia pure ammissibile.
Qui il compito dei reggitori dello Stato che debbono resistere a coloro che intendono negare la pace al popolo e ciò non con le armi, rimedio estremissimo, ma con armi spirituali, quelle che difettano proprio all’Europa, preoccupata più dell’euro che della sua sanità morale. Infatti, senza orizzonte metafisico, ossia una concezione integrale dell’uomo in tutti i suoi aspetti, non potremo avere dimensione morale e la riduzione relativistica al solo economico, è distruttiva e inoltre, oggi lo attesta proprio il Califfato, incapace di coagulare le forze della pace. Non intendo quella prospettiva irenista, detta pacifista, che spesso manifesta più avversioni di natura ideologica che non intenti di pace. Costoro non hanno nemmeno vero intendimento di educare alla pace, ma sempre e comunque all’opposizione contro qualcuno, promovendo una polemodipendenza ideologica, di eraclitea origine, e dimentichi perfino del Documento di Alma Ata del 1991 dell’associazione “ Educators for peace” (cfr. L. Corradini, Educare alla pace durante la guerra, in AA.VV., Dimensioni della pace, a cura di A. Baldo, Vicenza,:Comune di Vicenza, s.d., pp-5-6) e magari propugnando la costituzione di corpi civili di pace; termini un po’ militareschi se non erro (cfr. La prevenzione dei conflitti armati e la formazione dei corpi civili di pace, a cura di M. SOCCIO, Vicenza Casa per la Pace ma Tip. Editrice Esca di Vicenza, 2012).
Il bene della pace, non va confuso con l’interesse politico o economico, come fa l’attuale dibattito, ma va posto in una considerazione etica alla quale possono al di là delle sovranità e dei trattati e delle ideologie del conflitto riferirsi coloro cui sta a cuore veramente questo bene nella consapevolezza che la benedizione della pace accompagnerà le attività di tutti gli uomini, ci riusciremo?
Bassorilievo a Vicenza, Palazzo Balzafiori: Clauduntur belli portae
nr. 06 anno XXI del 20 febbraio 2016