Fra tutte le ipotesi più o meno bislacche sull'origine del detto che lega indissolubilmente i vicentini ai gatti c'è quella sostenuta dal cultore di cose vicentine Emilio Garon, in un articolo del Giornale di Vicenza del 14 maggio 2006. Il Garon fa riferimento a «una teoria di origine fonetica, trascurata nelle attuali considerazioni, ma conosciuta già dall'Ottocento. Trova fondamento dalle parlate locali, quando per dire la frase "hai mangiato" in dialetto veneziano si pronunciava "ti ga magnà", in padovano "gheto magnà", mentre nel dialetto antico vicentino si affermava "gatu magnà". Questa pronuncia - sottolineaGaron - diede probabilmente origine al soprannome di "magnagatu" o "magnagati" dato in senso spregiativo dai rivali veneti ai vicentini. Che i veneziani poi avessero il gusto di affibbiare soprannomi con la desinenza "magna" è noto: indicavano come "magnagiasso" certi pescatori, davano dei "magnamaroni" ai ruffiani, dei "magnacarta" agli scribacchini, dei "magnamocoli" alle persone bigotte, e dei "magnamerda" a un qualsiasi individuo genericamente oggetto di disprezzo».
Non manca un'altra interpretazione dovuta questa volta a un francese Jerome Lalande, direttore dell'osservatorio astronomico di Parigi, che nel 1765 visitò Vicenza, una città diversa dai soliti stereotipi di una Vicenza bigotta tutta casa e chiesa. Scriveva lo scienziato parigino che i vicentini erano montanari selvatici e violenti al punto che quell'anno c'erano stati in provincia 300 omicidi su 200mila abitanti (cioè uno ogni 666 abitanti: 144 volte più di oggi) e che per questa loro rissosità si dicevano "vicentini cani e gatti" oppure "magnagatti".
La diceria dei vicentini "magnagati" è stata codificata nella celeberrima filastrocca riportata nella "Raccolta di proverbi veneti", libro pubblicato a Venezia nel 1879: «Veneziani gran signori; Padovani gran dotori; Vicentini magna gati; Veronesi tutti mati; Udinesi, castellani, col cognome de furlani; Trevisani pan e tripe; Rovigoti, baco e pipe; i Cremaschi, fa cogioni; i Bressan, tagiacantoni; ghe n'è anca de più tristi: bergamaschi brusacristi; e Belun? Poreo Belun, te sé proprio de nisun».
Il proverbio è ricordato da molti autori, a iniziare nell'Ottocento da Cristoforo Pasqualigo, sino al recentissimo "Veneti" di Ulderico Bernardi. Come si vede l'ampiezza di riferimenti va oltre il Veneto, toccando tutte le città maggiori della Serenissima, compresa Crema e soprattutto Bergamo. Proprio il riferimento bergamasco serve a dare collocazione storica al proverbio: un ghibellino bergamasco, infatti, nel 1444 bruciò a Crema un crocifisso perché sosteneva fosse guelfo.
Anche questa definizione temporale (il 1444) serve a riferire al XVI secolo questo "blasone popolare". Va ricordato che tale blasone definisce l'identità di un popolo e di una città. Difficile, se non impossibile, individuarne la paternità: ne esistono molte varianti, tra cui «Veneziani gran signori, Bolognesi gran dottori», che sfratta Padova dal ruolo di dotta e lo riferisce a Bologna. «I detti multipli - spiega Luciano Morbiato - partono da qualità evidenti di alcuni soggetti e devono essere completati con altre qualità, inventate o verosimili, o solo buffe, attribuite ad altri". Non sempre Vicenza è collegata, nei "blasoni" all'appellativo gattesco. Ecco un esempio che ne esalta la nobiltà: «Vicensa pomposa, Marostega tegnosa, Padoa studiante, Treviso tripante, Basan mercante, Asolo furfante, Quer castagner, Feltre polenter». Il collegamento al numero dei nobili del Vicentino è confermato da un altro proverbio del '500 assai celebre, che recita. «No ga Venesia tanti gondolieri, quanti Vicensa conti e cavalieri».
Intanto, a Vicenza il gatto è la bandiera dell'identità civica, di associazioni e gruppi di ogni genere, ma anche dell'autoironia dei vicentini che sorridono su questo soprannome.
nr. 07 anno XV del 27 febbraio 2010