E si scomoda Massimo Bubola per spiegare i perché
Le storie della canzone d'autore tramandano una preferenza spiccata di tale De Andrè per tale Bubola. Altri anni, ma un collegamento che permane, specie se si pensa che proprio Massimo Bubola se ne va in giro a concertare i versi intramontabili di Fabrizio. Ecco, proprio Massimo Bubola, abile disegnatore di parole che sono ricami, oltre che di arrangiamenti musicali, si scomoda e si avventura in un ruolo che forse non gli è immediatamente congeniale, quello dell'introduttore di un libro. Si avventura perché di Stefani è amico e perché non da oggi, come leggerete qui di seguito, apprezza opere e toni.
Questo scritto di Bubola è peraltro la ciliegina sulla torta. Allergico alle accademie di qualsivoglia genere e latitudine, Massimo parla di Antonio come di un poeta alieno ai binari dell'immagine del poeta, come di uno che mette le mani dappertutto e ne tira fuori magia pura senza le riserve codarde di quelli che le mani hanno paura di sporcarsele. È una bellissima introduzione e la citiamo integralmente proprio perché una volta letta l'ultima parola non ci si scappa: non resta che aprire il libro e immergersi nelle sue poesie.
Ecco che cosa scrive Massimo Bubola: «Quando incontro qualche illustre poeta italiano (in genere i più giovani vanno per i sessanta), per una specie di tic e di scommessa personale il mio sguardo va subito alle scarpe e quasi sempre, mi spiace dirlo, rimango deluso. Sono sovente scarpe ovvie, senza personalità, elegantucce; spesso mocassini marroncini oppure, se in occasioni pubbliche, convenzionali scarpette nere con lacci. Non mi è mai successo di vedere ai loro piedi degli stivali. Stivali di cuoio o di gomma. Stivali da moto o messicani. Stivali lisci o ricamati. Stivali di coccodrillo verde o di pitone giallo. Con borchie cromate o punte d'acciaio o speroni d'argento.
Ho rivisto l'altro giorno, cercando nella mia libreria, nella parte di salice dedicata alla poesia, la foto di copertina di una raccolta di scritti del poeta canadese Leonard Cohen e mi sono fermato sul suo familiare sorriso appena accennato nella luce meridiana. Portava con disinvoltura un elegante completo blu da dandy italiano e soprattutto degli stivali da cow booy neri con le gambe incrociate, appoggiandosi con nonchalance al parapetto del fiume.
È come se i nostri poeti non avessero navigato oceani di poesia contemporanea, poesia elettrica, poesia psichedelica, poesia underground, poesia da strada londinese, poesia da strada irlandese, poesia tex mex. È come se nel loro spesso obsoleto e grigio sperimentalismo, poco eroico e poco erotico, tutta questa pioggia non li avesse nemmeno sfiorati né schizzati del suo splendido fango fluorescente. Le loro metafore, i loro ossimori, non conoscono il tempo del Blues, del Rock'n'Roll, delle Punk Ballads. Il ritmo sincopato del Rhytm&Blues e del Funky, gli organi Hammond con amplificatore Leslie del Soul e i testi retti, ruvidi e visionari di tutte le Pietre Rotolanti, delle risse alcoliche e delle sbronze acronime da mettere su carta magari sporca di senape, magari sporca di sangue, magari sporca di musica.
La poetica di Antonio Stefani invece ha sempre gli stivali. Lucidi di gustose metafore, squisiti ossimori e spassose allitterazioni, eppure sporchi di polvere, fango, pomeriggi lenti, alghe e catrame. I tacchi degli stivali consumati dal battere sul pavimento il tempo di musiche e visioni che gli sono familiari e al contempo magneticamente oscure. Le punte degli stessi lise nel suo vagare errabondo di concerto in concerto, di locale e teatro e stadio e piazza dei miracoli dove avviene la musica e con essa tanta poesia clandestina e unofficial.
Ogni volta che incontro Antonio Stefani, di cui tra l'altro non sono gemello per pochi giorni, me lo immagino sempre ragazzo. Compagno di banco gentile, allegro, leale e vivace. Mite e un po' teppista, come diciamo noi veneti 'na bronsa coerta, una brace coperta. La sua velocità mentale profuma sempre di un sottile humour surreale, lirico e popolaresco, dimostra che la capacità di osservazione e di prender la mira, di cogliere il paradosso e il particolare sia nelle persone sia nelle cose che sfuggono ai più, hanno lo stesso principio nel poeta e nell'umorista, dipende da come lo si vuole convogliare. Antonio sembra volare a zig zag tra i due versanti della sierra continuando a sfornare parole elettroacustiche che contengono al loro interno una ritmica, contrabbasso e una batteria. Il diletto e il pregio della poetica di Antonio sono questo suo caracollare tra la realtà vista da una lente puntata verso il cielo e un cannocchiale caleidoscopico rivolto verso la terra, ma sarebbe meglio aggiungere anche il manico di una chitarra Fender Telecaster con un pennino puntato sulle stelle viventi e cadenti, con un piccolo aereo sul quale, a cavalcioni, volare».
nr. 11 anno XV del 27 marzo 2010