Come mai hai cercato quest'ironia con i personaggi dei fumetti, queste scenette anche un po' comiche?
«Questo è il secondo capitolo di un altro lavoro che è partito dalla stesa ricerca e dallo stesso concept, però ha un tono completamente diverso. Il primo capitolo è particolarmente inquietante ed è molto aggressivo sullo spettatore, lo mette continuamente alla prova filtrandone la capacità di vedere: lo acceca, lo abbaglia, misura per quanto tempo guarda la scena cronometrando lo sguardo, mentre quest'altro ha dei toni più colorati dal punto di vista emotivo, che sfociano anche nel demenziale. Si è spostato un po' così, naturalmente, volevo anche avere un contrappeso. L'epilogo sarà una somma tra i due ma assume una nuova forma che deve ancora nascere».
Ogni azione, indipendentemente che sia svolta da un oggetto meccanico o da una persona, si svolge in uno spazio delimitato che però cambia in continuazione e che si sposta, come se fosse una cornice al di fuori della quale quello che c'è non riguarda quello che è all'interno. Quali sono le domande che ti poni riguardo allo spazio e al linguaggio legato allo spazio?
«Sia questo lavoro, che una serie di altri che vanno dal 2007 ad adesso, nascono come parte di un progetto sulle eterotopie, come se fosse una coreografia di 20 anni, frammentata. Ciascuna indaga uno spazio diverso, un luogo "altro" che per sua natura è diverso da tutti gli altri. In questo caso, e in quello precedente che si chiama "D", il luogo è quello della scena, che è per eccellenza un luogo aleatorio. Con queste cornici viene proprio detto al pubblico,attraverso questa regola, che la scena è solo quello che c'è dentro a questa cornice: tu vedrai tutto il resto ma sai che lo dovrai guardare con altri occhi. Come in tutti i lavori teatrali, si prende dal fuori per portare in scena, in questo caso, vedi anche il fuori della vignetta».
E la realtà dove sta?
«Eeeeh, paradossalmente fuori è molto più difficile che essere dentro. Essere fuori ma visti come se si fosse in scena, cioè sei in scena ma devi sentirti a tutti gli effetti invisibile e dare l'idea che non sei così importante».
Però anche chi è al di fuori del recinto ha una sua fisicità ed è impossibile non guardarlo.
«Esatto ma deve avere un'altra presenza. Non è coreografato ma c'è un'organizzazione che è funzionale, mentre quella che è dentro le vignette non è funzionale, è drammaturgica, è estetica. L'altra è funzionale e tecnica: ho bisogno di prendere un metro, vado a prendere un metro, non penso che devo fare 8 passi per prenderlo, dentro ci avrei pensato».
L'azione cambia velocemente, ci sono dei contatti tra i personaggi in scena ma non si insatura mai un vero dialogo tra loro, sono come degli individui che possono essere avulsi dagli altri e non necessari agli altri ma che se non ci fossero,l'autonomia di ognuno potrebbe essere compromessa. Poi gli occhi vengono coperti, non c'è emissione vocale, tranne che nel caso del palloncino: i rumori che si sentono sono tutti provocati da oggetti. Volevi dire che l'essere umano non ha più sentimenti?
«No ma l'approccio è molto cinico e indifferente. Non c'è alcun dramma reale che si sta svolgendo: ci sono delle persone che fanno delle cose e per qualche motivo queste situazioni fanno anche ridere, senza che nemmeno chi è dentro sia particolarmente coinvolto. Paradossalmente siamo tutti ginnasti, loro hanno fatto anche teatro drammatico, metodo Stanislavskij. Non c'è nessuna necessità empatica nei confronti del pubblico, c'è più una funzione informativa con i dettagli e le strutture su cui si gioca. Emozionare non è volontà di questo lavoro, c'è un lavoro più sul togliere qualsiasi copertura».
Utilizzare le emoticons vuol dire che ci si può esprimere anche senza fisicità?
«Assolutamente no. Penso sia un processo di sottrazione e riduzione di una complessità sfaccettatissima e fortemente castrante: le emoticons riducono la complessità dell'espressione emotiva, arricchiscono la rete ma riducono ciò che realmente è. Se io vedessi il tuo sorriso sarebbe più efficace: potrebbero essere 100 sorrisi diversi, l'emoticon è UN sorriso. Riduce la complessità: ti informo che sto sorridendo ma potrei anche non sorridere mentre ti mando l'emoticon».
nr. 31 anno XV del 4 settembre 2010