NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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L’avventura di una fuga dal lager

Oltre 600mila italiani vissero in prigionia l’ultima parte della guerra 15/18: i loro racconti nel libro edito dall’Associazione Artigiani e firmato da Paolo Pozzato e Mauro Passarin presentato al Palazzo del Monte a cura di ViArt

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L’avventura di una fuga dal lager

(g. ar. ) - «... non scriverci mai più, se non ti fucilano gli austriaci ci penseranno i nostri, questa casa non è più la tua...». L'inequivocabile tono di rifiuto totale e spietato lascia trasparire perfino qualcosa di più del rancore per qualcosa che non si doveva fare e che pure è accaduto: si tratta di odio puro e semplice. Il che non stupirebbe più di tanto se a scrivere non fosse un padre e se il destinatario di tanta attenzione non fosse il figlio. Lo sfondo è quello della cosiddetta grande guerra, quasi cento anni dai nostri tempi: il luogo di recapito è uno dei tanti campi di prigionia dell'armata asburgica. E colui che legge quasi senza credere a quelle parole è uno dei 600mila militari italiani che in qualche momento di quella guerra sanguinosissima dovettero alzare bandiera bianca e arrendersi alle armi altrui. Di episodi come questo rinverdito dalla memoria di qualche riga se ne contano a centinaia e tutti più o meno sono raccolti nel nuovo libro di Paolo Pozzato e Mauro Passarin che arriva a continuare la serie delle opere dedicate dai due alla guerra 15/18. Per la quarta volta -e la serie promette di continuare- Pozzato e Passarin rivolgono la loro analisi non a ciò che ampiamente è conosciuto, ma agli aspetti particolari che tutto sommato, proprio alla luce di questi saggi ben corredati di immagini e di documentazione, si può ben dire rappresentino un condimento per niente secondario di quegli anni e di quegli avvenimenti sconvolgenti. La serie si era iniziata con Da Avola A Gorizia, di Lofaro e Quintavalle, ed è continuata poi, sempre con la firma della coppia Pozzato/Passarin, con Il Diario Di Francesco Ricci, Austriaci Sulle Prealpi Vicentine, ed infine L'Ultima Avventura. Quest'ultimo lavoro parla della storia parallela di tutti quelli che tentarono e a volte riuscirono a scappare dal campo di prigionia, un'umanità tormentata non solo dall'esperienza della guerra, ma poi anche da quella dell'internamento in quei campi che vent'anni dopo sarebbero diventati sinistramente famosi per lo sterminio degli ebrei e dei prigionieri civili. La curiosità, se così si può definirla, è che questi prigionieri una volta tornati a casa vennero trattati come traditori se non addirittura come spie. E subirono l'oltraggio degli interrogatori e del disprezzo della gente. Perfino dei loro stessi familiari, come ben descrive quel passo iniziale della lettera di un papà al suo stesso figlio.

 

Quanti ne morirono di stenti? Oltre 100mila

L'aspetto più tremendo che fa da denominatore comune a tutte queste storie è rappresentato dalla considerazione pubblica della vicenda dei prigionieri. Mauro Passarin, nella sua presentazione del libro scritto a quattro mani con Paolo Pozzato, ha sottolineato insistentemente proprio questo particolare. Essere fatti prigionieri rappresentava una specie di onta sociale incancellabile in un paese piccolo e provinciale avvelenato dalla retorica fasulla che in De Amicis ha trovato indubbiamente il suo cantore più incisivo.

Ma essere fatti prigionieri ha rappresentato per 600 mila giovani militari italiani tra i quali circa ottomila ufficiali non solo il doloroso avverarsi di una eventualità più che prevedibile dentro quella guerra combattuta a tavolino da una classe di comando senza scrupoli e sostenitrice della più ignobile macelleria con la vita di trincea alternata solo ad attacchi dissennati all'arma bianca. La prigionia ha voluto dire non solo l'umiliazione e il disprezzo, ma la fine per consunzione, fame e malattie di almeno 100mila di quegli uomini.

Realtà sconcertante e orribile che di per sé non ha colpevoli di sorta perché erano gli stessi austriaci a trovarsi in difficoltà nel tentare di gestire questa enorme massa di uomini mentre le condizioni economiche e finanziarie dell'impero asburgico segavano un impoverimento irreversibile destinato alla fine al collasso di tutto, sul piano militare ma anche civile, delle istituzioni e di tutto ciò che appena due anni prima rappresentava per tutta Europa un modello di vita sociale ordinata e senza sbavature. Le guardie dei campi erano gratificate da un rancio che equivaleva a quello dei prigionieri e a passarsela malissimo erano dunque tutti, nessuno escluso.

L'altro aspetto evidenziato dal libro e ben descritto nel corso della presentazione al Palazzo del Monte con la collaborazione dell'Associazione Artigiani e ViArt è poi quello che Passarin e Pozzato hanno descritto come una vera e propria sconcertante beffa ordita ai danni di questa umanità, già abbastanza provata dagli eventi: il disprezzo sociale, ma a casa loro, per gli italiani prigionieri. Un'ostilità che avrebbe avuto modo di esprimersi pienamente al ritorno di quanti tornarono, ma che già nel periodo di prigionia, grosso modo in corrispondenza dei mesi successivi a Caporetto, si dipanò in un rifiuto più o meno esplicito di questa realtà, cioè del semplice fatto che 600mila italiani erano prigionieri oltre frontiera e magari li si doveva in qualche modo aiutare.

Così non fu. Mentre i prigionieri americani, inglesi, francesi, ricevevano da casa attraverso le organizzazioni umanitarie un minimo di assistenza consistente in generi di conforto, ma soprattutto nell'esplicita attenzione dei parenti che li aspettavano a casa, gli italiani dovettero affrontare un rifiuto quasi totale, nessuna assistenza dai parenti e all'occorrenza lettere di fuoco come quella del papà che augura al figlio quanto di peggio si possa immaginare.

Il problema va tutto ricercato nello stato d'animo nazionale che si costruì e venne alimentato dopo la rotta di Caporetto. Nessuno si fermò per un attimo a pensare se per caso le responsabilità non andassero addossate a strateghi che utilizzavano religiosamente manuali della scuola di guerra appena post napoleonica. Nessuno o quasi nessuno ebbe dubbi nel ritenere che se c'era stata una sconfitta così disastrosa ciò era dovuto alla scarsa forza combattiva dei soldati, quegli stessi soldati che avevano già sostenuto quasi tre anni di massacri, di freddo fame e sofferenza, dando invece prova sul fronte delle montagne di una straordinaria capacità di resistenza.

Fu la censura quasi unitariamente concordata a fare dei prigionieri un bersaglio da colpire anziché un oggetto di attenzione e di pietà. Ne morirono 100mila, un'enormità, uno stadio di quelli di oggi pieno fino a traboccare pubblico oltre le gradinate. Quelli che non morirono, specialmente gli ufficiali, subirono al loro rientro in Italia una vergognosa campagna diffamatoria condita con interrogatori, sospetti, ostilità diffusa.

Contribuì non poco anche Gabriele d'Annunzio, il poeta soldato, con uno dei suoi versi incendiari e ricolmi di retorica che sulla gente avevano effetto immediato. Li chiamò "imboscati d'oltre confine" e questa gentile attenzione bastò e ce ne fu d'avanzo per peggiore ulteriormente i comportamenti nei confronti dei soldati che tornavano. Alla vigilia del fascismo e in piena trance nazionalistica, tutto questo doveva funzionare e funzionò come il catalizzatore ideale, un vero e proprio innesco utile a far esplodere quel che ancora non era esploso.

A quel punto 100mila persone che si aggiungevano alle vittime della guerra combattuta come un suggello tanto sinistro quanto di dimensione insopportabile non significarono più niente. C'erano i 500mila scampati, meglio se ufficiali, a trasformarsi in un bersaglio di formidabile efficacia per il nazionalismo che non voleva neppure sentir parlare di arretramenti, rese, bandiere bianche. Tutto era pronto per la tragedia successiva, una strada spianata, liscia e facilissima da percorrere. Salvo accorgersi poi, solo alla fine della seconda guerra mondiale, di quale disastro materiale e morale aveva sofferto l'Italia. E quel disastro, una volta di più, lo pagarono i poveracci e gli indifesi.

 

nr. 44 anno XV del 4 dicembre 2010

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