«Alla vigilia della rivoluzione del 1848-49 il Veneto – scrive Adolfo Bernardello nel libro “Veneti sotto l’Austria: ceti popolari e tensioni sociali 1840-1866”, Cierre Edizioni) – non appariva certo una regione avanzata sul piano economico. Eppure il decennio 1837-1846, registrando un incremento demografico dell’ordine di 183.082 abitanti, era stato il periodo più prospero del dominio austriaco nel Veneto, prima che la grave crisi economica del 1846-47 e la rivoluzione non arrestassero questa ascesa così promettente. La regione era essenzialmente agricola e la stragrande maggioranza della popolazione traeva il proprio sostentamento dalla terra, dove la distribuzione della proprietà era ancora congegnata in modo che la nobiltà (veneziana e terraferma) conservava quasi la metà delle terre più fertili e pianeggianti. La struttura industriale era esile nelle città della terraferma veneta: esclusi quei ceti a carattere artigianale che popolano abitualmente un centro abitato, l’impressione che si ricava è quella di agglomerati urbani non ancora toccati neppure lontanamente da uno sviluppo industriale in senso moderno. Certo i telai battevano nelle case dei contadini nel Vicentino, nel Bassanese, a Schio, a Follina, nel Padovano, le filande di seta e di panni non mancavano a Udine o a Pordenone, a Bassano o a Schio (dove nel 1845 troviamo, nel settore della fabbricazione dei panni, anche il nome di Franco Rossi) o a Follina. E senza dubbio masse notevoli di salariati vivevano sparse nelle campagne o si raggruppavano nelle città. Ma tutto sommato non si riesce a evitare, nel leggere queste cifre, anche un senso di squallore generale o se non altro di arretratezza. Per dare qualche cifra, per i lavori di panno e lana, Schio è al primo posto con quattro manifatture e 530 operai. Nella tabella del Commercio, troviamo alla voce “tessitori di ogni qualità” 450 operai a Vicenza, 449 a Treviso, 905 a Udine, ma nessuna indicazione riguardo all’esistenza di fabbriche. Degne di nota le quindici fabbriche di cappelli di paglia a Vicenza, le quali raccoglievano 650 operai».
La rivoluzione del 1848-49
La rivoluzione veneziana del 1848-49 [foto grande di apertura], guidata da Daniele Manin, è stata oggetto di molti studi e attualmente, con la pubblicazione di nuovi elementi, si è gettata nuova luce sulle travagliate vicende di quel breve periodo di autonomia da parte delle città, autonomia riacquistata dopo anni di dominio straniero e subito messa a dura prova dal pericolo rappresentato dalle armate austriache che, dopo la sfortunata conclusione a Custoza dell’avventura di Carlo Alberto di Savoia [a sinistra], strinsero in una morsa d’acciaio l’ex-regina dell’Adriatico. In generale appare abbastanza chiaro che la notizia della ritirata austriaca e della proclamazione della Repubblica a Venezia, mentre destò preoccupate reazioni e gelosie tra quegli uomini che costituivano i vari Comitati provvisori a Vicenza, come a Padova, a Treviso e a Rovigo, in quanto oltre alle possibili implicazioni democratiche essi temevano un ritorno all’egemonia dell’antica Dominante sulla terraferma, assumeva tutt’altro significato per le classi popolari della città e per i ceti contadini. Per tutti questi infatti Repubblica è quel magico nome che dice loro che qualcosa è cambiato, che è arrivata la libertà, che ora essi possono far sentire la loro parola. Va sottolineato che tutte queste considerazioni non venivano svolte chiaramente nel cervello dei contadini, ma che tuttavia si realizzavano a livello fortemente emotivo nella psicologia popolare e soprattutto nelle campagne. In questa situazione, i conservatori veneti vedevano il comunismo far capolino ad ogni angolo: timori infondati, ma è doveroso tuttavia sottolineare che allora dominavano le menti dei conservatori. Di fronte alla reazione austriaca le prime città regie a cadere in mano agli austriaci furono Vicenza e Udine: il Nugent ormai aveva invaso il Friuli con l’intenzione di ricongiungersi al Radetzky [a destra] che attendeva, saldamente attestato a Verona, i rinforzi provenienti dall’Austria, mandati dal giovane imperatore Francesco Giuseppe [a sinistra] che salì al potere nel 1848. Nel Vicentino c’era maggior tensione rispetto alle altre città venete data l’esistenza di consistenti gruppi operai impiegati nella lavorazione della seta e della lana.
La paura dei popolani
Dappertutto serpeggia negli animi dei maggiorenti il timore che il generale sommovimento desti intenzioni pericolose nei popolani. Eppure il 23 marzo, giunte le notizie degli avvenimenti a Venezia, la borghesia vicentina sfruttò abilmente lo sbigottimento propagatosi nelle autorità austriache e chiese di armare i popolani per difendere la città da una rivolta di contadini che si diceva imminente. Comunque, a Vicenza, nel Comitato Provvisorio Dipartimentale, accanto ai vari Valentino Pasini e Sebastiano Tecchio, ad un patrizio e a due esponenti del clero, entrò anche un macellaio; non solo, ma la resistenza della città fu propugnata vigorosamente da un “capopopolo” che «pose tutta la sua influenza al servizio del Comitato di difesa» rifiutando di capitolare anche quando per la città non c’era nulla da fare. A Bassano, il 2 aprile, il Comitato raccomandava caldamente ai cittadini «di non ascoltare le voci seducenti di quei pochi che travisando la libertà vorrebbero deviare dal retto sentiero». Pochi giorni dopo, il 12 aprile, venivano arrestate dalla Guardia Civica sette persone che esercitavano la questua «accompagnata da minacce»; il 22 aprile crescendo il malcontento tra le classi più povere per timore di carestie e di aumento del prezzo dei cereali, il Comitato pregava i parroci di esortare i fedeli ad astenersi dai tumulti e il 28, commentando la «mancanza dei lavori per i nostri artieri», incitava i ricchi a toglierli dall’ozio e a provvedere alla loro sussistenza”.
Il momento dei poveri
A Lonigo il comandante della guardia civica arrestò in un’osteria «certo Sante Tomba detto Gambalunga» perché «si espresse essere venuto il momento che i poveri arricchiranno e i ricchi pagheranno il fio», ritenendo il fatto meritevole di “valida repressione”, mentre una guardia civica (certo un borghese) suggeriva di separare nelle caserme i crociati studenti dai popolani, dato che se da quelli si poteva aver fiducia di valida difesa, «dalla feccia del popolaccio armato, si può temere sinistro e terribile contrario effetto».
A Monselice il fermento popolare cominciò a sorgere fin dal 1 aprile e continuò per tutto il mese, mentre a Pernumia le famiglie più ricche, spaventate da atti di violenza compiuti contro l’ex capo della Gendarmeria, reclamavano per porre un freno alla “feccia” che avrebbe voluto cambiare «a suo modo la santa libertà nel comunismo repubblicano». Il 27 aprile, sempre a Monselice, facchini e “priaroli” si mossero per allontanare il pretore e il commissario distrettuale guidati «da persone fanatiche» che sobillarono la plebe «la quale non sapendo quale sia il vero valore delle parole – Repubblica, Libertà – si crede autorizzata di comandare essa a suo talento». Anzi, proseguiva il Comitato di ordine pubblico, si intese «da un villico che allontanati di qui i pubblici impiegati ideavasi da alcuni malintenzionati il saccheggio delle case dei signori».
nr. 15 anno XVI del 23 aprile 2011