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La stagione della prosa del Comunale di Thiene, promossa da Arteven, si avvia alla conclusione con “Colazione da Tiffany”, in scena in ultima replica ieri sera. Lo spettacolo è interpretato da Francesca Inaudi, nella parte di Holly, e da Lorenzo Lavia nei panni dello scrittore che racconta la storia, soprannominato Fred dalla protagonista per via della somiglianza col fratello. La pièce ricalca il romanzo, che Capote scrisse pensando a Marylin Monroe, molto più di quanto non sia stato per il celebre film diretto da Blake Edwards.
Francesca, tu hai detto che per te Holly è come un profumo, qualcosa che rimane impresso, elaborato e inafferrabile, che lascia una sensazione di nostalgia e tenerezza amara. Lei è appunto un personaggio sfuggente, però in qualche modo è come se rimanesse intrappolata nella pièce perché lei vive nella scena. Non è un po’ quello che succede a ogni personaggio, quello di vivere solo in scena e lasciare il ricordo nello spettatore?
Francesca Inaudi: «Se un attore è onesto e fedele fino in fondo al proprio personaggio e lo vive, esso vive dentro di lui anche dopo che la rappresentazione è finita. Non puoi uccidere qualcosa che hai scoperto essere in te: questo qualcosa c’è e rimane anche dopo. Questo è un mestiere che ti permette di imparare su te stesso e su quello su cui lavori. Io non credo che Holly viva solo in scena: è l’unica che se ne va e di cui tutti parlano».
La pièce è una commedia, ma ci sono molti elementi che fanno pensare al dramma: il fatto che lei sia una che vive alla giornata, la morte del fratello, l’arresto, la caduta da cavallo, la perdita del figlio, eccetera. È sufficiente il fatto che il tutto sia trattato con leggerezza ed eleganza a fare percepire questo spettacolo come una commedia visto che, appunto, la situazione che ci viene presentata non è allegra? Anche se fa una bella vita lei non è felice.
F.I.: «Il regista ha deciso di rispettare un’atmosfera che di fondo esiste nel libro e soprattutto nell’adattamento teatrale c’è una brillantezza che può essere quella di Capote, che era sempre venata di cinismo, malinconia e rodimento interiore, che poi sono le cose che hanno portato l’autore ad autodistruggersi e a rovinare con le sue stesse mani quello che aveva costruito. Per me no, non basta: anche nella vita, la felicità è un attimo che dura pochissimo e che passiamo il resto del nostro percorso a inseguire, a portare il nostro livello medio di vita vicinissimo a quegli attimi di felicità. È questo che rende questo spettacolo “tridimensionale” e interessante: Holly non è piatta perché non ti aspetti che nel momento in cui arriva il marito, lei, che ha un’altra vita, lo accolga a braccia aperte, gli canti una canzone eccetera».
Lorenzo Lavia: «Il pensiero che Colazione da Tiffany parli di una donna è veramente molto riduttivo nei confronti di Truman Capote. È anche vero che c’è una sorta di biografia di Capote all’interno di Colazione da Tiffany perché lei si chiama come sua madre, ma se noi dobbiamo analizzare, Holly è come una rappresentazione dell’America: alla fine l’unica donna onesta è la “puttana”, perché lei fa la prostituta. Tutto attorno ci sono i perbenisti, i ricchi, l’America bianca; lo dobbiamo portare in un contesto socioculturale e politico: Colazione da Tiffany si svolge nel ’43, questi sono tutti figli della grande depressione americana, Holly nel ‘37-‘38 era povera e rubava le galline per mangiare. Quindi non dobbiamo neanche distaccarci da questo, parlando del romanzo. Poi, certo, per motivi di spettacolo e di regia si è voluto portare un aspetto più leggero. Tu decidi che lo spettacolo è una strada, decidi se questa strada è lastricata di vetri o di asfalto, però sempre da un punto “A” a un punto “B” ti porta. Ci sono anche i grandi drammi shakespeariani dove si ride molto, sono letture interpretative».