La pizzica potrebbe correre il rischio di un impoverimento identitario dovuto allo sfruttamento commerciale-turistico come può essere successo in passato, almeno in parte, per il flamenco spagnolo o anche, appunto, con le tarantelle campane o del nord della Puglia?
«Questo è un rischio grandissimo ed è già in atto. Noi, come Officina Zoè, abbiamo lavorato dagli inizi del ‘90 con tanto entusiasmo e amore, organizzando feste e festival, invitando e portando a galla queste persone denigrate dalla società. La cultura tradizionale non si è conservata tra le classi istruite, ma tra i più poveri, i più umili, quasi i reietti e sono queste persone che nella loro umiltà e povertà hanno conservato questa ricchezza, questo ritmo. Parlo di Uccio Bandello, del Maestro Stifani, Pino Zimba, Uccio Pirigallo, che non sono più con noi: uno aveva 20 anni di carcere, l’altro coltivava la terra, l’altro scavava pozzi a mano, gente che non saliva sui palchi, ma che aveva piacere a cantare, raccontare e conservare. Io sono figlio di queste persone. Abbiamo lavorato su questo anche grazie all’aiuto di persone come Edoardo Winspeare, con cui abbiamo prodotto dei film come “Pizzicata”, che era una grande poesia, o “Sangue vivo”, che è stata veramente un rivoluzione nel cinema negli anni 2000, secondo me. Continuare a raccontare questo: la storia di persone semplici che hanno conservato e che oggi sono la nostra ricchezza in un mondo che si va sempre più perdendo nella plastica. Noi siamo una reazione, diciamo: basta, smettiamo di correre, i confini non sono il muro di Berlino, quello è crollato. Ora si fa un muro a Sud e noi vogliamo essere una porta che apre al dialogo e soprattutto ad una coscienza che è quella di dire che siamo tutti figli della stessa madre. Questa è la nostra essenza».
Sul palco avete parlato dell’importanza di tramandare la tradizione in quanto noi siamo vivi e possiamo raccontare le storie raccontate dai nostri padri e i nostri nonni.
«Ma non era tanto il “noi possiamo fare come loro”: il folk è presentato come tradizione con le solite canzonette, i costumini, i gilettini neri e le camicette bianche. Il folk racconta una tradizione morta che appartiene al passato e non esiste più, noi siamo vivi oggi: come i nostri avi raccontavano le loro gioie, dolori e amori, lo stesso facciamo noi conservando però questo linguaggio che è quello del nostro ritmo».
Quindi se il folk è morto, ciò che è vivo come lo chiami?
«Lo chiamo pizzica pizzica!».
La musica non è sempre cantata. Come si può radicare la propria identità senza l’utilizzo delle parole?
«Agendo. Una parola può valere, due valgono metà, molte sono una presa in giro. Quello che vale e che cambia, nel mondo, è quello che tu fai tutti i giorni».
La pizzica è una musica strettamente legata alla spettacolarizzazione del rituale. Ancora oggi nelle feste patronali vediamo le tarantolate vestite di bianco, le altre donne vestite di rosso e nero e una grande partecipazione da parte di tutti i cittadini, anche bambini e anziani. Come è cambiato il modo di vivere queste occasioni di aggregazione che hanno questa connotazione appunto molto rituale?
«Io penso che il principio fondamentale sia la follia intesa come grande libertà di vivere il tuo momento in quel momento non badando a ciò che è il contesto. Io ho 50 anni e nasco in una società dove davvero si sudava e dove anche una singola patata aveva un valore e veniva mangiata con ragione e raziocinio. Oggi siamo sazi un po’ di tutto e consumiamo di tutto e di più. Oggi secondo me il consumo è stanco di se stesso, il sistema sta implodendo e c’è davvero un grande desiderio nell’animo delle persone di ritrovare qualcosa di più semplice. Negli anni ‘60 tutti andavano in India. Ritrovare una spiritualità che ci è stata negata, è un po’ lo stesso: come negli anni ‘70 c’era questa libertà dalla Chiesa Cattolica che era il regime dominante che in realtà ti negava il tuo spirito, oggi questa pizzica, questa maniera di raccontare la sincerità e la naturalezza, è una voglia di riprendere il proprio tempo. Allora troviamo di nuovo le gonne lunghe, di nuovo persone che non si vogliono toccare, ma che comunicano con gli occhi una sensualità infinita davanti a una pornografia che viviamo quotidiana. Il ricercare questa sincerità nelle persone, ritrovare il proprio stato umano in una società bulimica è quello secondo me spinge oggi, anche attraverso un costume, una ronda di pizzica in un cerchio dove tu hai e dai. l’incontro vero nasce quando io ti do qualcosa e tu mi dai un’altra cosa in cambio, così è molto più onesto e più bello. Purtroppo noi occidentali abbiamo perso questo, non riusciamo a dare niente in cambio, è uno sfruttamento. Quella che noi neghiamo è la nostra reale essenza: è solo l’egoismo che ci separa».
nr. 25 anno XVI del 30 giugno 2012