NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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IL VIAGGIATORE. Dado, amico mio

Lo dico assieme a tantissimi altri vicentini che con Adolfo Toniato hanno camminato, parlato e sognato per le vie della sua amata città

di Stefano Ferrio

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IL VIAGGIATORE. Dado, amico mio

Il verbo “morire” c’entra poco con Dado. Troppo definitivo, apodittico, privo di sfumature. Però, considerando che Adolfo Toniato, meglio noto come Dado, ha finito di vivere il 30 settembre scorso nel letto di nella casa dell’isola d’Elba dove era ospite, bisogna pure citarlo, tanto per capire di cosa si parla.

Tutto ciò vale se dobbiamo attenerci al medico che ne ha certificato il decesso per un malore improvviso. Perché in realtà, non appena sbrigate le formalità di rito, occorre cercare dell’altro. “Essere” va molto meglio. Se infatti sostenessimo che Dado “vive” ancora, più di uno avrebbe fondate ragioni di obbiettare in base all’arresto del cuore, del respiro, degli arti. È invece incontestabile che Dado “è” ancora qui, e che qui resterà a lungo.

Lo so per primo io, che “sono” ancora assieme a lui in vari momenti del mio passato. Da bambino, quando Dado, di sette anni più vecchio - classe 1949 – si affaccia sulla soglia della sua casa di Vicenza, accanto alla mia, in contra’ della Fascina. E ogni volta non è mai solo. Sempre atteso da altri ragazzi con i capelli lunghi come i suoi, che in certe pose lo fanno un po’ somigliante a George Harrison, e sempre circondato da una Musica svolazzante fra autoradio, plettri di chitarra, lingue dei Rolling Stones appese a gloriose lambrette. Le volte che da lì lo vedo partire in compagnia, mi immagino possa puntare verso qualsiasi meta, e scoprirò più tardi di non avere avuto torto, perché poteva essere l’isola di Wight dove ascoltò i Procol Harum alle prime luci dell’alba, o una scalcinata ribalta di Camisano dove ebbe da litigare, chitarra a tracolla, con un ubriaco, durante uno show dei suoi Universal Music Store.

Ma anche quando divento ragazzo io, Dado “c’è” ancora. Dopo qualche anno da impiegato comunale, si inventa, per primo in città, una jeanseria più bella e poetica di qualsiasi boutique. Si chiama San Francisco, e trova non a caso posto al pianoterra della casa abitata cinque secoli fa da un altro indomito spirito libero come il navigatore Antonio Pigafetta. Non ho mai in tasca i soldi per comperarmi un paio di Levi’s, eppure ci entro lo stesso, tanto so che assieme a Dado troverò chitarristi in cerca di una canzone, angeliche fanciulle cercate da chiunque le abbia già viste in sogno, pagine di Tolstoj e di Proust più vive qui che in qualsiasi biblioteca.

Si passa infine a una lunga e più sofferta fase tre. Quando, chiuso il San Francisco, Dado si cimenta come pubblicitario, consulente di moda, copywriter. Non gli va troppo bene perché a mancargli non sono le idee, ma gli artigli, che altri usano per graffiare dove a lui basta posare arpeggi di fantasia, come in una “Little Wings” dell’adorato Jimi (Hendrix). Ma anche questo serve a scoprire definitivamente il gioco. Che stia almanaccando sullo slogan di una marca di t-shirt, immaginando quale prima pagina scrivere per un libro da intitolare “Vicenza B-Sides”, o curiosando fra impolverate memorie di fotografi e stilisti, Dado è a questo punto giunto alla meta. È semplicemente e assolutamente Dado. Quello che ascolta sempre, non chiude mai la porta, offre quesiti al posto di soluzioni, cammina al tuo fianco, mescola un po’ di Hemingway nello zucchero del caffè, vola a Parigi anche restando nel salotto della sua casa, abitata da spiriti miagolanti.

Finché non fa granché differenza stare con lui o nella scena madre di un film, sulle prime note di una canzone, o dentro il segnalibro lasciato dentro “Guerra e pace”. Doni della vita che, come Dado, in realtà non finiscono mai del tutto. Restano dentro di noi dopo qualsiasi cosa. Sono, e basta.

 

nr. 34 anno XVII del 6 ottobre 2012

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