NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Più che assurdo allegorico

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Aspettando Godot

Beh magari anche un ragazzo di 20 anni che studia musica, appassionato

«Certo! UNO! Tu mettimi un pubblico di 1000 persone, sono in 2 o 3. Spendiamo milioni per la lirica e poi magari consideriamo stupido un linguaggio moderno come l’hip hop, consideriamo stupidi i rapper o queste cose solo perché non hanno il vestito buono della festa, il crisma della vecchiezza. Alla fine qua parliamo di mercato e arriviamo a cose assurde perché è assurdo che i Rolling Stones sono vecchi, fanno il rock e costano di più, in 4, di una intera formazione con coro dell’Arena. Quindi alla fine le cose diventano grottesche per questo ti dico che non sono dell’idea che culturalmente parlando bisogna scegliere UNA strada e fare quella: ben venga la lirica per chi la capisce, altrimenti stai a casa. In verità noi scambiamo per cultura gli eventi culturali, sono due cose diverse: la cultura è una cosa che permea la società, se la cultura permeasse la società non aspetteremmo i comuni; nei paesi ci sono ancora i teatri dell’800 fatti dai palchettisti e costruiti dalla gente, in Emilia Romagna ce ne sono tantissimi, tu vai e vedi sui palchetti i nomi delle famiglie che hanno costruito il teatro, come i banchi della chiesa, perché ritenevano importante avere un teatro, perché era una cosa condivisa. Penso proprio che si debba partire dalle elementari, è inutile che ci giriamo intorno: se non trasmettiamo questo ai nostri figli la cultura va a farsi benedire».

Aspettando Godot (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Tu sei molto connotato linguisticamente e sul territorio, come avviene per molti altri artisti in Italia. Senza necessariamente orientarsi verso il teatro popolare dialettale, cos’è che ostacola il pubblico che comunque va a teatro a non comprendere completamente ciò che viene rappresentato in quanto referente di una cultura regionale diversa? Se vediamo un testo classico ambientato, per dire, a Napoli anche in un contesto formale di teatro d’avanguardia, la gente del nord, per esempio, capisce magari la rilettura contemporanea ma non coglie minimamente i riferimenti anche più espliciti alla cultura partenopea.

«Questo dipende dalla politica degli ultimi 30 anni, mi dispiace dirlo. Negli anni ‘70 non era così: fino agli anni ‘70 si rappresentava Goldoni in televisione in veneto e la gente siciliana apprezzava il veneto di Goldoni, così come la gente di Vicenza apprezzava il napoletano di Eduardo o di altri. Adesso c’è una chiusura tale che abbiamo fatto “I rusteghi” di Goldoni, non solo lo abbiamo dovuto tradurre in italiano per farlo in tutta Italia altrimenti non lo capiva nessuno, ma lo abbiamo fatto nel vicentino, la prima scena è in veneziano e nessuno ha capito niente. Questo è il dramma culturale: la cultura dovrebbe essere apertura e accettazione, se negli ultimi 30 anni abbiamo portato avanti una cultura di chiusura in cui sono tutti compartimenti stagni e ci rifiutiamo di ascoltare le altre lingue e cioè che è altro, il risultato è questo: non capiamo più un dialetto a 100 km da casa nostra».

Quando Massimo Ranieri ha tradotto in italiano la “Filumena Marturano”, a Napoli erano scandalizzatissimi.

«A Napoli sì perché sono molto autarchici. Io rimango dell’idea che il teatro deve parlare alla gente e se tu fai archeologia non fai più teatro e se la gente adesso non capisce più, non me ne faccio niente di fare 3 ore di teatro in cui parlo un linguaggio che la gente non capisce quindi ha fatto bene Vacis a tradurre “I rusteghi”».

Si guarda sempre agli artisti come a una sorta di profeti, in grado di anticipare gli eventi e i cambiamenti futuri. Ultimamente però si fa molto riferimento a testi del passato perché vediamo che sono effettivamente attuali. Come mai oggi gli artisti stessi, che dovrebbero essere la sonda che intercetta, spesso non hanno idee chiare e quando gli si chiede un opinione su uno scenario o una visione anche prossimi non riescono a immaginare nulla?

«È colpa del pubblico. Gli artisti e il linguaggio contemporaneo che interpretano la nostra contemporaneità esistono ma a questi artisti non viene dato spazio, diamo spazio ai titoli famosi, la gente va a vedere i nomi famosi, i vecchi titoli perché vuole tranquillità e sicurezza: come li destabilizzi si spaventano. La gente vuole cose rassicuranti ma se io vado a teatro a vedere una cosa come se guardassi la televisione è molto meglio se sto a casa a guardare la televisione. A me fa piacere che molta gente vada a teatro perché mi rendo conto che la gente ha voglia di veder qualcosa di vivo, è evidente, è tutto talmente virtuale che appena vedi una cosa vera, viva, la gente ci sta. Non riuscire a capire un linguaggio è grave. Intendiamoci: non tutti i linguaggi sono costruiti nel modo migliore, ci sono anche spettacoli che non si pongono nel giusto modo rispetto al pubblico, però per la maggior parte il pubblico va a teatro senza sapere cosa va a vedere e magari ha letto e riconosciuto un nome. Stiamo distruggendo la scuola, non ci possiamo meravigliare che la gente si muova senza avere idea di cosa sta andando a vedere».

 

www.artisceniche.com

 

nr. 44 anno XVII del 15 dicembre 2012

Aspettando Godot (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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