Ma il fatto che loro non abbiano vissuto quell’epoca va bene o si perde qualcosa?
«Io l’ho costruito con i miei amici, con cui condividevamo sogni di notte, eravamo una piccola comunità, ero appena arrivato da New York, era una bomba fare questa cosa. Non volevo entrare nel livello personale, chiaramente quando scelgo i ragazzi devo sentire delle menti aperte e la cosa che mi ha colpito è che loro hanno una naturalezza nel gestire anche la sessualità che forse nella mia generazione non c’era così come invece l’hanno gestita loro. Mi ha fatto un enorme piacere perché è tutto molto più facile».
E fin qui per quanto riguarda la sessualità, però ci sono altri limiti: non c’è il bambino e non c’è il gatto perché oggi non si può.
«Oggi col politically correct non si può più far niente! I miei primi 3-4 lavori erano con gli animali, un gatto, una tartaruga e quello con la tartaruga, a Milano nell’84-85, mi volevano denunciare. Alla fine ho trovato questa idea del pelouche, che comunque è collegato, e il neonato sarebbe stato ancora più complicato, ho voluto lascare la traccia sonora di neonati, che sono sempre figli di amici».
Oggi riscrivere una coreografia: quali sarebbero le cose su cui voi artisti vi interroghereste riguardo ad eventuali problemi? Oggi si hanno meno problemi a mettere in scena la sessualità che non a portare un animale sul palco.
«Eravamo un gruppo in cui dividevamo sogni eccetera, ce la godevamo, è stato anche un po’ mettere in scena le nostre pulsioni e le nostre nottate cercando comunque di creare una scrittura; non mi interessava fare un discorso legato alla nostra realtà. È un lavoro che è stato molto amato e ha girato molto nell’ambito del nuovo teatro, la danza ci si chiedeva: “ma che è sta roba?” per cui nel nuovo teatro con la Societas Raffaello Sanzio, La Gaia Scienza, Corsetti, quasi sempre. Le prime persone che lo hanno visto erano Leonetta Bentivoglio, Marinella ma tutto il côté di critica poi hanno cominciato a venirmi a vedere ma questo lavoro era visto come un... Non vedevano la “danza”, bisogna ricordarsi che è stato fatto nell’ ‘82 un periodo in cui la stessa Carolyn Carlson, che comunque era Nikolais (Alwin Nikolais, maestro della Carlson ndr) faceva un lavoro DI DANZA, questa era una cosa ibrida e forse per questo ha la sua modernità perché oggi i confini si sono rotti, non c’è più questa dimensione così “coreografo” o “regista”. Quando al’inizio Marinella mi ha chiesto “Calore” per il progetto RIC.CI, rivedendolo, ho colto il fatto che come scrittura poteva essere moderno. Una cosa che mi ha fatto molto piacere è che anche molta critica di danza, anche alcuni che non impazziscono per il mio lavoro, tutti ne hanno riconosciuto la modernità e anche, alcuni lo hanno scritto, che alcuni creatori oggi sono debitori di questo lavoro. Io trovo che questo progetto sia importante perché si fa dappertutto, in Francia, in Belgio, in Germania, in Italia è la prima volta e non si è mai fatto e quindi vedere che 30 anni fa si facevano queste cose, perché in 4-5 anni si dimentica tutto: la gente viene da me e mi dice che è incredibile che da noi, 30 anni fa, si facessero queste cose. Per questo è ancora più importante questo progetto: anche molti giovani vengono a vederlo, a Ferrara c’erano proprio i punk e mi fa un piacere norme. Forse la sfida era questa: riuscirà questo lavoro dopo 30 anni ad avere freschezza e a colpire le generazioni di oggi? Io penso che la modernità sia proprio il modo in cui è stato scritto: una coreografia a maglie larghe dove il confine teatro-danza è tutto molto sfumato. Non è uno spettacolo astratto o narrativo, ha queste componenti che vano insieme».
nr. 03 anno XVIII del 26 gennaio 2013