NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Cosa mangeremo nel futuro?

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Cosa mangeremo nel futuro?

Il discorso della miriade di reality di cucina o il cake design che impazza, il fatto che ci sia questa ossessione per il cibo più ora che negli anni passati, in cui l’obesità sta diventando il problema del Terzo Mondo, noi moriamo di obesità m anche do anoressia, c’entra qualcosa con la crisi secondo lei?

«Io credo di si, che siano delle forme molto strettamente relazionate. Il nostro corpo assume la crisi, la mette in scena attraverso la sua trasformazione. Penso proprio all’obesità del Terzo Mondo e delle fasce più povere. Questo pezzo abbiamo avuto occasione di presentarlo a Carlo Petrini che un po’ di anni fa ha lanciato l’idea di Slow Food: rallentiamo prendiamo del tempo per vivere, e il cibo può essere un campo dove giochiamo tanto rispetto alla qualità della nostra vita e delle nostre relazioni con le altre persone. In un’occasione pubblica abbiamo presentato questo pezzo e lui ha fatto una lezione magistrale spiegando anche a noi la semplicità del recuperare il tempo e i luoghi del cibarsi, quella che poi forse è diventata anche una moda, il km zero, vedere da dove nasce un cibo, come viene preparato, prepararlo noi stessi, prenderci del tempo, non prendere tutto confezionato, ma confezionarci noi quello che ci serve. È un modo non solo per cibarci meglio, ma anche per recuperare un rapporto con il nostro tempo, il nostro spazio, il nostro corpo».

Cosa mangeremo nel futuro? (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Quindi il cibo è la materia prima anche simbolicamente più semplice che ci può riconnettere con la società. Però le rompe anche le relazioni perché se io mangio filetto e mi trovo davanti un vegano…

«Certo, ma diventa anche un modo nuovo per relazionarsi. Sempre più spesso quando ci si invita a cena ci si telefona: “a cosa sei allergico?” eccetera e diventa anche un’ acrobazia costruire un menù. A me è capitato di fare una tournée con una compagnia di diverse confessioni religiose e in più con allergie varie per cui avevi il kosher, l’halal, il vegano, quello a cui non piace il pesce e questa acrobazia diventava un territorio di relazione nel momento in cui non diventa ideologica, o di antagonismi, per cui uno rifiuta. Perché attraverso il rifiuto di certi cibi tu rifiuti le persone. Quanto nelle società più semplici quando si va a trovare qualcuno si porta qualcosa da mangiare? Arriva la nonna con la torta».

Sicuramente, ma se vado a casa di qualcuno cosa porto? Uno è a dieta, l‘altro è intollerante, l’altro è vegano.

«Fa parte tutto di questa ossessione. Mi sembra che parlare di cibo sia parlare di relazioni tra le persone. Alla malinconia di Infactory corrisponde il grottesco e una comicità anche eccessiva. Una provocazione. Questa reazione del pubblico a cui siamo abituati, ad un certo punto aumento arriva al limite e diventa quasi isteria».

Voi scandagliate il cibo come prodotto seriale. Il cibo viene venduto a diversi settori e strati della società, perché c’è anche quello, cioè nello strato alto c’è il vegano, l’esperto di cioccolato, il sommelier eccetera negli strati bassi c’è un altro tipo di cibo che, come in tutta la storia del commercio, imita (male) il cibo degli strati alti. Quindi vediamo che in Africa c’è questa nuova obesità perché il junk food viene considerato cibo pregiato. Però voi non avete parlato di come le persone vivono il cibo.

«Io penso a mia nonna e penso a quale fosse il suo sapere alimentare, e mi rammarico profondamente: lei veneziana che aveva tutte quelle ricette legate ai saperi, e fino a poco tempo fa non ho mai sentito il bisogno di ricostruirle e ora è troppo tardi. Allora forse bisogna andare oltre e ricostruire qualcosa di nuovo ed è possibile con questo e con un altro lavoro che abbiamo fatto sulle api e sul miele io e Matteo Balbo, abbiamo girato molto in situazioni di promozione del gusto, per esempio a San Miniato per il tartufo bianco, siamo andati al festival del miele valdostano e della toma, perché poi la provocazione è che questo pezzo viene portato in situazioni dove si promuove una qualità di cibo buono, bello eccetera. C’è una risposta buona che parte da un’idea di creare delle comunità del cibo: Petrini dice che produttori e consumatori, nel momento in cui capiscono che si legano tra di loro e condividono il fatto che abitano una comunità, magari si vedono poco tra di loro però io so che il contadino che sta producendo biologico fa parte della mia catena alimentare, come chi lo prepara e lo distribuisce. Ricostruire queste comunità è uno dei punti di partenza di una trasformazione».

Tanti tipi di menù di cibo adatti a tante culture, cibo di qualità, no al junk food eccetera, se ne parla tanto, però ad un certo punto parliamo di cibo promuoviamo il cibo e il made in Italy giustamente, il rapporto tra cibo di qualità, la necessità di promuovere un mangiare di qualità e tutti i tipi di malattie: il cibo non è sempre qualcosa di prezioso per chi ha delle malattie legate al consumo di cibo, è una sofferenza oppure può non dover essere un piacere perché nel momento in cui diventa un piacere o diventa punizione o diventa dipendenza, per esempio.

«Certo, all’interno di quelle che sono dinamiche di piccole patologie per cui un comincia a ritornare su certi consumi alimentari: quando è stressato apre il frigo. Uno che apre il frigo non è una patologia».

Macadamia nut brittle…

«Ecco. Tra l’altro è il titolo di uno spettacolo di Ricci-Forte, “Macadamia nut brittle”. L’idea che dietro ci sia sempre un tema relazionale, tra la persona e il mondo, io ne sono molto convinto. È come se le patologie, ma io credo un po’ tutte le malattie, nascano da dimensioni di squilibrio della relazione che hai con il contesto che abiti e che quindi la prima cura sia quella di intervenire sulla qualità del contesto».



nr. 14 anno XVIII del 13 aprile 2013

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