NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Il grillo parlante. I secoli che bui non sono

di Italo Francesco Baldo

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Il grillo parlante. I secoli che bui non sono

IV Parte

 

 

Introduzione

È quasi una classica tesi storiografica di tipo ideologico quella che continua ancor oggi a definire circa 1000 anni di storia con la qualifica di ”secoli bui”. Essa è dovuta all’elaborazione dell’illuminismo che intendeva appunto “illuminare” i secoli del Medioevo, dove, a loro riflettere, la religione aveva dominato e non aveva permesso lo sviluppo della ragione e della sua capacità investigativa. In particolare la Scolastica e in primo luogo San Tommaso d’Aquino erano i bersagli preferiti. Lo sono ancor oggi anche in certi ambiti ecclesiali che hanno dimenticato la seconda piaga della Chiesa che investe direttamente la verità, come sosteneva con gran competenza tomistica Antonio Rosmini (cfr. La dottrina della conoscenza in San Tommaso, a cura di G. Marino, Torino, G. B. Paravia & C., 1926) I pensatori dell’illuminismo D’Holbach, Voltaire, lo stesso Rousseau intendevano che l’uomo dovesse fare riferimento solo a se stesso e in qualche modo anche loro pongono il problema della coscienza, che è, come abbiamo avuto modo di far notare in precedenza uno dei punti fondamentali della cultura che si è sviluppata da circa 2000 anni e che ha nel cristianesimo, piaccia oppure no, il punto fondamentale. Sant’Agostino è stato uno dei massimi pensatori sul tema della coscienza e della libertà e ha posto le basi per il dibattito che si è sviluppato in tutto il medioevo e che continua a tutt’oggi.

 

La Scolastica

La scolastica ha avuto inizio con la rinascita carolingia, allorché Carlo, re dei Franchi e primo Sacro Imperatore Romano, chiamò alla sua corte per fondare una scuola, la Palatina, i più illustri maestri del suo tempo. Giunsero dall’Italia Pietro da Pisa, Alcuino dalla scuola di York, e altri che poi fondarono scuole in Europa che iniziarono con il capitolare del 778 dato da Carlo Magno del 778 d.C. a Baugulfo vescovo di Fulda. La scuola che all’epoca corrisponde grosso modo alla nostra università e “scolastici” Queste scuole si occupano di filosofia, teologia, storia, Paolo Diacono tra tutti, e diritto. Si impone il classico insegnamento medioevale del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica).

Dapprima si propone un insegnamento abbastanza nella tradizione, ma ben presto i maestri di queste scuole approfondiscono i temi e propongono elaborazioni originali anche sul tema della libertà e della coscienza. Tra i primi è da ricordare il filosofo Giovanni Scoto Eurigena, d’origine irlandese che insegnò a Parigi all’epoca di Carlo il Calvo (823-877). Il filosofo affronta tra i diversi problemi, anche quello della libertà con il saggio de praedestinatione, dove sostiene che l’uomo non è predestinato al peccato. Egli sosteneva, diversamente da Sant’Agostino il quale riteneva che la vera libertà fosse solamente quella di volere il bene, che se Dio avesse dato all'uomo solo la capacità di volere il bene, l'uomo non sarebbe propriamente libero. La capacità di orientarsi tra bene e male, il chiedersi se ciò che si compie sia bene o male, esprime il libero afferma nello stesso tempo la giustizia divina, che attribuisce a ciascun uomo secondo i suoi meriti. Infatti, l’obbedienza o la disobbedienza ai comandamenti di Dio fa l’uomo libero e ne determina il merito, perché la creatura partecipa al bene di Dio, ma non è predestinata. La tesi apparve a diversi altri pensatori non propriamente ortodossa, e fu condannata nei concili di Valenza e di Langers nell’855 e nell859, anche da coloro che avevano chiesto a Scoto Euirigena di riflettere sul tema. Ciò attesta proprio la difficoltà dell’argomento, che sarà riproposto da molti studiosi.

Nell’ambito della riflessione medioevale una grande rilevanza avranno i temi logici, e della natura ed esistenza di Dio. Tra i maggiori che hanno proposto le prove dell’esistenza di Dio vi sono Sant’Anselmo d’Aosta e San Tommaso d’Aquino che rappresentano al meglio proprio le due prospettive, che diamo in modo riassuntivo, che si ha modo di rintracciare nell’ambito della filosofia nel medioevo, Il primo segue la via credo un intelligam (credo per comprendere), mentre il secondo intelligo ut credam (comprendo per credere) e significativo è il loro modo di intendere la coscienza e la libertà.

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Sant’Anselmo da Canterbury

 

Sant’Anselmo da Canterbury (Aosta 1033 - Canterbury 1109) nella sua opera Monologium propone tre prove per dimostrare l’esistenza di Dio, ma sarà nell’opera Proslogion, destinata ai giovani novizi benedettini dell’abbazia di Bec in Normandia che il pensatore riassumerà le prime tre. È la famosa prova ontologica – così la denominò I. Kant - dell’esistenza di Dio: ” Id quo maius cogitari non potest, est Deus (ciò di cui non possiamo pensare il maggiore è Dio), ma di là dall’importanza di questa prova, ripresa anche da Cartesio e Leibnitz e repulsa ai tempi della sua formulazione dal monaco Gaunilone e nel settecento da I. Kant, è interessante come il vero veicolo della dimostrazione sia la coscienza umana che interroga se stessa e cerca la verità.

La via indicata è precisata nel primo capitolo Esortazione alla mente a cercare Dio: ”Orsù, omuncolo, abbandona per un momento le tue occupazioni, nasconditi un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Abbandona ora le pesanti preoccupazioni, rimanda i tuoi laboriosi impegni. Per un po' dedicati a Dio e riposati in Lui. "Entra nella camera" del tuo spirito, escludi da essatutto, all'infuori di Dio e di ciò che ti possa giovare a cercarlo, e, "chiusa la porta", cercalo (Mt 6, 6). Di' ora, o "mio cuore" nella tua totalità, di' ora a Dio: "Io cerco il tuo volto; il tuo volto, o Signore, io cerco" (Sal 27, 8).(8) 2. Orsù, dunque, o Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come possa cercarti e dove e come possa trovarti.”

È l’interiorità che ha un ruolo decisivo; infatti, solo e soltanto se l’uomo interroga se stesso può trovare la via della verità. Non sono le cose esteriori, nemmeno la capacità solo raziocinante, ma è il coinvolgimento di tutto l’essere umano, per questo si parla di cuore, ad essere coinvolto. Se l’uomo dimostra l’esistenza di Dio egli può anche comprendere la natura delle sue azioni, perché esse sono sempre in rapporto con ciò che è dio. Se Dio è sommamente buono, l’uomo può pensare, perché creatura, il bene e se Dio punisce, punisce per misericordia, non per il male. Nel capitolo XXIV del testo si precisa: ”. Ora, anima mia, ridesta e innalza tutto il tuo intelletto e pensa, per quanto puoi, quale e quanto grande sia quel bene. Se, infatti, i beni singolarmente sono piacevoli, pensa attentamente quanto piacevole sia quel bene sia contiene la giocondità di tutti i beni, e non quella che abbiamo provato nelle cose create, ma una giocondità tanto differente quanto il creatore differisce dalla creatura. Se è buona, infatti, la vita creata, quanto buona è la vita creatrice? Se è gioiosa la salvezza causata, quanto gioiosa è la salvezza che causa ogni salvezza? Se è amabile la sapienza nella conoscenza delle cose che sono state fatte, quanto amabile è la sapienza che dal nulla ha creato tutte le cose? Infine, se molti e grandi piaceri si trovano nelle cose piacevoli, quale e quanto grande piacere si trova in Lui, che ha fatto quelle cose piacevoli?” Infatti, come aveva indicato nel primo capitolo solo la presenza di Dio fa sì che il bene sia con noi, poiché senza di te solo il male è con noi.”

Dunque l’anima cercava Dio e ha trovato, capitolo XIV): ”che egli è l'ente superiore ad ogni altro, di cui non può pensarsi nessuna cosa migliore; e questo ente è la stessa vita, luce, sapienza, bontà, eterna beatitudine e beata eternità; e questo ente esiste ovunque e sempre. Se non hai così trovato il tuo Dio, in che modo egli non è ciò che hai trovato e ciò che hai compreso con così certa verità e vera certezza? Ma se lo hai trovato, come mai non senti ciò che hai trovato? Perché l'anima mia non ti sente, o Signore Dio, se ti ha trovato?” Il dubbio, la ricerca continua dell’anima di dio e di fare il suo volere qualificano la vera coscienza /anima di un cristiano che deve tendere con tutto il suo intelletto sempre verso dite, o Signore (cfr. cap. XVIII).

L’ultima parte del Proslogion riassume quale debba essere la vita di un cristiano e particolarmente di un giovane che intenda consacrasi a Dio: ” Ti prego, o Dio, che io possa conoscerti, che io possa amarti, per poter godere dite. E se in questa vita non mi è possibile pienamente, possa io progredire ogni giorno, finché esso giunga alla pienezza. Qui progredisca in me la conoscenza di te, (133) e là sia piena; cresca qui l'amore per te, e là sia pieno, in modo tale che il mio gaudio sia grande qui nella speranza, e sia pieno là nella realtà. (134) O Signore, tu mediante tuo Figlio ci comandi, o meglio ci consigli di chiedere, e prometti che riceveremo, "perché il nostro gaudio sia pieno" (Gv 16, 24). Ti chiedo, o Signore, ciò che consigli mediante il nostro mirabile consigliere; (135) possa ricevere ciò che prometti mediante la tua Verità, (136) "perché il mio gaudio sia pieno". Dio verace, chiedo di ricevere "perché il mio gaudio sia pieno". E intanto la mia mente su questo mediti, e la mia lingua di questo parli. Questo ami il mio cuore, di questo la mia bocca discorra. Ne abbia fame la mia anima, ne abbia sete la mia carne, ne abbia desiderio tutta la mia sostanza, finché "io entri nel gaudio del mio Signore" (Mt 25, 21), che è Dio trino e uno”.

La via di Sant’Anselmo coglie veramente al dinamica della coscienza quando si pone a cercare Dio e lo riconosce come esistente e parte integrante della vita., Cos’ la fede trova nella ricerca anche intellettuale elementi di ulteriore approfondimento e fa cogliere il valore dell’uomo che sa interrogare la propria coscienza, senza farsi “disturbare” dalle cose del mondo.

Una prospettiva che nel contesto francescano riprenderà anche San Bonaventura da Bagnoregio (1217/22- 1274). Il doctor seraphicus, che insegnò alla Sorbona di Parigi, allora la maggiore università per gli studi teologici nel suo Intinerarium mentis in Deum ricorda come “ il rientrare in se stessi” porta alla conoscenza stessa di si congiunge con l’eterna verità e quindi può operare il bene che la filosofia morale distingue: ” in invidiale, familiare e politica. La prima allude all’innascibilità del primo principio, la seconda alla familiarità del Figlio, la terza alla liberalità dello Spirito Santo” (Ivi, Roma, Città Nuova, 1993, p.70).

 

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san Tommaso d’Aquino

 

L’apice della riflessione sulla coscienza e quindi sulla libertà è senz’altro raggiunto da San Tommaso d’Aquino, che, insieme a san Bonaventura, è indicato da Leone XIII nell’enciclica Aeterni patris del 1879, come punto di riferimento per la filosofia e la teologia rivelata nella Chiesa cattolica, anche se oggi è più ignorato che studiato.

San Tommaso d’Aquino (Roccasecca, 1225 – Fossanova, 1274) frate domenicano e doctor angelicus insegnò a Parigi, alla Sorbona e la sua più importante opera la Summa theologiae racchiude un sapere filosofico e teologico di grande valore, non è chiusa nel suo tempo, ma è proposta anche oggi. Non solo nella scienza sacra, ossia la riflessione su Dio quale emerge dalla sacra Scrittura, ma anche il sapere dei Gentili, dei Padri della chiesa, in particolare sant’Agostino, sono i suoi punti di riferimento. In particolare la filosofia aristotelica, che non è di per sé necessaria la fede, ma come tutta la filosofia, serve a meglio chiarire i contenuti della fede. Sia detto chiaramente, il cristiano non ha necessità della filosofi, ma il suo sforzo è quello di riuscire ad armonizzare nella morale la dimensione individuale della persona con quella oggettiva.

L’impianto filosofico e teologico dell’Aquinate è vasto e robusto; in campo morale egli cerca una sintesi soprattutto con riferimento ad Aristotele e Agostino. San Tommaso accoglie alcune prospettive della filosofia morale aristotelica, altre ne respinge. Ciò è considerato nella Prima parte della seconda parte della Summa theologiae, e così inizia la sua riflessione: ” Proemio. Come insegna il Damasceno, si afferma che l'uomo è stato creato a immagine di Dio, perché l'immagine sta a indicare «un essere dotato d'intelligenza, di libero arbitrio, e di dominio sui propri atti» perciò, dopo di aver parlato dell'esemplare, cioè di Dio e di quanto è derivato dalla divina potenza conforme al divino volere, rimane da trattare della sua immagine, cioè dell'uomo, in quanto questi è principio delle proprie azioni, in forza del libero arbitrio e del dominio che ha su se stesso. “

L’articolazione è complessa e considerato che l’etica ragiona sulle azioni umane perché l’uomo se ne serva come mezzi ordinati al conseguimento del fine che è Dio. Ne consegue che l’uomo tende alla felicità o beatitudine, quella che Aristotele chiamavano eudemonia, e per raggiungerla deve adeguare il suo appetito razionale al fine. Non vi è ordine se non vi è relazione adeguata tra fine e mezzi. I mezzi giustificano il fine che è connesso ai mezzi; così il fine buone richiede mezzi buoni, dato che non è possibile raggiungere un fine buono con mezzi malvagi.

Così prima di tutto dobbiamo apprendere il vero per mezzo dell’intelletto e in conseguenza questo consegue l’attività espansiva della volontà. L’azione non è casuale, ma causata dal vero, tanto che senza vero non vi è bene e non vi è bene senza vero.

Nella vita terrena l’uomo deve conseguire la più alta perfezione e ad essa indirizzare la sua attività. L’atto umano che è fornito di intelligenza e volontà ed esprime la peculiarità dell’uomo, tanto che l’uomo se serve della propria intelligenza, per capire, e dei propri atti liberi, frutto di atti di volontà che non sono di per sé sempre liberi, ma nell’uomo sono tali perché compresi nella loro determinazione razionale. La differenza tra l’uomo e gli altri esseri creati è proprio qui. L’anima razionale dell’uomo è superiore a quella sensibile degli animali e a quella vegetativa delle piante, secondo Aristotele e questo fa sì che la persona cosciente e libera sa del valore morale e lo costituisce come dovere. Il punto decisivo sta nell’0oggetto della nostra azione, se esso sia o no oggettivamente buono o malvagio, la deliberazione relativa fornisce il carattere buono o malvagio alle nostre azione. L’azione buona è sempre in armonia con l’oggetto buono posto a fine dell’azione medesima. Se lo stupefacente è negativo all’essere umano, non è possibile deliberare il fine di acquisirlo e consumarlo e ciò perché l’intelletto consoce e determina la volontà libera che agisce. Si tratta del connubio tra riflessione teorica, etica, e la deontologia, modo di agire. La concordanza tra intelletto e volontà diviene determinante per la vita umana e nel riconoscere ciò consiste il valore della coscienza che è retta quando si adegua formalmente e sostanzialmente alla volontà divina (cfr. S. Theol. q. XIX, a X). In questo consiste l’habitus che l’uomo indossa nelle azioni e ne determina lo stile d’azione, non è una disposizione. L’abito determina la bontà che quando è continua e abituale chiamasi virtù, (buona qualità della mente che vive rettamente e che non utilizza nulla di male), quando si è invece abituati al male, allora si parla di vizio che è un abito contro natura, ossia contro il fine ordinato della creatura.

Vi è certo il problema psicologico che ci rivela come l’atto umano sia complesso e che la difficoltà consiste nella continuità del bene, inteso come forza impulsiva di tutte le azioni, perché questa forza, repressiva del male, che minaccia il regno della volontà, specialmente nelle abitudini e nelle passioni, deve essere continuamente rafforzata. Di per sé le passioni, a d esempio, non sono né buone né cattive, ma è nella libera determinazione della volontà che esse assumono la valenza negativa o positiva, negativa se accolte, positiva se respinte.

È sempre l’uomo, la sua volontà, coscienza che determina alla luce dell’intelletto le azioni da compiersi. La dottrina della virtù, aretologia, coinvolge ogni individuo come persona, ossia nel corpo e nell’anima e ne determina la vita verso la beatitudine, che è congiunzione di virtù intellettiva e virtù morale seguendo la legge divina. L’orizzonte intellettivo umano, esprime la capacità che risplende alla luce di Dio.

Un ultimo aspetto è esaminato da san Tommaso, ed è quello relativo alla legge e al suo valore, in altre parole riflessione sulla noomologia. Bisogna distinguere. La legge non è di per sé un principio costrittivo estrinseco, piuttosto esprime la deliberazione al dovere, ossia all’obbligo, da parte dell’intelletto, che riconosce, alla luce della legge di Dio, una legge umana che appare come costruttiva, ma non lo è se risponde al criterio dell’armonia tra legge umana e legge divina. La legge umana è espressa nel tempo, ma non è relativistica, in quanto essa nel variare della storia, deve esprimere la sostanza fondamentale del fine cui è ordinato l’uomo, ossia il raggiungimento della beatitudine, che è stato promesso e realizzato da Dio con l’avvento, l’insegnamento, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. L’uomo cristiano, come dice anche Sant’Agostino nel de libero arbitrio (I, 5) “sembra non essere legge quella che non sia giusta”. Infatti, quanta più giustizia, che è conformità al bene e al vero, contiene una legge, tanto più questa è valida, perché si avvicina all’essenza stessa della legge-la legge positiva, ossia storica degli uomini, deve partecipare all’essenza della legge e così come tutti gli atti individuali dell’uomo. Ne consegue quindi che lo Stato, in quanto espressione organizzata della vita degli uomini orientati al bene comune, espresso nel bene civile delle leggi, deve essere giusto e non può varare leggi ingiuste, che contraddicono al principio stesso della legge.

 Una relazione importante tra individuo e insieme umano, tra libertà e coscienza, tra dovere morale e legge eterna e umana quella che individua San Tommaso il cui fine è quello di evidenziare come debba esserci sempre armonia tra l’intelletto e le azioni, ovvero tra il creatore e la creatura che riconosce con tutta la forza che gli è possibile e con tutta la libertà, che ha ricevuto come dono da Dio, che con la propria mente, il proprio cuore e la propria anima deve seguire la via della beatitudine che è anche contemplazione del Sommo bene, ossia Dio.

 
 

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S. Ildegarda di Bingen

 

 

Non si avrebbe un quadro preciso della riflessione nel Medioevo se non si considerasse anche la prospettiva della contemplazione e del misticismo, spesso da certo pensiero attuale, considerato quasi alla stregua di una prospettiva di magia e comunque di natura irrazionale. Una visione positivistica che non riesce nemmeno a tener presente che in Platone e in Aristotele apice della conoscenza è proprio la contemplazione, quella che è capace di porci in relazione con il fondamento di tutte le cose. A maggior ragione questa direzione ha anche il cristianesimo che l’ha espressa nel corso dei secoli, fino ad oggi, in modo intenso e vitale, Per il medioevo possiamo riferirci all’ambito cistercense o al Libro delle opere divine (Milano, Mondadori, 2003 di S.Ildegarda di Bingen (1098 –1179), “una piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio», è stata una benedettina, i suoi studi sono stati nel campo della teologia, della musica e della medicina. Diede un contributo alle scienze naturali, scrivendo due trattati, uniti nel nome Physica che raccoglievano, secondo lo stile dell’epoca, ossia la summa, tutto il sapere medico e botanico del suo tempo.

L’opera sua più nota è quella citata ed essa è frutto, come affermava S. Ildegarda di visioni non del cuore o della mente, ma dell'anima: Nelle visioni centrale è la persona umana che ricapitola tutte le creature (Ivi, p.33) ed è capace di relazione/conoscenza con Dio. “L’anima che è vita, è nel corpo fuoco vivente; invece il corpo è un’opera che è stata prodotta, e non è quindi in grado di trattenersi dall’operare secondo due strade diverse, o secondo il gusto della carne o secondo il desiderio dell’anima. L’opera buona dell’anima è come un bellissimo edificio al cospetto di dio e dei suoi angeli, ma la sua opera malvagia si presenta come un edificio fatto di fango e impregnato di moltissimo sterco” (Ivi, p., 385). La sua riflessione mistica che è tanto apprezzata da papa Benedetto XVI, che durante l’omelia di Pentecoste nel 2012, annunciò che a ottobre, in apertura del sinodo sulla nuova evangelizzazione, proclamerà dottore della Chiesa, dopo Teresa D’Avila, anche S. Ildegarda di Bingen proprio per la capacità di coniugare la dimensione del corpo e quella dell’anima al servizio di dio, Infatti, solo e soltanto quanto l’anima saprà vivere bina armonia con il corpo, allora l’uomo può tendere al bene sommo. Ben precisa Ildegarda di Bingen proposito della libertà: ” Pur sapendo che l’uomo può compiere le opere, il diavolo non sa quali opere egli voglia compiere; e quando si accorge che esso anela a Dio e a colui che lo ha creato dedica le sue opere, allora egli si accosta e cerca di suggestionarlo, dicendo:” Tu che ha il potere di fare ciò che vuoi, perché chiedi un altro di approvare le tue opere? Che c’è di male se compi le opere che sono in tuo potere, dal momento che colui che chiami tuo creatore ha fatto quello che ha voluto fare?”. (Ivi, p.895). È la considerazione della libertà negativa dell’uomo, ossia di quella che fa scambiare il volere in quanto dimensione psicologica contingente con il fare la volontà di Dio.

Anche con la grande mistica tedesca è riproposto il tema della coscienza, dell’anima che liberamente decide e il suo problema è il bene che deve decidere, non il male, perché questo appare come una deviazione dalla verità che è bene e giustizia consociate. Certo l’uomo non è perfetto, il corpo lo condiziona, la volontà lo distrae, l’intelletto può ingannarlo e così egli può compiere il male, ma egli non è creatura ordinata ad un fine malvagio. Infatti Dio al termine della creazione affermò: “E Dio vide che era cosa buona” ossia approvò il fatto che la sua opera fosse portata a compimento, pronta alla sua funzione e dotata di bellezza ad opera della sfera di luce che respira, messe in fuga le tenebre”. (Ivi, p.773).

Riflessioni sulla libertà della coscienza e della visione del tutto accompagna tanti altri pensatori del medioevo, e saranno anche spesso base per il mondo dell’umanesimo a partire da Francesco che Erasmo da Rotterdam, nel Ciceronianus, considerava il fondatore.

 

nr. 37 anno XVIII del 26 ottobre 2013

 

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