NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Belarbi, un corsaro a teatro

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Tra bellezza e difficoltà di comunicazione

Questa versione de “Il corsaro” è molto allegorica, è una storia di pirati e di mare e anche la scena della tempesta o la nave sono rappresentate in maniera molto delicata e simbolica. L’essenzialità è tipica della danza contemporanea e lei ha unito questa nuova tradizione con il linguaggio del balletto classico. Perché classico e contemporaneo sono visti come due mondi separati?

“Per me non sono separati. Ora faccio molto contemporaneo e moderno che mi hanno aperto enormemente su come posso attraversare il tempo, lo spazio e lo stile. Quando coreografo utilizzo tutto il mondo che ho conosciuto ed è importante perché ridà sangue alla danza classica, che non è qualcosa di vecchio ma qualcosa che la società di oggi, giovani e anziani, può venire a guardare. Ci vuole un rapporto facile ed accessibile perché il balletto classico a volte rimane molto lontano e non voglio questo”.

Nella danza classica troviamo spesso delle parti dedicate alla danza popolare e di carattere che però non fanno ancora parte dei cartelloni della stagione dei teatri. Almeno in Europa solo il flamenco e il tango vengono proposti nella stagione. Le danze sudamericane e africane hanno trovato una loro espressione nella street dance e nell’hip hop che vediamo nella danza contemporanea. Ora va molto di moda la danza araba e orientale, però c’è molta confusione sugli stili e sui maestri di riferimento. Le danze arabe e orientali potrebbero entrare nei teatri come il flamenco o il tango?

selim (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)“È sempre una questione di gusto: se è una cosa da fare folklore, tipo brutti musical o cose turistiche o trash allora non è assolutamente possibile. Conosco delle danze orientali che vengono suonate come musica classica, con le orchestre ma anche con strumenti tipici. Io ho fatto una cosa con Houria Aichi, viene spesso anche in Italia, ha una voce gutturale molto bella e faceva dei canti cavallereschi del XIV secolo, Kenzo aveva fatto i costumi e c’era anche un calligrafo turco molto conosciuto, lei cantava come se fosse stata mia madre, mia sorella, la mia amica, e lo spettacolo si chiamava “Selim”. La coreografia era di Michel Kelemenis, coreografo contemporaneo che è a Marsiglia e quindi questo è legato alle mie origini arabe. Io sono stato uno dei primi danzatori arabi all’Opera di Parigi negli anni ‘80, ed è importante poter vedere che nella mia compagnia, oggi, ci sono 35 danzatori di 17 nazionalità, che è tantissimo. C’è un grande mix di tutte le culture e le scuole e questo è meraviglioso. Per me è importante essere un balletto con una apertura su altri stili coreografici, sia su quelli che ho fatto io ma un balletto del 2014 non è unicamente una vetrina accademica del XIX secolo, non è per me, un balletto vivo oggi è questo”.

I paesi del Mediterraneo sono quelli che più stanno soffrendo per la crisi economica e politica. In questi casi, la prima cosa che viene tagliata è la cultura. C’è un rischio concreto che le tradizioni culturali vengano perse e che venga persa anche la ricerca che permette a queste tradizioni di evolversi e di essere tramandate?

“Prima cosa per me: la cultura è essenziale nella vita di tutti i giorni. Se non si sogna, si muore. Dipende dai politici. È vero che in una crisi economica la prima cosa che si sacrifica è la cultura, perché non è considerata utile ed è sbagliato perché nei momenti di crisi la cultura è avanzata moltissimo grazie a gente che si è battuta per trovare e realizzare idee senza soldi. Quando si decide che la cultura non esiste più, si fa morire un popolo. Ci sono dei movimenti che in questi momenti di crisi o di guerra sono andati avanti ed è interessante: è doloroso, perché a volte non si mangia nemmeno. Bisogna battersi perché la cultura rimanga sempre qualcosa di importante nello spirito di tutti, compresi i politici. La cultura va sempre difesa, con o senza soldi. Ci sono delle identità culturali che possono essere protette anche nel folklore: sia in Spagna che in Italia, ci sono delle regioni che sono molto più forti perché si riassemblano in piccoli comitati per salvaguardare le identità della lingua, dei dialetti ma anche delle danze, dei costumi, o della cucina e in tutto questo le associazioni si rafforzano perché preservano e restano e ci sarà una forma di trasmissione, poiché quando la crisi sarà passata la gente scoprirà queste cose e le apprezzerà. Bisogna resistere”.

Secondo lei qual è la cosa più importante nell’incontro tra artista e pubblico?

“Ciò che non si vede. Per me il pubblico è importantissimo, ci vuole mediazione culturale, ho fatto un parternariato con la Cinémathèque a Toulouse, worskshop coreografici per tutti, dai più piccoli agli anziani: ciascuno può trovare un suo contatto diretto con la danza. Poi si parla con la gente e i danzatori. Per me questo serve a iniziare il pubblico, a fargli scoprire un mondo.

Tra bellezza e difficoltà di comunicazione (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

nr. 09 anno XIX dell'8 marzo 2014



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