Parte XIV
Introduzione
La riflessione sulla libertà di coscienza ebbe in Inghilterra la sua massima espressione nel XVII secolo con J. Locke, ma anche negli altri paesi europei la tematica ebbe sviluppi, anzi in Francia con Blaise Pascal (I623-1662) e il libertinismo trovò nuova elaborazione.
Il pensatore francese con la sua riflessione ha, insieme alla corrente religiosa del giansenismo, ha dato nuove e interessanti prospettive, che ancor oggi esercitano una certa influenza soprattutto nell’ambito della visione della fede come cammino interiore che si abbandona, fiducioso nella Grazia che Dio può concedere. Non sono molti i pensatori che hanno compreso la natura dell’uomo, la sua difficoltà esistenziale, la sua infelicità di fronte ad una ragione che illude di potere spiegare tutto, di fronte a quel nascere dello scientismo, oggi di moda, che è indifferente, quando non è negatore della realtà trascendente. L’uomo con la ragione diviene “superbo” e non consoce più se stesso e tutta intera la sua complessità. Si fida della sola scienza, che invece ha solo risposte parziali. L’uomo non è che una canna al vento (Arundo donax), ma è capace di pensare, tanto che la dignità dell’uomo è proprio questa sua capacità, che gli consente di nobilitarsi, ma anche di degenerare o illudersi o presumere di non aver necessità che di se solo e non di Dio e Gesù Cristo.
B. Pascal fu educato alla cultura classica cui teneva molto il padre, ma fin da bambino si applicò a quella scientifica, nonostante i divieti del genitore. La sua importanza è nel campo delle scienze ed in particolare nella matematica e nella fisica. Porta il suo nome un’unità di misura nel Sistema internazionale: il “pascal” (simbolo Pa) che è un'unità di misura derivata del Sistema internazionale. Il pascal è l'unità di misura della sollecitazione e come caso particolare della pressione, è equivalente ad un "newton" su metro quadrato e riguarda i fluidi, legge di Pascal, questa stabilisce che quando avviene un aumento nella pressione in un punto di un fluido confinato, tale aumento è trasmesso anche ad ogni punto del contenitore. Elaborò inoltre diversi teoremi. Di uno non diede la dimostrazione ma solo l’enunciato nel 1654 (Descrivere un cerchio tangente a due cerchi dati e secante un retta data sotto un angolo noto o una sfera tangente a tre sfere date e secante un piano dato dotto un angolo noto. Tracciare un cerchio tangente a due cerchi dati e secante una retta data sotto un angolo noto) ; questa sarà elaborata per due aspetti dal giovanissimo Henri Bergson (1859-1942), nel 1877(cfr. P. Valery, H. Bergson, a cura di I.F. Baldo, Vicenza, Editrice Veneta, 2006, pp.25-27). Nota è l’invenzione che Pascal fece di una macchina calcolatrice, la pascalina” nel 1642.
Accanto al sapere matematico-fisico Pascal partecipò da protagonista al dibattito intorno a temi fondamentali, tra cui la libertà, del cristianesimo nella Francia del XVII secolo, dove le prospettive indicata dai gesuiti e quelle del vescovo olandese Giansenio erano questioni anche polemiche e avevano trovato nel convento di Port-Royal la loro sede. Sul tema dell’uomo di fronte alla verità rivelata e quindi sulla libertà, il pensatore francese ci ha lasciato diverse opere, Le Lettere provinciali, gli Écrits su la grâce e, in particolare, quella grande serie di riflessioni, nota come Pensieri, che hanno avuto ed hanno grande diffusione, anche se oggi qualche insegnante tende a minimizzare l’importanza di questa raccolta e dimenticare (?) pure la statura scientifica di Pascal.
Da ricordare inoltre che i Pensieri ebbero larga diffusione fin dalla fine del XVII secolo, a Vicenza furono pubblicati da A. Veronese in due tomi nel 1767 nella traduzione di Carlo Francesco Badini (terza edizione nel 1790).
Pascal entra nel dibattito della sua epoca e ne fornisce prospettive nuove perché ritiene che il sapere matematico, pur nella sua importanza non fornisca le risposte che l’uomo pone con le sue domande a se stesso, la sua anima, al mondo e a Dio. La matematica, che consociamo con l’esprit de geométrie ha principi precisi, !”ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza d’abitudine; ma per poco che la si volga ad essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra principi così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano.” B. Pascal, Pensieri, tr. e Introduzione e note di P. Serini, Torino, G. Einaudi, 1967, Reprint, p.5.
La scienza matematica e la fisica non forniscono che riposte precise sulla costituzione del mondo, non sul suo significato. Per questo è necessario un’altra modalità, l’esprit de finesse, i suoi “ principi sono nell’uso comune e dinnanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta avere buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principi noti” (Ibidem).
La via che l’uomo deve intraprendere con retta ragione per comprendere se stesso, il mondo e Dio è quella dove egli “gioca” un vero ruolo a protagonista. Non è un essere nelle sole mani di Dio, ma attivo nelle decisioni, che non hanno il carattere delle dimostrazioni scientifiche, ma quello di essere risposta autentica ai quesiti dell’uomo.
È il problema che da Lutero pervade la riflessione anche in certo mondo cattolico, che oscilla tra due prospettive. La prima che intende – afferma Pascal – (pensiero n.108, p.40) o per forza di ragione o per autorità, L’altra che coinvolge direttamente la coscienza d’ogni uomo in se stessa. Non si tratta, infatti, di affidare alle “prove metafisiche di Dio“ (pensiero n.111, p.41) che “ sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci”. Queste “prove” conducono alla conoscenza semmai di Dio non di Gesù Cristo, che indica lui stesso la via: “ Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Giov., 8, 31-32).
La fede è coinvolgimento personale e della propria coscienza libera che, come vedremo, “sceglie” o, meglio “ scommette” sull’esistenza di Dio, della Rivelazione che coinvolge tutta la vita dell’uomo, nonostante egli sia una “canna al vento” quando non segue “la sua vera natura, il suo vero bene, la vera virtù e la vera religione” (pensiero n.420, p.193).
C. Giansenio
A questa prospettiva Pascal approdò dopo aver conosciuto e compresa la visione del vescovo olandese Cornelis Jansen (latinamente Giansenio) (1585-1638) Divenuto nel 1635 vescovo di Ypres, cittadina delle Fiandre, riteneva che si dovesse rafforzare l’autorità dei vescovi contro quella degli ordini religiosi, in particolare della Compagnia di Gesù che si poneva, allora, come strenua difesa dell’ortodossia, stabilita dal Concilio di Trento, e del suo riferimento a San Tommaso d’Aquino. Giansenio riteneva che si dovesse ritornare alla teologia di Sant’Agostino, che rispondeva, secondo la sua visione, meglio alle domande fondamentali dell’uomo. In questo si mostrava vicino a Michele Baio (originale francese Michel de Bay (1513–1589), il teologo belga, fondatore del baianismo, dottrina che sosteneva tesi molto vicine a quelle di Lutero e Calvino. Proprio la vicinanza alle teorie del Baio che considerava, come Lutero, come efficace solo la Grazia, donata da Dio, suscitavano almeno qualche perplessità nell’ambito della gerarchia cattolica. Gli scritti di Giansenio iniziarono ad essere considerati eterodossi e in particolare l’Augustinus, seu doctrina s. Augustini de humanae naturae sanitate, aegritudine, medicina adversus Pelagianos et Massilienses, pubblicato anonimo, dopo la sua morte, nel 1640. L’opera fu condannata, appariva troppo vicina alle proposizioni luterane e calviniste in merito alla Grazia e alla predestinazione. Infatti, estremizzando il pensiero di Sant’Agostino che riteneva l’uomo inficiato a fare il bene dopo il peccato originale se non fosse intervenuto Dio e la sua Grazia, che Dio stesso concede a suo imperscrutabile giudizio, indipendentemente dai meriti, opere buone preghiere ed è una concessione che non è elargita a tutti i battezzati. La necessità quindi di affidarsi solamente a Dio, come nella visione dei riformati, assumeva una particolare valenza e contrastava con la dottrina della Chiesa Cattolica e la visione dei gesuiti ritenevano la salvezza come sempre possibile per l’uomo dotato di buona volontà secondo la riflessione del gesuita Luis de Molina (1535-1600). Giansenio poneva elementi di riflessione importanti, tanto che il giansenismo fu ripetutamente condannato dai Sommi pontefici, da Urbano VIII nel 1642 con la bolla In eminenti, da innocenza X con Cum Occasione del 1653 e le bolle Ad sanctam beati Petri sedem del 1656 e Regiminis Apostolici del 1664 di Alessandro VII.
Pur condannato dalla chiesa cattolica, il giansenismo si sviluppò nelle Fiandre (Belgio e Paesi Bassi) e in Francia, dove ebbe come centro l’abbazia di Port-Royal, dove operarono A. Arnauld e B. Pascal. Entrò in contrasto non solo con gerarchia cattolica, la Compagnia di Gesù, ma anche con la stessa monarchia di Luigi XIV. Nel 1709 l’abbazia fu soppressa, anzi distruitta nel 1712. Il giansenismo però non morì, riaffiorò qua e là anche in Italia nel settecento, contestando l’autorità del papa per favorire quella dei vescovi, e l’assolutismo regio.
In Italia ebbe diffusione in Toscana con l’opera dell’abate Pietro Tamburini (1737-1827) e del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de' Ricci (1740-1810), che coinvolsero clero e perfino il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo (1747-1792), organizzando il Sinodo di Pistoia per promuovere il Giansenismo. Tale sinodo fu poi condannato da papa Pio VI con la bolla Auctorem Fidei del 28 agosto 1794. Qualche prospettiva giansenista si ritrova nel regno di Napoli, Tra i maggiori personaggi, che ebbero influenze gianseniste ricordiamo Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nella sua considerazione della "natura dell'uomo sì debole e corrotta e cotanto inclinata sin dalle fasce alla malizia e al male": Concetti espressi nella lettera autobiografica a Giovanni Artico conte di Porcia. (in Epistolario di L.A. Muratori, edito e curato da M. Campori, Modena, con i tipi della Società tipografica modenese, 1901-1922, 14 v., V, 1715-1721, 1903, pp. 2131-2154, lett. 1999, da Modena, 10 novembre 1721). I genitori di Giuseppe Mazzini appartenevano ad una piccola setta giansenista e elementi di giansenismo si ritrovano anche in Alessandro Manzoni (1785-1873) e Jean Racine (1639-1699).
Port-Royal
Il luogo principale della nuove prospettive religiose in Francia fu senza dubbio l’abbazia di Port-Royal, nella zona parigina della Chevreuse, fondato nel 1204 da Matilde di Garlanda, In essa risiedevano delle religiose cistercensi. Nel XVII secolo per opera della badessa Jacqueline Arnauld (mère Angélique), risorse per la sua opera di riforma e di ritorno alla primitiva regola benedettina. Nel 1626 le suore si trasferirono a Parigi in alcuni edifici situati nel Faubourg Saint-Jacques; il movimento assurse con l’abate Jean Duvergier de Hauranne (1581-1643) abate di Saint-Cyran-en-Brenne a grande fama e accolse “ i solitari” tra cui il grande teologo A. Arnauld, Le Maitre de Sacy, P. Nicole e lo stesso B. Pascal.
Con le prospettive dei “solitari”, in particolare le Lettere provinciali di Pascal e le innovazioni anche pedagogiche che le suore avevano realizzato, le famose Piccole scuole di Parigi, come collegi preparatori all’università, l’ambiente di Port-Royal fu sempre più inviso alle autorità e alla Compagnia di Gesù, che operò per la soppressione, dato che temeva il diffondersi del giansenismo. Fu così che si operò la soppressione dell’abbazia e alla dispersione delle benedettine, lo stesso storico edificio fu demolito per ordine del re, Luigi XIV.
Certamente l’approfondimento delle tematiche gianseniste fu bruscamente interrotto, ma le indicazioni soprattutto di Pascal nella differenziazione tra sapere scientifico, esprit de geométrie, e la dimensione della fede, esprit de finesse, hanno dato nuove prospettive in particolare nell’ambito della relazione uomo-Dio, che il pensatore portò ad una considerazione che anche oggi ha grande peso. Dio non è una dimostrazione, né può essere una riflessione razionale, egli è la mia grande scommessa, nella quale coinvolgo tutta la mia esistenza. È considerato da alcuni interpreti come un anticipatore della filosofia esistenzialista, quella che il danese S. Kirkegaard (1813-1855) elaborò nell’Ottocento, ma che ha numerosi seguaci anche in coloro che nel mondo cattolico, ritengono che Dio sia “una scelta” nella quale l’uomo gioca se stesso.
Canne al vento
1. La visione dell’uomo di Pascal
La visione antropologica di Pascal è molto chiara e precisa; infatti “ la vera natura dell’uomo, il suo vero bene, la vera virtù e la vera religione sono cose la conoscenza delle quali è inscindibile” (pensiero n.450, p.194) e la natura dell’uomo, canna al vento, è quella di riconoscersi in Dio, perché “l’uomo è fatto per Dio” (pensiero n.452, p.194) e pur avendo l’uomo perduto questo diretto riconoscersi in Dio con il peccato originale; così, obliando la sua vera natura, scambia i beni terreni per vero bene, ma la sua miseria non inficia la possibilità di una sua gloria, che viene da Dio stesso. Certo l’uomo pur comprendendo ciò, non sempre si serve della propria ragione, ma se con fiducia si accoglie la vera religione, per Pascal è solo il cristianesimo, allora con l’aiuto di Dio e la sua Grazia, sempre presente nel mondo, può, amando se stesso e gli altri iniziare quel disciplinato cammino verso Dio.
Per quest’itinerario non sono necessarie le scienze, ma un pensiero volto costantemente a Dio, in questo sta la dignità e il pregio dell’uomo: “ L’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente. Ora, l’ordine del pensiero esige che cominci da sé, e dal suo autore e dal suo fine. Ora, a che pensa la gente? Mai a questo; bensì a ballare, a suonare il liuto, a cantare, a far versi, a correre all’anello, ecc., a battersi, a farsi re, senza pensare a quel che significa esser re, ed essere uomo.” (pensiero n.177, p.78)
Il primo e grande scopo dell’uomo è sapere di se stesso e del suo creatore. Senza questo sapere vana è la vita dell’uomo. La coscienza, non il freddo indagatore intelletto, addita all’uomo la sua vera natura, che è il riconoscimento della centralità di Dio nella vita: ” Tra noi e l’inferno o il cielo c’è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo.” (pensiero n.194, p.89).
L’uomo deve amare la verità, ossia Dio; l’ateismo è”indizio di forza intellettuale” sostiene Pascal “ ma solo sono a un certo punto.” (pensiero n.208, p.91). Nel riconoscimento di Dio sta la grandezza dell’uomo, ma le “prove” dell’esistenza di Dio non garantiscono nulla, l’uomo deve giocare se stesso, la propria coscienza, tutto il suo essere nell’universo: ” L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Miri a quella luce sfolgorante, collocata come lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto a quello descritto dagli astri rotanti nel firmamento…Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile dell’ampio seno della natura. Nessun’idea vi si approssima. Possiamo pur confinare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero.” … insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualche cosa di mezzo tra il tutto e il nulla…. Impariamo, dunque a conoscere le nostre capacità…il nostro intelletto tiene nell’ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il nostro corpo nell’immensità della natura. (parti del pensiero n.223, pp.97-105).
Se si occupa l’animo in simili questioni, allora, dirà anche I. Kant in Storia e teoria del cielo, conclusione, l’uomo apparirà nel suo grande valore, ma questo è la libertà della sua coscienza di fronte a ciò che è fondamentale. Prima di tutto comprendere e decidersi su Dio, poi orientare tutto a Lui nella speranza della sua Grazia salvifica, senza farsi ingannare dai sensi, dalle apparenze, dalla stessa ragione, dalle miserie che avvincono l’uomo e tra tutte queste la distrazione che ci conduce alla morte senza aver meditato su quanto è invece importante. La scienza, la stessa filosofia sono insufficienti nel destino dell’uomo, esse si servono della ragione. In particolare la filosofia che afferma principi e contemporaneamente i loro opposti, si rivela incapace di dare risposte autentiche all’uomo. Essi affermano Dio, ma senza Gesù Cristo, e quindi hanno della divinità solo visioni parziali, perché manca loro quella prospettiva completa che solo il Figlio di Dio dà all’uomo (cfr. pensiero n.806, pp.351-355).
Pertanto bisogna andare oltre; è necessario che l’uomo rischi se stesso nell’affermare o non affermare che Dio esista. Questa la scommessa fondamentale della vita e della coscienza dell’uomo.
2. La scommessa
I pensieri dal n. 161 al n.172 di Pascal, come sono numerati nell’edizione citata, raccolgono l’argomento della “scommessa”; essi mostrano la grande attenzione che il pensatore ha dato nei confronti del problema fondamentale, che investe tutto l’uomo, non alcuni suoi aspetti, che sono ognuno in sé importante, ma mai decisivo, come lo è invece quello del fondamento stesso. La natura dell’uomo esige la visione completa, mai quella parziale. Con la prospettiva parziale si delinea una visione riduttiva dell’uomo e si apre a quel relativismo che nel mentre esalta la parte, finisce con il negare tutte le altre. Non si tratta della relatività delle conoscenze intellettuali- scientifiche- umane, ma della visione che finisce con il negare la complessità e globalità dell’uomo in tutti i suoi aspetti. Lo scientismo ma anche il moralismo, e il totalitarismo sono figli di prospettive parziali, incapaci di congiungere armoniosamente tutto ciò che riguarda l’interiorità e l’esteriorità dell’uomo, ponendolo pur nella sua caducità come essere nella dignità di una possibile salvezza.
Così l’uomo si trova di fronte alla domanda cruciale: ” Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista; che l’anima sia con il corpo e che noi non abbiamo anima; che il mondo sia creato e che non sia tale; che il peccato originale sia e che non sia.” (pensiero n.161). In questa crucialità la vita dell’uomo finita si arrischia nella visione dell’infinito, di cui avvertiamo l’esistenza ma ne ignoriamo la natura (pensiero, 163), tanto che si può affermare che possiamo conoscere che Dio esiste senza sapere che cosa è. Certo, grazie alla fede conosciamo la Sua esistenza e “ nello stato di gloria consoceremo la sua natura” (ivi), ma per l’uomo sulla terra continuamente si ripropone il quesito: se esista ciò che si pensa esista e quale la sua natura, perché il finito non può certo conoscere, ma solo supporre l’infinto. Esso è incommensurabile, eppure suscita continuamente, nell’uomo intelligente e libero, la domanda. Può sembrare una “pazzia”, come sosteneva Erasmo da Rotterdam, la fede, perché lo spirito razionale esigerebbe delle “prove”, ma queste sono sempre insufficienti, perché la razionalità stessa appare incapace di dare risposte ultime. Bisogna andare alla radice del problema, una sorta di riduzione eidetica come chiamerebbe ciò E. Husserl, il padre della fenomenologia filosofica e operare, come sostiene E. Stein, empaticamente, perché la domanda: “Dio esiste o no? (pensiero n.164) è alla radice dell’esistenza dell’uomo stesso.
La ragione di fronte a questa domanda non può determinare nulla, si tratta di scegliere: o testa o croce. Ogni uomo è obbligato e direttamente responsabile della scelta che compie, anche se la tendenza sarebbe proprio quella di “non scommettere punto”, ma “scommettere bisogna” non dipende dalla volontà, ma lo esige l’uomo stesso di fronte a questo problema. Dunque scommettiamo” senza esitare che Dio esiste”. Senza frapporre alla questione la ragione, l’uomo coinvolto totalmente deve rischiare per un guadagno, comunque incerto. Sembrerebbe che la percentuale sia, come per testa e croce, al 50% e ben difficile calcolare la probabilità della vincita o della perdita. Non può non scegliere, non è libero di evitare la questione, che non gli dà requie e quindi non fondandosi sul calcolo, ma sulla natura stessa di una scommessa, scommette. Infatti colui che azzarda ritiene sempre di aver scelto il meglio, l’esito migliore e ben difficilmente egli riterrà, prima che tutto si compia, di aver errato nella sua valutazione. Per questo la scommessa non può che orientarsi verso l’esistenza dell’infinito bene, ossia Dio, perché ritenere che non esista, non può porsi il m,miglior rischio e di ciò ben ci rendiamo conto, dato che la non esistenza di Dio non è giudicata come il bene e la non esistenza può facilmente portare a considerare che, non essendoci qualcosa di bene, tutto diviene lecito, come sosterranno i libertini, di cui parleremo.
La strada non è quella delle prove di Dio, continuamente ripete Pascal, ma nella diminuzione delle passioni umane che impediscono la fede di cui non si conosce il cammino, perché le si frappone l’incredulità nel mentre si chiede proprio il rimedio ad essa. Si tratta delle ragioni del cuore non di quelle del discorso delle certezze; s’intuisce e si vive il fondamento (cfr. P. Serini, Pascal, Torino, Einaudi, op. cit., p.241
La strada non è quella della razionalità, ma dell’esempio di coloro che credono, nella Scritture pertanto l’agire nella vita con fede e nulla si ha da perdere se non le passioni che distolgono l’uomo dal suo vero fondamento. Ben affermerà I. Kant ne L’unico argomento possibile per la dimostrazione di Dio: “E in tutto e per tutto necessario che ci si persuada dell’esistenza di Dio, ma non è proprio così necessario che la si dimostri.” (in Scritti precritici, a cura di R. Hohenemser, Roma-Bari, Laterza, 1982, p112-116).
L’uomo scommette dunque che esiste Dio, è un rischio? Certamente, ma un rischio che vale la pena di correre, dato che il contrario, che può essere praticato, non conduce a miglior vita. Certo e nella seguente domanda la risposta pascaliana “ Coloro che sperano nella loro salvezza, sono per quest’aspetto felici, ma, in cambio, soffrono per la paura dell’inferno. Risposta Vi ha maggior motivo di temere l’inferno: chi ignora se ci sia un inferno e vive nella certezza della dannazione, se c’è, oppure chi vive nella sicura convinzione che c’è un inferno e, se questo esiste, nella speranza di salvarsi?” (pensiero n.170).
Non vi è, né potrebbe esservi una risposta univoca, ma appunto un rischio nella scommessa. Ad ogni uomo spetta il rischio e la riflessione su che cosa sia bene. La coscienza d’ogni uomo non è nella solitudine della decisione e nello stabilire che cosa sia bene, ma ha il confronto e il conforto della relazione con coloro che professano la fede. Non si tratta di una scommessa che rivela una libertà di coscienza alla J. Locke, semmai di una libertà della coscienza che scommette il significato della sua vita. Non un’adesione ad una vaga religione naturale, ma un rischio che l’uomo gioca per riconoscere al proprio, ritenuto fondamento, una validità e nel considerare Gesù Cristo, in tutte le persone e in noi stessi (pensiero n.288, p.338), un maestro di vita in tutto e di tutti gli uomini che seguono la verità. Hanno scommesso che la verità è il Cristianesimo e quindi ciò esige da loro molto, ma molto riceveranno. Non ne saranno mai sicuri come desidererebbe la ragione, ma la vita è ben oltre la sola ragione.
Si tratta d’autentica libertà, quella che trascende la dimensione della contingenza, e che pensa e vive l’armonia di là dalla natura umana in sé conchiusa, capace di bastare a se stessa e ritenere la via della felicità solo nell’orizzonte terreno, come chiedevano i libertini che negavano valore alla fede, considerandola come superstizione e strumento del potere politico. Pascal rifiuta proprio questa visione della libertà perché ne intravede l’arbitrarietà; non oppone una prova, ma una scommessa nel quale l’uomo gioca tutto se stesso e non si nasconde nella facilità delle cose comuni, quelli che soddisfano nel momento, ma fanno perdere quella dimensione di ricerca d’infinito di cui l’uomo, secondo Pascal, è portatore per sua stessa natura, che è natura creata da Dio infinito.
nr. 14 anno XIX del 12 aprile 2014