NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
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Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo idealismo: J.G. Fichte

Parte XX

di Italo Francesco Baldo

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Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo i

J.G. Fichte

 

Introduzione

Due furono le principali novità che la Rivoluzione francese introdusse, la prima quella che tutto quello che riguarda l’uomo è una questione politica e il suo orizzonte altro non può essere che quello della vita associata e delle regole che essa stabilisce per se stessa e alle quali ciascun membro deve aderire, anzi appagarsi perché lo Stato con le sue leggi lo appaga. La seconda è che lo Stato è il frutto di un popolo e della sua identità, che lo rende nazione, a prescindere dalle differenze, anzi riducendole o negandole addirittura, perché ciò che ha impedito ai popoli d’essere protagonisti della storia è stato l’egoismo che è diventato la norma sia di coloro sia governano, i sovrani assoluti e le loro corti, sia di tutto il popolo. Quest’ultimo però ha l’indubbio vantaggio di rimanere tale anche nella corrutela. La Rivoluzione francese intese porre rimedio alla corruzione/egoismo dei governanti, con “gli illuminati”, esponenti della società e addirittura del clero, ma non riuscì che a fornire una parvenza di un nuovo ordine alla decaduta nazione francese. Né rinnovamento vero fu possibile allorché “si esportò” la rivoluzione, la sua gloria e il suo onore; essa non generò un nuovo ordine nei paesi conquistati, ma solo la nostalgia del vecchio. Solo pochi ebbero la capacità di comprendere il fallimento della Rivoluzione francese, furono i liberali inglesi da un lato (cfr. L’antico regime e la Rivoluzione di Alexis de Tocqueville 1805-1859) e dall’altro gli esponenti della nuova filosofia, l’idealismo, che si andava affermando. Costarono cercarono di uscire da quel totalitarismo politico che la Francia aveva proposto, ossia il potere onnipervasivo dello Stato e delle sua istituzionie, che si riduceva al potere della burocrazia e dei suoi gestori (manager e amministratori) demandando alla magistratura il controllo, ma questo risultava impossibile perché i giudici stessi erano organici alla burocrazia che avrebbero dovuto combattere. Il risultato fu il potere della polizia, ossia del terrore.

 Gli idealisti superarono la visione riduttiva dei rivoluzionari, tutto è politica, e proposero una nuova direzione, quella della nazione che incarna lo spirito di un popolo e lo rende “nazione”. Furono “educatori” del popolo, della classe diranno i marxisti. Ben ha espresso ciò il filosofo J.G. Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca, scritti tra il 1807/08 nel pieno dell’occupazione francese di Berlino, ma anche della resistenza dopo il fallimento dell’assedio di Kolberg del 1807, tentato senza successo dalle truppe napoleoniche.

 Il filosofo, che aveva pubblicato parti dal Principe di N. Machiavelli con il significativo titolo Estratto dall’appello per liberare il paese dal giuoco dei barbari (i francesi) invasori, con chiarezza afferma: “ l’aurora del nuovo mondo è già spuntata, e già indora le cime dei monti e ci figura il giorno che verrà. Per quanto è in mio potere io voglio raccogliere i raggi di quest’aurora e condensarli in uno specchio, e porgerlo a questa nostra desolata generazione, perché ci si guardi e si convinca che è ben viva, e nello specchio le appaia la sua vera essenza e gli sviluppi e le ulteriori forme di essa le sfilino innanzi in profetica visione. In tale visione l’immagine della sua vita passata svanirà, dileguerà, e il cadavere potrà essere portato al suo estremo riposo senza troppe lagrime e senza troppi lamenti.” (Discorsi alla nazione tedesca, a cura di B. Allason, Torino, UTET, 1939-XVII, p 43).

Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo i (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Il sole nascente fu ed è l’emblema di molti movimenti, particolarmente di quelli originati dal pensiero di K. Marx, ma fu, purtroppo, più un tramonto di molte vite, sacrificate alla coniugazione di una visione totalitaria non solo in politica, ma come concezione e immagine dell’uomo o come supremazia di una classe o di una nazione, dove non la libertà e nemmeno la coscienza sono i tratti distintivi, ma la necessita ineludibile di un fine, che è posto al di sopra degli individui, perché è espressione dell’intero. È l’idea concepita come unità di essere ed essenza che si fa immanente nella storia, divenendo idea reale, dapprima come spinta/ movimento, poi come progresso ed infine come condizione assoluta ed eterna.

 

L’idealismo

Tra le correnti filosofiche dell’Ottocento l’idealismo è senz’altro, insieme al positivismo, una delle più note. Nata nell’ambito degli studi filosofici tedeschi, ha avuto esponenti di grande rilievo: J.G. Fichte, G.W.F. Hegel e F. Schelling), ma soprattutto seguaci diretti ed indiretti che hanno influenzato in modo preciso il corso della storia. Come non ricordare Karl Marx, attraverso il quale spesso si legge la filosofia hegeliana.

 L’idealismo ha avuto poi particolare fortuna più che nella Germania, dove fiorì l’antihegelismo, in Italia, dapprima con i circoli culturali del Regno delle Due Sicilie, a Napoli con il più noto esponente Francesco De Sànctis (1817-1883) che con la sua Storia della letteratura italiana (1870-71) introdusse la predominanza della visione critica nell’analisi della letteratura, e in questo contrastando con la visione del vicentino Giacomo Zanella che considerava la critica come “pietrificante” l’amore per la poesia.

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Bertrando Spaventa

 

 Meno noto, ma filosoficamente più rilevanti furono i fratelli abruzzesi Bertrando e Silvio Spaventa prozii di Benedetto Croce, che ebbero la sua tutela dopo il terremoto di Casamicciola (Ischia) nel 1883 nel quale il futuro pensatore perse tutti i componenti della sua famiglia. Bertrando, intraprese gli studi ecclesistici e fu sacerdote fino al 1848, quando si avvicinò al pensiero hegeliano e lo sviluppò. Fu liberale e a favore dell’unità d’Italia; insegnò nelle università di Modena, Bologna e Napoli; la sua riflessione filosofica cercò di portare il pensiero italiano nell’ambito di quello europeo, in particolare quello di Hegel, richiamandosi anche a G. Bruno e a G.B. Vico, (cfr. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Bari, G. Laterza e Figli, 1909. Il fratello, Silvio, fu uomo politico e il suo liberalismo si richiamava allo Hegel, fu esponente della destra storica e in questa veste si preoccupò molto del neo nato Regno d’Italia in sede parlamentare.

 Ma non solo lo Hegel ebbe seguaci in Italia, sostenitore del grande valore della filosofia idealistica fu Donato Jàja (1839-1914), professore di filosofia teoretica all’Università di Pisa, che seguì le orme di Bertrando Spaventa, ma sviluppò anche un suo originale pensiero (cfr. Saggi filosofici, Napoli, D. Morano, 1886). Fu maestro di G. Gentile che si richiamò anche a Fichte nell’elaborazione della sua filosofia (cfr. P. Gregoretti, Filosofia dell'azione e filosofia dell'atto puro. Nota circa il problema della genesi dell'attualismo, in A. Russo, P. Gregoretti (a cura di) , Ugo Spirito. Filosofo, giurista, economista e la ricezione dell'attualismo a Trieste, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2000, pp. 178-183).

I più noti “idealisti italiani” che fondarono il neoidealismo italiano furono senza dubbio Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che hanno influenzato e in parte influenzano ancora gli sviluppi culturali in Italia e particolarmente nell’ambito problematico della coniugazione della teoria e della prassi, che Gentile concepì come una formazione educativa progressiva che aveva il suo apice nel Liceo classico, come predispose nella riforma del 1923, che resta a tutt’oggi un punto di riferimento, nonostante le pasticciate riforme che si susseguono ad ogni governo.

 L’idealismo quindi fu un movimento di rilievo, che prende le mosse dalla disamina critica del pensiero di I. Kant sia nella prospettiva della fondazione della scienza sia in quello della libertà morale; nel filosofo Fichte ciò è particolarmente evidente.

 

Johann Gottlieb Fichte

 Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, Lusazia sup., 1762 - Berlino 1814), seguì dapprima la concezione filosofica di Kant, tanto che il suo primo lavoro, il Saggio di una critica di ogni rivelazione del 1792 (ed. recente a cura di M. M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 2012) uscito per disavventura tipografica anonimo, fu attribuito al pensatore di Koenigsberg che successivamente, nello stesso anno, pubblicherà La religione entro i limiti della sola ragione. Da questa vicenda la Germania conobbe un nuovo filosofo, il cui pensiero, per affermazione dello stesso pensatore, altro non è che un’analisi della libertà nella scienza e nella vita associata. La sua più importante opere è senz’altro la Dottrina della Scienza che occuperà fino alla fine il suo interesse con continue elaborazioni, correzioni e rielaborazioni, ben messe in evidenza dal filosofo vicentino G. Rametta nei suoi studi (cfr., Fichte, Roma, Carocci editore, 2012). Quest’opera doveva costituire il fondamento di ogni sapere filosofico anche in relazione alla religione, tanto che nel 1806 il pensatore nella sua Iniziazione alla vita beata, un commento filosofico, ma a livello popolare, al Vangelo di Giovanni, applica i risultati della Dottrina della scienza proprio alla religione. A tale proposito cfr. anche J. G. Fichte, La destinazione dell'uomo, tr.it. R. Cantoni, a cura di C. Cesa, Roma-Bari, Laterza, 2001)

Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo i (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)L’uomo è se si esprime nella vita teoretica perché in essa risiede la sua massima libertà anche quando incontra ciò che è altro da sé, nel superamento (Aufhebung), ossia nella coscienza della relazione, che appare di opposti (contrari e contraddittori), ma solo per necessità logica di conoscenza, non per effettiva opposizione. Ciò che si pone è l’Io e l’Io oppone a se stesso un Non Io, quindi solo l’Io ha autentica consistenza reale, il suo opposto è tale perché l’io lo considera tale, non perché lo sia ontologicamente. Il superamento è dato dalla coscienza dell’opposizione, che afferma l’Io come Assoluto, ovvero libero dall’opposizione, perché sa dell’opposizione. L’Io ha superato l’astrattezza dell’opposizione e la considera anche nella sua effettualità non come negazione assoluta, ma come alterità. Un percorso necessario perché la libertà, ossia l’Io assoluto divenga consapevole di se stesso. L’atto dell’opposizione si fa atto vero e concreto quando sa dell’identità di sapere e agire. “Questo il fulcro di tutta la filosofia fichtiana” (G. Maggiore, Fichte, Studio critico sul filosofo del nazionalismo socialista, Città di Castello, Il Solco, 1921, p.67). La scienza non è l’atto della sola elaborazione teoretica, ma è la coniugazione di questa con l’attività pratica, morale. In ciò l’attività dell’Io che, altrimenti, nel solo porsi diverrebbe cosa in sé passiva. L’Io che diviene attività illimitata è in realtà la coscienza di se stesso, che si è intuita e svolta anche nel Non-Io. La libertà consiste proprio nella riflessione intellettuale, che si traduce nella prassi e che supera le ombre che possono formarsi o si sono formate nella possibilità stessa che il fondamento sia libertà assoluta. Tutto il mondo è un processo che il nostro pensiero acquisisce e fa proprio mediante lo sforzo di farsi attività. Andare quindi al di là del pensiero significa renderlo realtà vivente, in altre parole costituire l’armonia delle parti che sanno del fondamento e si risolvono nella totalità dove la distinzione è solo funzionale al tutto. Infatti, l’essere della libertà o della vita e la moralità sono assolutamente uno, da questa coscienza inizia la riflessione morale e di conseguenza politica e giuridica di Fichte. Siamo nel 1793, gli echi della Rivoluzione francese in Germania suscitano gli entusiasmi anche di Kant oltre che di Fichte e Hegel. Fichte apprezza il significato ideale della Rivoluzione e di quella libertà di pensiero che inizialmente sembrò essere il motore della stessa. Lo scritto Rivendicazione della libertà di pensiero contro i principi d’Europa che l’hanno appressa sinora, è un’apologia con venature alla Rousseau dell’affermazione che i sovrani non possono annullare o limitare la libertà di pensiero, perché si potrebbe anche divulgare l’errore, ma perché la ricerca della verità è sforzo progressivo e inseparabile dall’errore, ovvero il porre l’Io incontra sempre il Non-Io, ma dal superamento nasce la consapevolezza della verità posta. Bisogna non confondere ciò che è nella dimensione empirica, ossia della temporalità con il fondamento. Così l’affermazione della libertà di pensiero non è “una moda”, ma un principio al quale attenersi e al quale tutti debbono fare riferimento indipendentemente dalle circostanze che sembrano anche negarlo.

 Si è liberi, perché consapevoli del principio primo, delle possibili negazioni e del necessario superamento. La posizione di Fichte è di chiaro idealismo, ossia l’idea, il principio è trascendente nella sua consistenza, immanente nella sua realizzazione anche negativa, ma quando è consapevole della necessaria relazione dialettica, diviene trascendentale ossia capace di permettere un’esperienza nella quale il principio diviene realtà effettuale perché si è consapevoli della sua fondamentalità.

 La libertà è un’idea, lo affermava già Kant, che è riconoscibile nella fattualità ma questa non è ancora consapevole di sé, perché agisce nella esigenza delle condizioni empiriche. Solo quando si abbia coscienza della dimensione limitativa della realtà empirica e si riconosca il suo fondamento, si è liberi. Così si può dire della cultura, che non è il frutto della dimensione storica, ma dell’essere stesso dell’uomo, ma ancora una volta non dell’idea di un uomo, ma di un uomo reale e questo non è che il popolo consapevole di essere nazione e per la quale è necessaria un’educazione, che non è “come il mantello che si getta sulle spalle dello zoppo e gli si può ritogliere a talento (Cfr. C. Maggiore, Fichte, op. cit., p. 103) ma una realtà che ognuno fa da sé in un processo di formazione nel quale vi sia la consapevolezza dell’umanità che si traduce in una nazione. Se la nazione dimentica o pone in ombra questo, ecco il compito di colui, il dotto, che ha compreso il valore dell’educazione. A lui spetta rendere liberi, perché egli ha la coscienza della libertà. Da ciò deriva che “ ogni educazione tende a creare un’individualità salda e definita permanente, che più non si evolve, che è, né può essere diversa da quello che è” (J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, op. cit. p.45). Così la libertà non è un atteggiamento, ma un essere del pensiero e dell’azione, consapevoli del principio al quale tutto sia subordinato. Ne segue che il problema è quello dell’individuazione del principio o di quella si oggi è detta la posizione. Tutto dipende dal principio e dalla posizione, che è posta è nel porsi si dimostra che essa è posta. In termini fichtiani l’Io pone se stesso e ponendo se stesso pone il Non-Io, quel limite, spesso frutto della sensazione o delle condizioni storiche, che va superato. L’educazione è al servizio di questo processo, come unità assoluta, quindi libera di pensiero e azione, in altre parole al progresso della scienza i cui nemici sono sempre in agguato (J.G. Fichte, La missione del dotto, a cura di V.E, Alfieri, Milano, Mursia, 1987, p.54 e p.125 cfr. Annotazione).

 La vera libertà sta nella continua affermazione del principio, evitando di essere chiusi alle opinioni altrui, ma, nello stesso tempo, non abdicare mai dal principio in quanto tale. Le opinioni altrui, il Non-Io, vanno considerate e superate a meno che non siano sfumature del principio stesso. La consapevolezza assoluta, ovvero libera, del principio, deve essere posta al servizio di tutti, attraverso l’educazione, mai usando la violenza, ma avendo sempre chiaro che il dotto è al servizio della nazione in uno sforzo continuo d’affermazione della libertà che è coscienza del principio che tutto informa e dirige.

Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo i (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) A chi spetta il compito di educare a questa libertà? Allo Stato “ noi abbiamo bisogno dello stato per raggiungere questa universalità” di cultura e quindi di libertà (J.G. Fichte, Discorsi, op. cit. p. 203) e ciò che vagheggia il filosofo è che l’educazione “ha da essere dei tedeschi (la nazione) in tutta l’estensione del termine e se la gran maggioranza di quanti parlano tedesco (e non solo i cittadini di questo o quello stato tedesco) devono adirla in qualità di una nuova stirpe umana, tutti gli stati tedeschi ciascuno di per sé e l’uno indipendentemente dall’altro, devono por mano al compito” (ivi, p.206).

 Un programma preciso di identità nazionale “ di miglioramento della razza” (ivi, p.229), insomma l’affermazione che la libertà dipende dal principio e dall’insieme che la realizza. Fichte parlò alla nazione tedesca, ma la sua prospettiva filosofica ha trovato terreno fertile in tutte quelle visioni, che senza un vero afflato hanno posto un principio, magari parziale a fondamento del tutto. È la prospettiva del totalitarismo che si fa strada, non già voluta da Fichte, ma che trae uno schema dal suo pensiero. Determinare il principio, assunto anche ideologicamente, ovvero senza vera riflessione e dimostrazione, al quale piegare ogni realtà. È la funzione dell’ideologia che tanta parte ha ancora nel mondo. L’uomo ridotto ad un principio parziale, ma detto universale, riconosce in esso tutta la sua vita- di pensiero e azione – e ad esso conforma tutto. La libertà è quindi seguire il principio assunto. Ma, l’uomo vive in società e pertanto il principio non può essere dell’singolo individuo, ma della totalità che si costituisce come un unico individuo, come nazione che nega qualsiasi negazione di se stessa, oppure come gruppo che si riconosce come verità dell’umanità e nega la negazione di ciò. Il processo è detto dialettico, ma in Fichte è frutto del pensiero, diverrà frutto dell’imposizione nei campi di rieducazione/ di eliminazione di coloro che non riconoscono o non possono riconoscere l’identità nella quale sola si è liberi, perché lo si è diventati, grazie allo Stato, il quale, mediante l’educazione, ha reso tali i suoi cittadini. Non molta distanza tra Fichte e quanto sosteneva la Rivoluzione francese, dove è lo Stato il datore della libertà, e la deve garantire alla comunità nazionale. Solo in conseguenza di ciò quella dei cittadini può esistere. In linea con questa prospettiva i totalitarismi del Novecento che attribuiscono alla politica, ad un partito, la delineazione della vita dei cittadini. Così la Costituzione dell’URSS del 1936 lo afferma cap. IV, art. 59, cap. VI, art. 32: “ Il potere legislativo dell’URSS è esercitato esclusivamente dal Soviet Supremo dell’URSS” ossia un’istituzione di partito e non statale. Più esplicita la visione del fascismo che: ” insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d'istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l'uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata”, come con chiarezza scriverà il fichtiano Giovanni Gentile sulla natura totalitaria del fascismo…e di ogni altro totalitarismo.

 

Il grillo parlante: Rivoluzione francese e primo i (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) Annotazione Nel 1794 J.G. Fichte tiene un corso di Lezioni sulla Missione del dotto, seguite nel 1800 dalla Missione dell’uomo ed, infine, nel 1806 da L’essenza del dotto, nel 1811 una definitiva redazione. Il testo riveste grande importanza perché, per la prima volta, delinea la figura di quello che nel Novecento è chiamato da G. Gentile e A. Gramsci “l’intellettuale” ossia colui che si pone al servizio di una determinata prospettiva/idea politica e ne cura la diffusione e soprattutto attraverso questa l’educazione sia dei giovani sia quella degli adulti. Il Dotto/intellettuale ha una missione nella società, quella di far comprendere l’Io assoluto, quello nel quale solo esiste la libertà (La missione del dotto, op. cit. p.75). Si tratta quindi di educare all’Io assoluto e al pensiero che egli esprime, dato che gli “io empricii2 non possono avere assolutamente coscienza della propria libertà“. Educare quindi l’istinto sociale innato nell’uomo, significa farlo coscienza dell’Io e coscienza di identificazione, perché solo così si avrà progresso e perfezionamento. Il dotto/intellettuale vive per la società e cerca di unire gli uomini in una perfetta consapevolezza culturale. Così la cultura è posta al servizio di una visione. Se questo è solo un programma ”filosofico”, non si tratta che della diffusione di una filosofia, come fecero altri, ma con la prospettiva fichtiana il compito del dotto/intellettuale è politico, dato che deve tener conto delle classi sociali, che rivelano disuguaglianza e quindi è necessario portarle all’eguaglianza, mediante l’educazione, la scuola assume il ruolo di cinghia di trasmissione della prospettiva elaborata. Così il compito, che in Fichte è morale, si traduce con Gentile e Gramsci in compito politico. Il primo con la sua riforma scolastica nel 1923, il secondo con i seguaci del 1968 in poi che ritengono solo l’intellettuale, ovviamente “di sinistra” come l’unico capace di far progredire e perfezionare la società italiana attraverso la scuola ovviamente “pubblica” perché il pubblico per loro coincide sempre e solo con lo “statale”, secondo i canoni marxiani/marxisti, leninisti, stalinisti, togliattiani e anche berlingueriani, e, tutto sommato, forse anche renziani.

 

nr. 40 anno XX del 7 novembre 2015

 



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