Un altro esordio nella letteratura vicentina. È quello di Giuseppe Lupi che con Cronache della città nascosta (Santi Quaranta editore) pubblica il suo primo romanzo. La storia narrata dall'artista e scrittore vicentino è una sorta di viaggio insolito, un camminare da un bar all’altro della città sospeso tra realtà fisica e meditazioni filosofiche. Il viaggiatore sale su di un autobus misterioso che congiunge la periferia al centro: viaggio a piedi e viaggio in autobus s’intersecano fondendosi insieme, disegnando il ritratto di una città - appunto - nascosta e quasi segreta, attraversata da un fiume che diventa il personaggio centrale del libro. Ambientato in un arco temporale che va dai primi di ottobre alla fine di aprile, in una strana primavera uggiosa e umida, accompagnata da una pioggia incessante, il romanzo si snoda tra fermate di autobus, anonime stanze d'ufficio, polverosi bar, luoghi più o meno riconoscibili: le vecchie mura della città, la basilica, i portici del centro storico. La città silente dei portici e dei colombi, la città dentro le mura, è lo sfondo di questo quasi diario giornaliero che attraversa due stagioni accompagnando il lettore in un viaggio che può sembrare al primo sguardo un peregrinare tra i vari luoghi cittadini, ma a ben guardare diviene una sorta di discesa interiore fin dentro l'anima della città stessa, popolata dalla "basilica dei colombi", dalle cupole, dai campanili, dai portici e dalle torri.
Lupi, che prima di essere romanziere è artista di talento che ha esposto le proprie opere in alcune mostre personali - una di queste giusto tre anni fa nella splendida chiesa di San Silvestro a Vicenza - riflette, nelle sue tante passeggiate, sulla città dimessa e punteggiata di comignoli che fumano, di “tetti sbilenchi”, di “finestre grigie”, di casupole e orti che costeggiano il Fiume, o fanno da sponda a viuzze e vicoli solitari a ridosso delle colline. L'autore disegna una Vicenza inedita rispetto a quella classica, una Vicenza cioè poco solenne, umile, più intima. Questa città è certo la città del Palladio e delle chiese e dei palazzi adamantini, ma si trasfigura anche in una città simbolo universale di originalità, quasi dimessa e schiva, lontana dai clamori e dalle celebrazioni. Ne esce un diario raffinato ed elegante, in cui scorre la vita semplice, pervaso da una “calma sottile”, da un'incalzante imperturbabilità. Da un bar all’altro si manifesta la ritualità vicentina del quotidiano, in una coralità intensa che possiede il timbro avvolgente della poesia vera, senza mai alzare i toni, con un uso costante del noi comunitario e non maiestatico: il noi serve al viaggiatore per vincere la sua solitudine, per sentirsi meno isolato. Un’umanità intima e seducente pervade l’insieme di quest’opera che ricorda, a tratti, lo stile del primo Goffredo Parise e rivela una polifonia di personaggi impalpabili, ma al tempo stesso credibili, come la ragazza del finestrino, il sacerdote di Bisanzio, la signora col paltoncino sale e pepe e l’impiegata dal profilo di upupa, sui quali si sofferma lo sguardo e anche il sorriso appena accennato di uno scrittore sensibile e arguto.
Se il talento pittorico di Lupi era stato definito dalla critica d'arte vicentina Marica Rossi come quello di "un autodidatta che si è lasciato influenzare dal fascino delle icone russe e ha scelto di spirarsi ad artisti di epoche diverse come Munch e Modigliani", per quanto attiene alla prosa il suo stile risulta asciutto ed essenziale, quasi minimale, soprattutto nelle descrizioni dei luoghi, nelle quali l'autore indugia con particolare attenzione ai dettagli: La piazza dove si specchia la basilica è lucida e deserta. Un passo dopo l’altro ci avviciniamo alle mura. Cambiamo stanza. Anche ieri eravamo qui, come sepolti sotto i portici di san Rocco. Ieri le nubi sopraggiungevano lente, a veli, e nel cielo sempre più opaco il sole pareva un timido pianeta in congedo dalla terra. Stamani in ufficio le ore sembravano incollate al suolo, si sentivano gli squilli di telefono provenienti dalle altre stanze ma non si udivano le voci di chi rispondeva e non abbiamo ricordo di aver sentito una sola volta il suono delle campane, neppure allo scoccare del mezzogiorno. Siamo usciti con un lieve anticipo, una questione di pochi secondi che ci ha consentito di filare diritto lungo i corridoi ancora vuoti, evitando i convenevoli di rito. In pochi abitano ancora queste case diroccate che hanno il colore della cenere o delle albicocche. Come sanno i colombi, che vengono qui quando vogliono stare soli, nella città non c’è luogo più dimenticato e silenzioso di questo. I camini svettano sui tetti come i fumaioli delle filande e sui muri riaffiora l’ombra delle malte e il ghirigoro delle edere morte. I nostri passi riecheggiano sempre più lenti sotto le volte basse e sgraziate dei portici di san Rocco ma presto torneremo allo scoperto e dovremo riaprire l’ombrello. Il silenzio delle mura si espande sulla strada e attenua il rumore della pioggia che scende di traverso, e il rauco concerto delle grondaie.
C'è spazio anche per ricordare come il fiume,protagonista tra le righe, lo sia stato anche nella realtà dei fatti: Quest’ora dolce, ancora poco affollata, non mette fretta e due anziane signore davanti al banco del droghiere ricordano cose che ormai nessuno, tranne loro, potrebbe ricordare. Chi non lo ricorda!?, tra i più vecchi, s’intende, chi non lo ricorda!?, esclama una delle due signore, quel sacerdote con la faccia rude e le spalle larghe, da contadino, che giungeva in città in bicicletta, avvolto in un gran mantello nero, a bussare da solo alle porte dei notabili... Dobbiamo ringraziare quell’uomo saggio e ardimentoso, quel sacerdote illuminato, giurano convinte entrambe le signore, se le acque del fiume non hanno ancora inghiottito la città. Grazie a lui, alla sua ostinata dedizione, una potente draga risalì il corso del fiume, liberandone l’alveo dai sedimenti, gli argini furono fortificati e alcuni ponti furono ricostruiti. Invero questa città, dice una delle due signore fissando negli occhi il droghiere come un falco, è un perfido imbuto. Le piogge arrivano e subito le acque calano impetuose dalle valli e dalle colline, e poi, proprio qui, indicano entrambe con un ghigno sinistro, proprio sotto ai nostri piedi, riaffiorano in superficie le acque pure che discendono dalle montagne. Mentre attendiamo pazienti il nostro turno, ci avviciniamo con una certa disinvoltura alla mappa della città appesa dietro al bancone della cassa. In questa stampa antica le vie della città sembrano precipitare nel fiume come un fitto reticolo di affluenti. La città pare avvolgersi su se stessa, attratta nella spirale del fiume, e nel vortice gli edifici si curvano, si piegano alla stessa misteriosa forza. Colonne, cortili, scalinate, ponti, statue, ogni pietra della città asseconda la volontà del fiume, la contorta deriva delle sue acque intrappolate tra le mura.
In un'altra passeggiata, al limitare della periferia in direzione Riviera Berica: eravamo giunti ormai all’incrocio di borgo Berga. Di nuovo ci avvicinavamo al fiume e il fiume si avvicinava a noi. Mancavano poche decine di metri e avremmo raggiunto il bar dove c’eravamo prefissati di andare. Nell’aria satura di odori verdi e selvatici già intravedevamo il sipario delle colline, la foresta primitiva degli orti di santa Caterina. Ma quando siamo sbucati fuori dai portici, la città era come un fiore che si stava chiudendo e la bocca del cielo si restringeva a vista d’occhio. Allora ci siamo fermati e per qualche istante siamo rimasti immobili, come impietriti, sul bordo del marciapiede. E anziché attraversare la strada, a malincuore abbiamo deciso di ritornare sui nostri passi. Camminando lentamente sotto i portici ci siamo chiesti che cosa convenisse fare ma a quel punto non avevamo più scelta.
Abbiamo incontrato l'autore, che ha risposto ad alcune domande.