NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Guerra ai Turchi

di Italo Francesco Baldo

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Guerra ai Turchi

Introduzione

La Predicazione del profeta Maometto unì le tribù arabe e fece di loro “una nazione”; a partire dal 637 dell’era cristiana l’espansione araba forte dell’unità raggiunta, combatté l’Impero Romano d’Oriente e conquisto i suoi territori nel Vicino Oriente e iniziò l’espansione verso est, conquistando i territori persiani e verso ovest l’Africa del nord, superata una prima crisi dell'Islam. Questa avvenne per ragioni anche dinastiche tra il 656 e il 661, quando Alì, cugino e genero di Maometto, insorse contro il califfo Uthman ibn Affàn, fondatore della dinastia omayyade. Entrambi vennero poco tempo dopo assassinati e dai loro seguaci s’instaurò la storica frattura tra sunniti (che riconoscono la Sunna, gli scritti con detti e fatti del Profeta) e gli sciiti (che non riconoscono la Sunna, né l'autorità califfale, ma solo Alì quale legittimo successore di Maometto). Tra gli sciiti si ebbe un ulteriore scisma con la formazione del gruppo dei kharigiti, che sostenevano il principio radicale secondo il quale qualsiasi fedele può ricoprire la carica di califfo.

Risolta la crisi ben presto l'Africa del Nord (il Maghreb, dal 647 al 663) fino alla Penisola iberica e zone della Sicilia, diffondendo la religione islamica, solo nelle zone mediorientali rimasero comunità cristiane ed ebree, ma non ebbero mai “vita facile” fino ad oggi.

Secondo una tradizione molto radicata i musulmani vennero fermati con la battaglia di Poitiers del 732 (o 733) dal carolingio Carlo Martello, ma le loro scorrerie nel 737 arrivarono a saccheggiare la Borgogna, dove prelevarono un'enorme quantità di schiavi da portare in Spagna.

La fondazione del Sacro Romano Impero con Carlo Magno ed una relativa stabilità religiosa e anche politica fu buona barriera contro l’espansione islamica per oltre due secoli e segnò un grande progresso civile, culturale sia nel mondo cristiano sia in quello arabo.

La comparsa delle tribù turche nel Medio Oriente determinò un nuovo scontro tra la cristianità e il dominio che i Turchi avevano instaurato. Le crociate furono la risposta cristiana al dominio e all’espansionismo turco verso Costantinopoli e il loro dominio diretto ed indiretto sui luoghi sacri (Gerusalemme), Come in tutte i conflitti un intreccio d’interessi (religiosi, culturali, politici, economici e di appetiti individuali) non diede certo vera stabilità, ma il dominio turco alla fine si impose fino ai primi del XX secolo in quelle zone.

Guerra ai Turchi (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica) 

Sacro Romano Impero d’Oriente

 

Dalla fine del XIV secolo i Turchi, cessati conflitti interni e dinastici, ripreso l’espansione verso Bisanzio che conquistarono nel 1453 e in meno di un secolo giunsero a sottomettere tutti i Balcani e quasi tutta l’odierna Ungheria, facendo scorrerie fino a Cividale del Friuli per non parlare delle scorrerie sulle coste italiane con l’alleanza dei pirati che avevano sede soprattutto ad Algeri e Tunisi.

Solo dopo la Battaglia navale di Lepanto 1571 e le sconfitte che i Turchi subirono nel secolo successivo, dopo aver ripetutamente minacciato con assedi Vienna. Giovanni III Sobieski, Eugenio di Savoia Soissons e il cappuccino Marco d’Aviano sono ancor oggi ricordati come coloro che combatterono i Turchi fino alla loro sconfitta con la vittoria definitiva contro il loro esercito sul fiume Tibisco (Serbia), nei pressi di Zenta. La pace fu firmata il 26 gennaio 1699 a Carlowitz.

Guerra ai Turchi (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Da quella sconfitta i Turchi cessarono di essere un pericolo per l’Europa, ben ricordato dallespressione popolare “mamma li Turchi”

La decadenza dell’Impero turco durò fino all’inizio del XX secolo quando fu cessò di esistere, la Grande Assemblea Nazionale Turca il 1º novembre 1922 pose fine all'Impero Ottomano, che durava dal 1299 e nacque la odierna repubblica Turca ad opera soprattutto di Mustafà Kemal Atatürk (1881- 1938).

Sul pericolo turco durato secoli, rifletterono in molti e Erasmo da Rotterdam che fin dalla giovinezza aveva sempre proposto la pace come a priori della vita dell’uomo, di fronte all’imminente pericolo turco, dopo La battaglia di Mohács combattuta il 29 agosto 1526 tra l'esercito ungherese, comandato dal re Luigi II d'Ungheria e Boemia (che cadde in battaglia), e quello ottomano, comandato dal sultano Solimano I.

Il pericolo turco era alle porte dell’Europa e grande fu lo spavento, il papa e l’imperatore cercarono di costruire un’alleanza contro il pericolo, ma le difficoltà tra Carlo V, Sacro romano imperatore e il re di Francia, Francesco I, non diedero a ben sperare e la situazione certo non migliorò. Il grande umanista, seppur a malincuore scrisse la Utilissima Consultazione per promuovere la guerra ai Turchi nel 1530 e pronuncio le parole:. .. e guerra sia!

Guerra ai Turchi

Sembra strano sentir pronunciare queste parole da parte di Erasmo da Rotterdam nella sua piena maturità, nel 1530, allorché alle stampe la Utilissima consultatio de bello Turcis inferendo, et obiter ennarratus Psalmus xviii, (Il testo apparve presso Fröben a Basilea nel 1530 e subito pubblicato a Parigi, Vienna, Colonia; Erasmo nell’Indice delle proprie opere, assegna questa agli scritti «ad pietatem», mentre «ad moralia»)subito dopo l’assedio a Vienna nel 1529. Eppure proprio lui le ha pronunciate e certamente non a cuor leggero; lui che fin dalla prima giovinezzacon passione, consapevolezza e cultura, aveva eletto la pace a fondamento della sua vita. Pace che lui identificava pienamente inGesù Cristo e spesso nel corso della sua vita avrebbe vista scacciata e rifiutata da coloro che per primi avrebbero dovuto mantenerla e accrescerla, tanto da fargli ritenere di doverne scrivere l’epitaffio, se la sua robusta fede non lo avesse aiutato a procedere sulla strada già tracciata nella giovinezza. Vi è dunque una costante affermazione della pace e contemporaneamenteun rifiuto netto e preciso della guerra, produttrice di guerra, che genera l’empio soldato, il quale approfitta per derubare, violentare, quasi incitato a questo dalla sete di potere e dalla voglia di dominio che invade anche gli ecclesiastici oltre che i potenti. Tante calamità, è la denuncia costante di Erasmo, sono causate dalle guerre che terminano solo con trattati di pace che subitamente vengono disattesi, come a Noyon, tant’è che «la superbia stessa allaccia i nodi di questa pace, poi la viola e la spezza, perché nella ricerca del privilegio della singolarità, disdegna la comunione dei beni che la pace ama». L’uomo non è disponibile ad ascoltare la voce di Dio, ecco quindi la necessità di ribadire e diffondere la sua parola. A questo scopo Erasmo, mentre inizia la propria riflessione sulla possibilità della guerra contro i Turchi, in forma di lettera al giurista J. Rinck, afferma con chiarezza che la colpa della guerra, pur necessaria, è anche dei Cristiani stessi, che come «aspidi sorde» non comprendono i segnali che Dio dà agli uomini. Commentando il Salmo 28 (29)e prendendo a modello e talora ripercorrendoli, i commenti di san Basilio e sant’Agostino allo stesso salmo, in particolare quello di san Basilio, il pensatore invita i Cristiani stessi a cambiare vita, questa è la vera vittoria, quella che consentirà anche di non muovere guerra a nessuno, perché la comunità cristiana fedele, attenta alla voce di Dio, diverrà proposta e sarà temuta non per le armi, ma per l’unità e la santità stessa della sua vita. Mentre questa prospettiva è sottolineata, il pensiero di Erasmo continua anche a sostenere, seppur a fatica e non sempre con quella linearità di pensiero che lo contraddistingue, la necessità improrogabile di muovere guerra ai Turchi e sembra dimenticare la sua stessa posizione, ma non è così.

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Battaglia di Lepanto

 

La recrudescenza delle ambizioni turche nel voler conquistare l’Europa spingono Erasmo ad affermare che si deve muovere guerra, perché il Cristiano non è solo chiamato a condolersi, ma anche a provvedere alle sventure che possono colpire i fratelli. Non esiste giustificazione al non prestare aiuto ai membri della propria comunità, perché la cristianità è unica. Se il Reno separa il francese dal tedesco, non divide però il Cristiano dal Cristiano: esiste una integrità di fede, non di territori, le differenze sono tra le parti di un medesimo corpo, non di corpi differenti. Gli stessi Turchi, gli stessi Giudei, in quanto uomini sono da rispettare; i Turchi, i «semicristiani»(Nella considerazione di Cusano, ad esempio, Maometto apparteneva alla eresia nestoriana (in Cristo due nature e due persone connesse da un’unione solo morale); l’eresia fu condannata dal Concilio di Calcedonia nel 451d.C),come li chiama Erasmo, vanno convinti con la esemplarità della nostra fede, come fecero gli Apostoli, e non con le armi. Diverso però è il caso se i Turchi, approfittando delle divisioni interne della cristianità, dell’ambizione dei prìncipi e della sete di malvagità degli uomini, invadono e distruggono la cristianità. Allora bisogna intervenire, non a caso, non per ambizione o sete di crudeltà o ancora per dominare i territori dei Turchi, ma perché il benessere della cristianità lo esige. L’intervento non può essere fatto se prima non si considerano tutte le possibilità di risolvere pacificamente la questione. Solo alla fine, con grande dolore, con tutte le attenzioni, solo alla fine si muoverà guerra, e non per favorire un principe i cui territori sono stati invasi dai Turchi, ma per il benessere di tutta la cristianità, che deve rafforzarsi nella fede e nella comune ricerca di prosperità, senza dividersi nella fede e nella ricerca di ricchezze. È importante sottolineare che non vi debbono essere divisioni nella cristianità, soprattutto quando la voce di Dio stesso tuona e ci invia dei segnali per farci comprendere a qual segno sia stata abbandonata la strada maestra. I Turchi sono un segnale, la loro invasione della cristianità non è, come afferma Lutero (Cfr. l’espressione di Lutero in Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute, in Id., Werke, Weimar, Böhlau, 2003, vol. i p. 535: «Se i Turchi invadono la cristianità, quella è la volontà di Dio a cui non è lecito porre resistenza».). una pena inevitabile, mandata da Dio, da accettare, ma un segnale che la vita della cristianità non cammina nelle strade del Signore.

Guerra ai Turchi (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Il tema del segno e della voce di Dio, che si manifesta e chiama gli uomini, il commento al Salmo 29 (28), è uno dei punti importanti di questo scritto di Erasmo: l’uomo non tiene presente gli avvisi del Signore, si abitua a tutto, anzi spinge questo costume fino a non riconoscere nelle manifestazioni negative un male. Così, è l’esempio di Erasmo, la diffusione nel primo Cinquecento della sifilide. Questa malattia, anziché indurre gli uomini a comprendere la necessità di cambiare vita, li fa quasi gloriare di aver contratto questo male. Un altro esempio viene dalla insubordinazione di Lutero alla Chiesa nella sua globalità. Non si tengono presenti le parole del Signore, ecco il perché dei mali e fra tutti la guerra, la più terribile pestilenza. Il guaio è che la si rifiuta a parole, ma poi ciascuno nella propria «dura cervice» la insegue, dandole magari giustificazioni che non possono esistere all’interno della cristianità, e questo perché non è possibile che una parte del corpo ne combatta un’altra.

È vietata la guerra e sono vietate altresì le guerre intestine, o “sedizioni”, come chiama Platone le guerre tra i Greci, ma come allora proporne una contro i Turchi? Erasmo, dopo una lunga digressione intorno alle origini di quel popolo e alla sua espansione, affronta la questione da due punti di vista polemici. Il primo obietta contro chi s’infiamma per la guerra; il secondo contro chi sconsiglia in tutti i modi di muovere guerra. I primi sbagliano perché non considerano che comunque i Turchi sono uomini, Cristiani a metà, e che, prima di muovere loro guerra, è necessario considerare attentamente ogni cosa, soprattutto che i guerrafondai molto spesso si servono di argomenti contro i nemici che poi applicano ai loro stessi fratelli. I secondi, i pacifisti ad oltranza ed Erasmo non è tra questi, sbagliano perché se i Cristiani debbono in tutti i modi coltivare la pace, non per questo non debbono difendersi. I Cristiani possono militare per salvaguardare la cristianità, ma non possono debellare come affermano i padri e i dottori della Chiesa, perché: «la volontà costruisce la pace, la necessità la guerra». Se poi valutiamo la posizione di Lutero, «se i Turchi invadono la cristianità, quella è la volontà di Dio a cui non è lecito resistere», questa, come hanno affermato i teologi di Parigi sulla scorta della bolla di Leone X Exurge Domine del 1521, è da considerarsi falsa, perché se si muove guerra contro i Turchi, bisogna valutare la situazione che porta alla guerra e non in assoluto la negatività della guerra. Una guerra non va considerata in astratto, ma calata nella realtà storica precisa in cui ne viene valutata la possibilità. Il ragionamento di Lutero è simile a quello che non considera lecito chiamare il medico nel caso in cui vi sia una malattia. Con questa analogia entriamo nel vivo dell’argomentazione erasmiana a proposito della liceità della guerra.

Quando un corpo viene invaso da un morbo, il medico deve porre in atto tutte le sue conoscenze, le sue abilità e la sua stessa coscienza affinché sia possibile portare salute al corpo stesso e ciò anche con il concorso dell’ammalato stesso, perché non si cura solo la malattia, ma anche il malato. Così devono agire i Cristiani: prima di tutto cercare, alla luce dei segni che il Signore invia, se la guerra vada o meno combattuta e se questa si rivela come l’unica e ultima possibilità, muoverla, non per invadere e conquistare nuove terre, ma per porre termine alla ferocia dei Turchi contro i Cristiani. Interrogare il Signore dunque, pregare continuamente per avere l’indicazione giusta, che si fonda prima di tutto sulla concordia della cristianità tutta, che per questo motivo sarà di esempio anche agli stessi nemici.

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Impero turco

 

La ferocia dei Turchi, la loro invasione di territori europei, particolarmente dell’Ungheria, è un segno che i Cristiani debbono meditare: troppo a lungo si sono divisi, hanno lottato tra loro per scopi materiali, per quel dannato potere che avvolge l’uomo e lo rende simile alle bestie, per quella sete di potere, che avvolge come una serpe talora anche il papato. Della divisione dei Cristiani approfittano i Turchi, ma anche gli uomini peggiori, quelli che aspettano le discordie per procurare a se stessi vantaggi materiali. L’invasione turca è solo un segno, un grave segno, nessuno può ignorarlo. Se vogliamo muovere guerra ai Turchi pensiamo prima di tutto a noi stessi, allo stato in cui abbiamo ridotto la comunità cristiana. Infatti sarebbe possibile conquistare i Turchi senza la forza delle armi, se con la parola e l’esempio e non con le chiacchiere vivessimo degni dell’Evangelo, afferma con forza e ripetutamente Erasmo.

È significativo che il pensatore fiammingo consideri il muovere guerra ai Turchi, come una questione improrogabile e che, nel contempo, il suo sia un discorso di pace, una perentoria affermazione che la cristianità debba essere unita, pacifica e concorde. La concordia e l’unità che addita Erasmo non è quella dell’unanimismo, ma è quella, per usare un paragone musicale, di un coro, dove la diversità delle voci si fonde in un’unica armonia, nella quale ogni uomo deve portare il suo contributo, senza per questo elevarsi individualmente al di sopra, ma cercando nelle comuni radici la sostanza per essere completamente uomini di pace.

La radice della divisione deve essere estirpata dal cuore dei Cristiani, non si tratta di annullare le differenze, semmai di farle funzionare adeguatamente per il benessere di tutti. Nell’epoca della nascita delle divisioni religiose in Europa, del sorgere delle potenze nazionali contro il concetto stesso di respublica christiana, Erasmo si richiama all’ideale dell’unità, conscio che dalle divisioni nascono divisioni, invidie e lotte e così la cristiana Europa sarà preda di invasioni ben più gravi di quella turca, sarà invasa dal male e la pace, Gesù Cristo, la punirà perché respinto e cacciato dai suoi stessi seguaci, che non costruiscono la pace con la concordia di tutti.

La modernità di Erasmo è evidente soprattutto per coloro ai quali sta a cuore il senso dell’uomo e di Dio e del Suo messaggio: troppe volte i Cristiani per questioni politiche, nazionali o di campanile si sono divisi ed hanno scacciato la pace e la concordia dai loro cuori e, anziché seguire la parola di Dio, hanno ceduto ai propri interessi immediati. Solo con la philosophia Christi: «la cristianità non sarebbe tanto sconvolta in ogni parte da guerre continue, non arderebbe ovunque questa insana cupidigia di ammassare ricchezze, con qualsiasi mezzo lecito o illecito, il sacro e il profano non risuonerebbero dappertutto del frastuono di tante contese, infine potremmo distinguerci da chi professa solo di nome o con cerimonie rituali la filosofia di Cristo».

È tempo di risorgere, con umiltà, con il desiderio di unità. Non basta che vi sia un nemico esterno, questo lo si può anche inventare, è necessario che i Cristiani riflettano sul proprio specifico, che non è né una filosofia, fosse anche quella di Platone o di Aristotele, né una visione politica sprofondata in un partito che insegue solo in apparenza il fine che dichiara. Infatti solo una visione parziale inventa un nemico; ciò dapprima rafforza, ma poi mostra la disunità, perché se è presente veramente e lo si vince, ma senza vera concordia, le divisioni subito si manifestano e ognuno dei vincitori vuole considerarsi l’unico vincitore; se invece non esiste, nasce la discordia perché qualcuno suscita allarmismo. Infatti non si lotta contro i Turchi per far piacere a re Ferdinando d’Asburgo, il quale non ha certamente inventato il pericolo turco.

Su questo tema Erasmo è chiarissimo: il corpo della cristianità deve essere unito, ma non è un’unità solo per contrastare o combattere un nemico, magari ipotetico, è invece unità fondata sulla comune ricerca di dare una vera risposta all’invito di Cristo. Non deve accadere, ammonisce Erasmo, che un Cristiano sia straniero nella cristianità, come nelle prime comunità prevaleva il principio di carità, così dev’essere oggi. A questo compito sono chiamati tutti: gli ecclesiastici, che attraverso la santità dei loro costumi ed il rifiuto dei piaceri mondani additano la strada, i governanti, che non devono inseguire il proprio tornaconto, i filosofi e i teologi che non si possono erigere con le loro ragioni a unici e veri interpreti della complessa realtà dell’uomo, perché la pace di Dio sorpassa ogni intelligenza umana. Accanto a loro tutti gli uomini che sinceramente credono e non hanno paura di essere Cristiani debbono essere capaci di testimonianza autentica.

Non della desacralizzazione deve parlare il Cristiano ed averne paura, ma della consacrazione a Dio di tutta la realtà umana. Non di vie della ragione, ognuna delle quali valida finché non entra in conflitto con la propria, deve parlare il filosofo, che si dichiara anche Cristiano e relega la sua cristianità nel sentimentalismo o se ne serve come etichetta. È tempo di mutare vita dentro i nostri cuori e non pensare solo a battaglie da iniziare o combattere; queste vanno fatte solo se è inevitabile e cogliendo i segni che il Signore invia. La guerra dunque può essere inevitabile, ma mai vi deve essere guerra, di nessun tipo, all’interno della cristianità; se questa è inevitabile lo sarà solo verso un vero nemico esterno che invade e rende impossibile una vita civile, fondata sulla lealtà e la giustizia nella quale pure i nemici stessi dovrebbero essere coinvolti. I Cristiani, infatti, non amano la guerra, perché la sanno portatrice di ogni sorta di mali, anche per chi la combatte per una causa giusta; meglio tentare tutte le vie per evitarla, sapendo che tra gli stessi nemici vi sono coloro che desiderano la pace e che ben volentieri si unirebbero a coloro che la vogliono.

Con questo testo che sembra essere un invito alla guerra, Erasmo conferma invece la sua vocazione alla pace; una vocazione non cieca, ma consapevole delle difficoltà di mantenerla sia all’interno della comunità cristiana sia di fronte a nemici esterni, verso i quali è lecita la guerra in un unico caso: quando vi è un’invasione compiuta con ferocia tale da distruggere l’uomo. Questo permesso va usato solo in casi estremi. La guerra è un male sempre e comunque, non può essere considerato una condizione strutturale. L’uomo può porvi rimedio e soprattutto rimedio può porvi il Cristiano che, avendo l’animo in sintonia con Cristo, può diffondere l’autentico messaggio di pace. A questo tutti sono chiamati senza distinzione e ognuno con la responsabilità del ruolo che occupa, non importa quale. La pace dunque è il bene al quale tendere nell’unità e nella concordia, senza far prevalere le ragioni del solo potere politico, terreno di eterne lotte perché incurante della parola di Dio e inorgoglito dalla sua presunta autonomia dalla morale. Il politico è infatti il terreno della guerra non dichiarata; solo se il politico si sottomette a un dovere maggiore, la pace, e la eleva a valore della vita e della vita civile, l’insieme della comunità potrà ottenere quello Stato nel quale si saprà vivere liberi e costruire un mondo sereno, in cui regneranno la pace e la ricchezza, come già sosteneva Omero.(Odissea, xxiv 486).

 Guerra ai Turchi (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)È utopia questa? Sì, ma nel senso più caro a Tommaso Moro e a tutto l’umanesimo, quello che vede la tensione verso una costruzione di pace e di benessere come lo scopo della cristianità, che ha l’obbligo di costruire la Pax Christi come la chiamava sant’Agostino, perché anticipatrice di quella finalis nella quale il giorno non avrà né tramonto né sera, né notte, ma luce piena, luce del mezzogiorno. Pace dunque per essere graditi al prossimo e graditi soprattutto a Cristo, perché piacergli è somma felicità.

 

nr. 32 anno XXI del 17 settembre 2016

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