Il Forte Lisser, fortezza sull’avanposto italiano della Prima Guerra Mondiale a Enego, è stato il palcoscenico dello spettacolo “Trincee - risveglio di Primavera” scritto e interpretato da Andrea Pennacchi con le musiche dal vivo eseguite da Giorgio Gobbo e il fondale dipinto anch’esso dal vivo dal pittore Vittorio Bustaffa. Pennacchi inizia il racconto parlando del nonno bersagliere che aveva combattuto sull’Ortigara e il ricordo viene subito affidato al soldato diciottenne che racconta gli eventi in prima persona. Spettacolo coinvolgente e recitato benissimo che rientra nell’ambito del festival Operaestate da sempre impegnato nella valorizzazione del territorio, in questo caso anche in occasione del centenario della Grande Guerra.
La Seconda Guerra Mondiale è ormai quasi un format, la Prima Guerra Mondiale no. La nostra generazione, 45-50 anni, ha conosciuto qualcuno che aveva fatto la Grande Guerra e ancora sentivamo testimonianze dirette. Al di là della ricorrenza del centenario, questi spettacoli hanno presa sul pubblico perché sono storie di guerra o perché sono tratti da una storia vera?
Andrea Pennacchi: “Ci sono storie vere che alla gente interessano relativamente poco. Facciamo parlare un ragazzo di 18 anni che ha ben chiara in testa l’Iliade, per cui accettiamo che per raccontare la guerra abbiamo a disposizione uno dei più grandi archetipi della storia. Nella realtà diventa interessante per due motivi: è vero che “la storia vera” è più interessante ma quando la proponi ai ragazzi delle scuole diventa un riconoscere una cosa successa a un essere umano che ti sta davanti, ricorda il nonno a cui si è voluto bene, si è di fronte a un testimone".
Il ricordo trattato con l’affettività fa da richiamo?
“Secondo me si: non stai leggendo un libro o un professore che l’ha studiata e la sa benissimo ma non l’ha vissuta. Ha di fronte uno che in qualche modo l’ha vissuta anche se non c’era, ha toccato nei suoi affetti una persona che c’era".
Tu hai una grande capacità di immedesimarti nel racconto storico, indipendentemente dall’epoca, sei uno di quegli attori che quando racconta, veramente vediamo il protagonista, da Ulisse al bersagliere. Oggi il presente è regolato da tecnologie e algoritmi che governano il mondo, le nostre vite e il modo di esprimere i nostri sentimenti. Secondo te per quanto tempo il pubblico si sentirà rappresentato da una “umanità analogica”?
“Io, penso, in eterno, finché ci saranno gli esseri umani. Ci sono delle cose universali che durano, cambiano come tutte le cose degli esseri umani però c’è un immaginario collettivo molto forte che muta ma molto lentamente. Io credo che l’Iliade e l’Odissea, costruiti nell’epoca d’oro del racconto, siano ancora dei modelli anche quando racconteremo la Space Force che invade Marte".
Scelta delle musiche?
Giorgio Gobbo: “La colonna sonora d’accompagnamento sono composizioni originali mie, le canzoni sono brani tratti dal repertorio classico dei canti di montagna e di guerra; l’ultimo brano in inglese è un’antica ballata popolare scozzese che veniva cantata ai tempi della Prima Guerra Mondiale anche dai soldati come canto funebre; non c’entra apparentemente con la guerra che raccontiamo, della battaglia dell’Ortigara, ma se si guarda bene, in Altopiano, hanno combattuto anche inglesi e scozzesi e ancora puoi trovarne i segni. Questa scelta di chiudere con qualcosa che fosse sovranazionale, per tutti i soldati di tutte le guerre, comunque si collegava all’ambientazione del racconto".
Quando lui torna dice che torna alla normalità, che però non esiste più perché la Storia ha cambiato tutto: chi era austriaco è diventato italiano e le valli sono state divise. La gente, anche borghese che la guerra non l’ha vissuta direttamente, come ha assorbito questo cambiamento storico di nazionalità?
A.P.: “Noi abbiamo seguito la traiettoria di chi era nato già italiano. C’è un incontro che a noi ha colpito molto, di uno che parlava in italiano dalla trincea austriaca, cosa mai successa su nessun altro fronte se non quello italiano; sono 7 casi provati in cui gli austriaci hanno interrotto il fuoco e hanno parlato in italiano alle truppe che avanzavano e hanno detto: “basta , non ce la facciamo più a massacrarvi” che era proprio il nucleo stesso di questo massacro tra fratelli. Lo abbiamo voluto lasciare senza spiegarlo, come un fatto strano che poi uno ci pensa mentre torna a casa".
Quello è il nemico ma para la mia lingua.
Nelle tue ricerche avrai sicuramente visto i video degli shock postraumatici dei reduci della Grande Guerra. Come sono stati curati?
“Sono un ex militare, di sinistra, e ho sempre avuto molto a cuore la salute dei militari: conosco la situazione e adesso non è molto dissimile da quella della PGM: l’Esercito non riconosce la Sindrome Post Traumatica come malattia, ho conosciuto persone che hanno fatto cose per noi in giro per il mondo e nessuno gli sta dietro, nessuno li cura. Se non lo fanno adesso, figurati alla fine della PGM".
Verso la fine dici una cosa interessantissima che è poco detta: “Peggio della guerra c’è scavare le ossa dei nostri italiani e austriaci, li portavo dentro gli scaloni di marmo” -fai un riferimento al Sacrario- “anche i morti arruolavano per l’altra guerra che stavano preparando”. Questi morti rimangono lì con il protagonista ed è come se ci fosse un sentore che non era finita quella guerra, che ci sarebbe stato dell’altro, che i morti servivano per una strumentalizzazione per la propaganda.
“Quello era evidente: nel Ventennio i morti venivano usati in maniera patriottica, l’unica differenza era tra chi ci pensava e chi no e chi ci pensava era diviso tra chi era favorevolissimo, perché moltissimi che avevano combattuto con coraggio nella PGM si riconobbero, almeno nella prima fase, nel movimento fascista perché si erano sentiti traditi ma chiunque si fermasse un attimo a pensare si rendeva conto che quella era un’operazione patriottica: non è solo fascista ma era proprio un’Italia che “mostrava i muscoli” e che non poteva accettare che i propri morti fossero sparsi in piccoli cimiteri".
Anche perché l’Italia era giovanissima, aveva 50 anni
“Esatto, aveva bisogno di punti di riferimento, piccoli o grandi templi in cui dire: “ Guarda quanti morti abbiamo versato per questa vittoria. Era evidente che a tutti non poteva piacere questa cosa e ho scelto che il personaggio, il nonno, non fosse a favore di questa cosa".
nr. 30 anno XXIII del 1 settembre 2018