NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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L'acqua di colonia
che lava le coscienze

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Acqua di Colonia

Anna Cappelli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)@artiscenichecom

 

 

Questa settimana al Teatro Astra di Vicenza è andata inscena la pièce “Acqua di Colonia” scritta diretta e interpretata dal geniale duo Daniele Timpano ed Elvira Frosini. Gli artisti romani portano in scena 60 anni di colonialismo italiano in Africa, citando circostanze dimenticate legate anche a personaggi fondamentali della cultura italiana come Indro Montanelli, ufficiale nella Campagna di Eritrea degli anni ’30 che egli stesso descrisse come una vacanza e durante la quale ebbe una sposa bambina di 12 anni che comprò per 500 lire e che poi, una volta tornato in Italia, cedette a un generale italiano. Lo spettacolo è molto dettagliato di fatti verificati ed espone, con tagliente ironia i resti culturali sedimentati in certi casi, dimenticati in altri, che caratterizzano la nostra cultura contemporanea quotidiana.

 

Acqua di Colonia (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Nello spettacolo fate riferimento a chi vi ascolta dicendo che il pubblico queste cose non le sa, nel senso che sono cose poco conosciute e poco approfondite; quelli della nostra generazione, nati negli anni ’70, queste cose le abbiamo studiate in maniera molto sommaria. Nella tua esperienza, le persone che arrivano dalle ex colonie, dalla nostra generazione in giù, sono altrettanto ignari di quanto lo siamo noi?

Daniele Timpano: “Ovviamente dipende da tanti parametri, non solo dal dato anagrafico. Nella mia esperienza mi sembra che mediamente abbiano un’idea più chiara della nostra; in Somalia si insegnava italiano a scuola, sono cose che ci racconta Igiaba Scego, consulente del progetto, scrittrice di origine somala che ha visto le prove del lavoro, quindi sicuramente queste cose sono obiettive. C’è qualcuno di questa età che dici tu che potrebbe sapere l’italiano prima di venire in Italia. Quelli che sono venuti negli anni ’70 e ’80 lo sapevano. Credo sia più “strano” per loro avere una “via Roma” ad Asmara che per noi avere “via Dire Daua” a Roma. Sono strade e palazzi che effettivamente molte sono stati fatti dagli italiani in questi quasi 60 anni di esperienza coloniale più 10 di amministrazione fiduciaria della Somalia".

C’è qualcuno, in quello che avete raccolto, che magari ha una specie di risentimento nei confronti degli italiani? Nella pièce citate il pre-fascismo, addirittura andate indietro prima dell’Unità d’Italia, più che una unificazione, un’annessione: il Piemonte invade uno stato sovrano che è il regno delle Due Sicilie…

“…Si sì sono cose che tutto sommato le diceva anche Gramsci, non le dicono solo i neoborbonici e i nostalgici…”.

Esatto: oggi i neoborbonici hanno un grande risentimento; è la stessa cosa essendo molto più vicino nel tempo?

Parlo per le cose che ho letto e che qualcuno mi ha detto, per cui non faccio un discorso generale: mi sembra che più sale la fascia di età più sono diffusi i casi in cui un eritreo o un somalo che viene in Italia ha un’idea di dove sta venendo, che c’è un legame del suo Paese col nostro, al di là di quello che ne pensi. Un romanzo autobiografico che abbiamo letto, “il latte è buono” di Garane Garane, descrive un’immigrazione benestante negli anni ’70 fatta da una persona ricca: lui è venuto col mito dell’Italia, sapeva Dante a memoria, la sua scuola era intitolata, mi pare, a Carducci, è venuto in Italia sentendosi che quasi tornava in una mitica madre patria poi appena atterrato all’aeroporto lo hanno trattato come un “negro” qualunque, poi ha scoperto un’asimmetria dell’esperienza. Noi abbiamo un rapporto reciproco tra i due Paesi: bene o male uno se lo ricorda, l’altro mediamente zero. Poi chiaramente parlo degli anni ‘70e non 2018, secondo me c’è una consapevolezza media maggiore di là che di qua. Adesso se ne sta parlando molto di più anche se sempre a livello di nicchia".

La ragazza che portate in scena chi è?

Si chiama Sonia, lavora al bar Astra, l’abbiamo trovata attraverso lo staff del Teatro Astra, non la conoscevamo prima di oggi. La parte di questo spettacolo prevede un’ospite in scena che mediamente non conosciamo, sa di cosa parliamo perché glielo spieghiamo ma non conosce il testo perché non ha visto prove; sta in scena con noi ma noi la ignoriamo. Tu dici: com’è questa scelta? Potrei rimandarti la cosa e chiederti che impressione ha fatto a te, sono curioso, e poi dirti le nostre intenzioni".

La mia impressione è di vedere una ragazza giovane, quindi magari alla 3° o 4° generazione rispetto ai fatti raccontati, per cui sicuramente lontana nella storia, questi fatti probabilmente la riguardano nella misura che può essere il nome di una strada ecc. è una ragazza giovane, probabilmente anche italiana, di origine straniera che si sente forzatamene chiamata in causa e che non può intervenire, perché il testo non lo prevede, che si sente dire delle cose che sono scritte da degli intellettuali che citano altri intellettuali. Si sente richiamata in una situazione che magari lei può aver vissuto in una circostanza di ignoranza e invece la vive in un momento di cultura e non può rispondere, per cui c’è questo corto circuito culturale.

Acqua di Colonia (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)“Sì, penso che sia giusta e anche vera, le intenzioni coincidono, credo: noi non la facciamo parlare perché non le diamo il diritto di parola. In tutto lo spettacolo facciamo anche gli spiritosi ma facciamo anche delle cose violente, sottilmente. Tu infatti hai notato che noi l’ospite la ignoriamo: io mi ci metto vicino e parlo di stupro, parlo di scoprire l’Africa e mi ci metto davanti come se non ci fosse, la “impallo”. Oppure, non è il caso specifico,non per forza l’ospite in scena è musulmana, anzi spesso non la è perché in Africa c’è anche molto cattolicesimo importato dai missionari occidentali, però uno è anche abituato a fare l’associazione. Come hai visto a un certo punto bestemmiamo Allah: uno è portato a pensare: “Oddio metti che è musulmana, cosa penserà". Quindi facciamo una serie di cose anche sgradevoli, non le diamo la parola perché tutto sommato parliamo al suo posto, che poi è quello che fa un po’ la nostra cultura: Gianfranco Rosi parla di migranti in mare in “Fuocammare”, di chi va a vedere i cadaveri dei migranti e di chi va a vederli a Lampedusa ma siamo noi i protagonisti di quella storia. sono l’oggetto del discorso non il soggetto, i migranti in mare. Quella sedia è una sedia di scuola, come se dovesse imparare qualcosa. Non le diamo la parola perché è la nostra cultura che non gliela dà, perché anche se è 2° o 3° generazione come magari il caso di questa sera, tratta l’altro come corpo estraneo nel Paese, lo ignora. Facendo lo spettacolo noi ci siamo resi conto che ce la stavamo cantando e suonando in assenza dell’oggetto del discorso e abbiamo deciso di mettere in scena anche questo imbarazzo nostro nello star parlando al posto degli altri".

Lo struggimento della cultura raffinata occidentale che con La mia Africa racconta oggi la stessa cosa degli anni ‘30” poi c’è una parte dedicata a Pasolini…

“…Sì c’è tutto l’orientalismo…”.

Sceglierebbe lui perché è autentico per questo personaggio. Sembra quasi che la cultura che è sempre stata rivendicata come strumento di riscatto e riconoscenza sia una colpa che ti porta a commuoverti delle scene che vedi, della natura.

Ah si, questo è un discorso che abbraccia la “Description de l’ Égypte” dei tempi di Napoleone quando gli scienziati con le campagne in Egitto di Napoleone facevano questi bei disegni dell’Egitto dove ci sono sfingi, rovine ma non c’era mai un egiziano neanche per sbaglio. Anche nei racconti: hanno combattuto con i mamelucchi e invece esistono solo gli inglesi, non gli abitanti di quella zona. È una specie di scenografia teatrale, lo scrive anche Said in “Cultura e imperialismo” e tanti testi interessanti dove parla di questa deformazione occidentale, d’essere il centro del mondo quando il mondo è più vasto dell’Occidente che dal 700 scandisce i tempi del mondo. Pasolini che va a fare gli “Appunti per un’Orestiade africana”, volendo ambientare un fondamento della cultura classica occidentale in Africa perché ci sono ancora le facce rozze non corrotte dalla civiltà, in questa mitizzazione dell’“Altro mondo”. C’è una linea tra Rousseau e Pasolini, noi alla fine sostituiamo, non è un caso, Ninetto Davoli un subalterno, sottoproletario che prende il posto dello sfruttato nero".



nr. 05 anno XXIV del 9 febbraio 2019



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