NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Bosnia, “Guerra e Pace”

Viaggo tra sarajevo e Mostar a 15 anni dalla fine della guerra

di Federico Murzio
f.murzio@libero.it

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Murzio - Sarajevo

Sono due gli elementi che colpiscono chi va in Bosnia-Herzegovina per la prima volta oggi, a quindici anni dalla fine della guerra. Il primo sono i cimiteri: anche il più piccolo villaggio ne ha almeno due e sono prevalentemente musulmani. Il secondo è il paesaggio pietroso, incolto, fitto di arbusti e di scheletri di abitazioni che non si capisce bene se sono eredità della guerra o il simbolo della nuova Bosnian way of life: ognun per sé, e Dio (uno qualsiasi) per tutti.
Questo offre il panorama se si entra in Bosnia dal confine sud-occidentale dopo esser sbarcati a Spalato e aver attraversato il confine croato. La strada è quella che porta a Livno e che prosegue sull’unica via in direzione Mostar e Sarajevo. Ci si tiene sulla direttrice dove croati e serbi si rincorrevano a schioppettate tra il 1991 e il 1992. La stessa strada ha assistito alla rotta dei profughi bosniaci scacciati dai serbi meno di un anno dopo. Ed è la stessa che tra il 1992 e il 1995 riforniva di Kalashnikov, di munizioni e mezzi blindati i croato-bosniaci che massacravano i musulmani-bosniaci già vittime della pulizia etnica serba e serbo-bosniaca. Già, è tutto molto complicato in Bosnia-Herzegovina.
La pace del 1995 è riuscita là dove, in secoli di convivenza, il problema non è mai stato all’ordine del giorno: dividere questa terra sulle basi di un apartheid in salsa balcanica. Lo si capisce anche dalla segnaletica stradale. I cartelli sono scritti in tre lingue, ma secondo il territorio dove essi si trovano, i vari gruppi etnici hanno cancellato con lo spray il nome cirillico o il nome croato o quello bosniaco. Parafrasando Clausewitz, sono molti a pensare che qui la pace non sia che la prosecuzione della guerra con altri mezzi.
Chi può emigra.

Ciò che resta della pace

È il caso di Elma Sokolovic, una solare ventenne bosniaca conosciuta sul traghetto che da Ancona attracca a Spalato. «I miei genitori sono arrivati in Italia agli inizi del ’91, poco prima dell’inizio della guerra –racconta- Gli altri parenti, quelli sopravvissuti all’assedio, abitano ancora a Sarajevo». Ed è lì che Elma sta andando. La famiglia di Elma appartiene a quel 48% di musulmani-bosniaci che popolano la Bosnia-Herzegovina e il cui essere musulmano si riduce al rispetto di tre o quattro tradizioni. Il velo, ad esempio, lei non sa nemmeno cosa sia. Anche oggi a guerra finita un’indagine conferma che l’incidenza dei musulmani praticanti non superi il 17%. Dice Elma: «La guerra non è stata lo sfogo di fanatismi religiosi, ma il desiderio degli Stati confinanti di annettersi pezzi della Bosnia. Così si è fomentato l’odio etnico». E ora? «Io mi sento prima di tutto bosniaca, il Dio in cui credo non ha importanza».
Che questo lo dica una ragazzina bosniaca e non siano riusciti a capirlo prima e durante la guerra la CEE e l’ONU rimane un mistero. Alberto Bonifacio, un vicentino che i Balcani li frequenta dal 1981 mi spiega: «Per fermare i serbi nel 1992 i diplomatici occidentali proposero un piano di pace che suddivideva la Bosnia in cantoni etnici e che poi è rimasto alla base di tutti gli altri negoziati. Questo ha messo i croati e i musulmani della Bosnia gli uni contro gli altri». Quindici anni dopo «resta la diffidenza», ammette Elma Sokolovic alzando le spalle. «Ogni famiglia ha avuto i suoi lutti. Si pensa questo: chissà se il mio vicino di casa serbo o croato è lo stesso che ha ammazzato i nostri parenti durante la guerra. I croati e i serbi pensano la stessa cosa».
Il clima è pesante. E non solo perché alla dogana i poliziotti sono nervosi. Le reciproche vessazioni, le piccole umiliazioni tra croati, serbi e musulmano-bosniaci continuano. La dogana croata di Spalato ne è un buon esempio: mentre gli italiani passano senza problemi, ad Elma è verificato il passaporto, chiesto il permesso di soggiorno, la provenienza. Il bagaglio è aperto e controllato. Vedo una poliziotta croata esibire della biancheria intima sotto gli occhi di Elma e chiederle se le appartiene. Per evitare guai bisogna mantenere la calma. «Ai bosniaci riservano sempre un trattamento “speciale” –si sfoga la ragazza una volta attraversato il blocco- Ma se fossi serba sarebbe anche peggio: alla stazione della polizia potrei perderci tutta la giornata».

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