NR. 08 anno XXIX DEL 27 LUGLIO 2024
la domenica di vicenza
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Bosnia, “Guerra e Pace”

di Federico Murzio
f.murzio@libero.it

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Murzio - Sarajevo

C’era una volta Mostar

C’è un sasso seminascosto sulla prima torre dell’antico ponte di pietra. E un’incisione: “Don’t forget ’93”, “Non dimenticare il ’93”. Molto più di un memento, quel sasso è la lapide sotto la quale è sepolto un patrimonio culturale condiviso per secoli da croati, musulmani, serbi e dalla piccola comunità ebraica di Mostar.
Se nel 1992 i serbi demolirono un monastero francescano, la cattedrale cattolica, dodici moschee e la biblioteca vescovile con 50 mila libri. Il ’93 fu l’anno della distruzione dell’antico ponte a causa dei mortai croati. La città, poi, fu divisa in due: a ovest del fiume Neretva i croati, a est nella Stari Grad, città vecchia, i musulmani. Il ’93 fu anche l’anno della pulizia etnica, croato-bosniaci contro musulmano-bosniaci, mentre i serbi dalle colline bombardavano indistintamente la città. Come dire: ci siamo anche noi! «Ricordo i campi di concentramento alla periferia della città, le fosse comuni, gli stupri, e tanti tanti morti», osserva Edita Pajic. Questa trentenne bosniaca è referente dell’SOS-Kinderdorf, una struttura donata dal governo austriaco, mezzo orfanotrofio e mezzo casa d’accoglienza per famiglie problematiche.
Alcuni edifici sono rimasti come alla fine della guerra, le mura forate da innumerevoli colpi di mitragliatrici e mortai. «Prima ancora della città, si è distrutto un sistema di vita a partire dalle famiglie», spiega Edita. In Bosnia i matrimoni misti erano il 30% dei totali. A Mostar la percentuale oscillava tra il 40 e il 45%. Poi l’odio e la colonna sonora dei secchi tum-tum-tum dei Kalashnikov hanno fatto implodere una società che prima di allora non aveva guardato la fede religiosa come discriminante tra bene e male. «Le famiglie si sono divise, umiliate, uccise», ricorda Edita. «Una sera un croato entra in casa con in mano la testa mozzata del genero musulmano intimando alla figlia di decidere da che parte stare -racconta invece Jelena, una cinquantaduenne che sopravvive nel campo profughi di Ciplijna, una frazione di Mostar- Erano i miei vicini di appartamento».
Il campo profughi di CiplijnaMostar è di fatto divisa in due anche oggi. La comunità croata è quella ricca, quella musulmana si arrangia; i poveri, sia croati sia musulmani sopravvivono. L’amministrazione è a rotazione, comanda un croato, o un musulmano o un serbo, il che non ha impedito nell’ultimo anno e mezzo che Mostar rimanesse senza sindaco per l’incapacità di mettersi d’accordo. «Il sistema è un compromesso –sintetizza Edita Paijc- Di fatto, governando tutti non governa nessuno».
Anche nella ricostruzione continuano i dispetti. La cattedrale cattolica dedicata ai santi Pietro e Paolo è stata riedificata dalle fondamenta: ora la chiesa è un cubo di cemento a vista che si scaglia al cielo. Da secoli però c’era un tacito patto tra le comunità: campanili cattolici, ortodossi, sinagoghe e minareti dovevano avere la stessa altezza a dimostrazione di uguaglianza. Oggi il nuovo campanile cattolico sovrasta tutti, per poco non scoppiavano altri scontri. Si convive con l’incertezza dice Edita: «Qui ti svegli speranzoso, puoi essere felice a mezzogiorno, disperato o morto la sera».

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